Report a cura di Federico Orano
Foto ufficiali del Barcelona Rock Fest
Barcellona, città spagnola che è sinonimo di sole, mare, divertimento e, tra giugno e luglio, ormai da qualche anno a questa parte, anche di grande hard rock ed heavy metal ai massimi livelli! Il Barcelona Rock Fest è un evento ormai rinomato a livello internazionale, un appuntamento estivo che ha raggiunto lo status di ‘top festival’ riuscendo a presentare, ad ogni edizione, un bill di assoluto interesse. Dopo due anni di stop, a seguito delle ben note vicende legate alla pandemia, la tre giorni di concerti in quel della Catalogna è tornata, fissando le date per giovedì 30 Giugno, venerdì 1 e sabato 2 Luglio all’interno del confermato Parc De Can Zam, un’immensa area all’aperto alla quale si accede facilmente utilizzando la linea 9 nord della metro (che ha come capolinea proprio la fermata di Can Zam). Più difficile raggiungere il centro o far ritorno al proprio albergo alla sera poiché il servizio notturno della metro è attivo solamente al sabato. Bus, taxi o una lunga e ‘defaticante’ camminata sono le alternative.
Questa nuova edizione del Rock Fest ha dovuto certamente superare molteplici difficoltà a partire da quella più importante legata alle band. È nota a tutti ormai la querelle tra l’organizzazione ed i Manowar, con la storica epic metal band americana che solamente qualche giorno prima del festival è stata cancellata dal bill e prontamente sostituita con Avantasia, lasciando qualche strascico di polemica tra i fan. Ma qualche altra defezione è arrivata, senza alcuna responsabilità per l’organizzazione, anche per altri gruppi: gli americani Symphony X ed i giapponesi Anthem hanno annullato il tour europeo, Saxon e Rock Goddess a causa del virus hanno cancellato la loro performance e infine qualche problema con i voli aerei che hanno costretto Bullet e Diamond Head ad alcuni cambi di programma. Qualche inconveniente si è notato anche durante il primo giorno quando, giunti a destinazione pronti per iniziare l’avventura ed immergerci nell’atmosfera del tanto atteso festival spagnolo, notiamo una fila chilometrica in attesa dell’apertura dei cancelli. Un ritardo di oltre un’ora che ha creato una coda immensa che girava attorno a tutto il quartiere e che ha consentito solamente a pochi la presenza durante lo show dei Blackowl, prima band in programma. Ma nonostante tutto ci si è potuti godere tre giornate all’insegna della musica che amiamo nei migliore dei modi, grazie alla solita ottima atmosfera che si respira durante gli eventi spagnoli, con un pubblico corretto e festaiolo e la possibilità di gestire al meglio il proprio tempo durante la giornata. Al Rock Fest sono presenti molti stand per accaparrarsi una birra o un ‘refresco’, come dicono loro – ad esempio lo storico calimocho fatto con vino rosso e coca cola, da provare! – il tutto a prezzi ragionevoli (3 euro la birra piccola, 10 la grande e solamente 1 euro per l’acqua) e sono vari gli stand pronti a rifocillare il pubblico tra carne argentina, hamburger, kebab, pizza e qualcosa di vegano. E la possibilità di uscire per evitare le code nelle ore più frequentate è sempre un’opzione apprezzabile. Per quanto riguarda il lato prettamente musicale, sono due i palchi principali dove si alternano le band di punta dalle 15 fino circa alle 3 della notte, per dodici ore filate di musica, mentre in un tendone posto a pochi centinaia di metri sorge invece la Rock Tent, palco più piccolo dove trovano spazio altre band, spesso altrettanto interessanti. Durante le varie esibizioni qualche problemino di suono è sopraggiunto, soprattutto nel palco più piccolo, ma nel complesso ed in particolare per le band principali, ci si è potuti godere uno spettacolo ai massimi livelli. Insomma, prima di andare ad analizzare in dettaglio i tre giorni del festival, possiamo certamente tirare le somme, consigliando questo appuntamento estivo a tutti gli appassionati della nostra musica.
GIOVEDI’ 30 GIUGNO
Varchiamo a fatica i cancelli, ma siamo prontissimi ad immergerci nell’atmosfera del festival!
Ai BLACKOWL, band di casa che come anticipato ha dovuto esibirsi davanti ad un pubblico esiguo, è stata data una seconda chance fissando un nuovo show durante la giornata successiva. Nel frattempo il pubblico comincia a fare copiosamente il proprio ingresso prendendo così posto davanti ai palchi, tra il verde attorno all’area concerti e davanti ai chioschi per dissetarsi fin da subito con una fredda birra. Scopriamo, tramite un comunicato online, che i BULLET, previsti a breve, dovranno dare forfait momentaneo a causa di problemi con i voli. Poco importa, i nord irlandesi STORMZONE sono pronti ad aprire le danze con il loro mix di heavy metal classico e hard rock. La band punta su brani dalla struttura semplice con un tocco melodico che fa subito colpo. Non a caso sono alcune centinaia i fan che nonostante il sole cocente non si risparmiano e si esaltano sotto il palco. Sette dischi alle spalle, dai quali vengono estratti una decina di pezzi come la possente “Three Kings”, che tra riff potenti e coretti ben piazzati è perfetta per scaldare gli animi. Un arpeggio ed atmosfere più ricercate e sofferte aprono la strada di “The Legend Carries On”, brano di oltre nove minuti, mentre le facili melodie di “Another Rainy Night” fanno cantare tutti i presenti. Il quintetto di Belfast tiene bene il palco con uno show – durato all’incirca un’ora – più che onesto capace di accendere i motori della tre giorni di festival.
Si corre per passare alla struttura laterale dove lo spettacolo dei MYRATH sta per iniziare. Un palco non troppo grande all’interno di un tendone dove il caldo si fa sentire ed un pubblico numeroso che ne riempie quasi ogni angolo; l’attesa per la band tunisina è altissima! Ed il gruppo mette in piedi un grande spettacolo nonostante qualche problemino con i suoni, in particolare nella fase iniziale. Dopo l’intro, infatti, i Nostri partono con carica e disinvoltura, con lo spettacolare ingresso del cantante Zaher Zorgati da un pannello centrale che si alza facendo cadere il telo che lo nascondeva. “Born To Survive” è il pezzo scelto per aprire le danze, con il suo mix di power e prog metal e le classiche influenze orientali, caratteristica principale del sound firmato Myrath. Ma le tastiere, fondamentali per loro, sono coperte dagli altri strumenti ed il suono che esce dalle casse è un po’ impastato. Serviranno due o tre brani prima che i tecnici riescano a sistemare le cose, e così scivolano via “You’ve Lost Yourself” e la coinvolgente “Dance”. Nonostante tutto la band si dimostra carichissima; per loro, come diranno al microfono, è il primo show dopo oltre due anni di stop (e quel tour che nel 2020 ben ricordiamo, fu fermato poco prima della data italiana a Milano). Lo spettacolo continua, con gli ingressi sul palco prima di una ballerina di danza del ventre e poi di un giocoliere che, durante qualche pezzo, mostra alcuni giochi di prestigio. Si susseguono così “Storm Of Lies” e “No Holding Back” con i riff possenti di Malek Ben Arbia ed il drumming preciso di Morgan Berthet. Il pubblico è partecipe ed impazzisce sulle note di “Believer” che viene cantata da tutti i presenti, mentre a chiudere lo show ci pensano le note più folcloristiche ed orientaleggianti di “Shehili”. Grande prestazione quella dei Myrath, capaci di unire brani di assoluto valore ad un appassionante spettacolo visivo in un viaggio all’interno della loro cultura, incendiando fin da subito lo stage più piccolo del Rock Fest!
Vista la concomitanza tra le due band, ci perdiamo i GOTTHARD. Poco importa perchè di li a poco toccherà ai teutonici Accept dare lezioni di classic heavy metal. Prima riusciamo ad assistere a qualche brano degli ucraini JINJER: il loro sound moderno ed esplosivo coinvolge diversi appassionati grazie anche ad una presenza scenica importante. Merito di Tatiana Shmailyuk, che canta in growl con la sua voce possente e sprigiona carica ed energia sopra il palco, mentre chitarroni pesanti affondano facendo vibrare le casse, rimbombando forte sulle note di “Vortex” e “Colossus”, che chiudono il concerto tra gli applausi per la band di Donetsk, riuscita a partire in tour nonostante il conflitto che sta affliggendo il loro paese.
Gli ACCEPT sono attesissimi e per la prima volta dall’inizio del festival, si nota una presenza di pubblico massiccia davanti al loro stage. Riusciamo a piazzarci comunque in una buona posizione per assistere alla prestazione di Wolf Hoffmann e soci. Il tempo a disposizione per la loro esibizione non è molto (solamente un’ora) e così senza spendere parole inutilmente i Nostri piazzano uno show compatto e possente. Nessuna pausa, neppure l’ombra di qualche sfoggio di tecnica con lunghi soli di chitarra o batteria; gli Accept puntano al sodo scaldando i motori con la nuova e quadrata “Zombie Apocalypse” per poi passare all’energica “Overnight Sensation”, con un coretto che è davvero difficile non cantare. Bisogna ammettere che questi brani più recenti hanno un impatto live notevole ma mai, ovviamente, come le super hit del glorioso passato della band. A tal proposito viene subito concesso largo spazio ad un disco storico come “Restless And Wild” dal quale vengono estratte oltre alla titletrack anche l’inno teutonico “Princess Of The Dawn” e l’esplosiva “Fast As A Shark”, un trio spezzaossa che fa crescere il livello di esaltazione tra tutti i presenti. L’ugola di Mark Tornillo ha avuto forse bisogno di qualche brano per scaldarsi ma poi si è espressa con una buona precisione accompagnata dalle tre chitarre con Wolf Hoffmann, Uwe Lulis e Philip Shouse che sono riuscite a creare una barriera sonora infrangibile. Un chiaro esempio di tutto questo arriva con l’immortale “Metal Heart” grazie la quale la carica generale è balzata a mille. Le possenti vibrazioni di “Teutonic Terror” hanno aperto la via alle immancabili hit “Balls To The Wall” e “I’m A Rebel” per un’uscita tra gli applausi. Gli Accept sono sembrati un po’ statici, dando forse la sensazione di essere venuti qui a Barcellona a fare il loro compitino, ma alla fine il loro show è stato preciso e potente, senza alcuna sbavatura dimostrando una professionalità non da poco. Cambiamo sonorità visto che nel palco adiacente è il turno di una leggenda americana del punk, hard rock e folk; parliamo dei DROPKICK MURPHYS! Possiamo assicurarvi che l’esplosivo show del gruppo di Boston è stato tra gli highlight assoluti della prima giornata del Rock Fest: merito di una carica notevole e di brani che sono riusciti ad incendiare lo scenario. Il sestetto del Massachusetts utilizza mandolino, banjo, bouzouki e cornamuse, mescolati alla perfezione con quelli elettrici come chitarre e basso. Ciò che fa la differenza è proprio l’impatto scenico del gruppo, che corre e si diverte sopra il palco trasmettendo la stessa esaltazione anche al pubblico. “The State Of Massachusetts” fa saltare e cantare tutta la platea ma lo show continua prima sui ritmi festaioli di “Turn Up That Dial” poi con le più classiche sonorità punk di “Good As Gold”. Qualche cover rivista in chiave irish, tra le quali riconosciamo “T.N.T.” degli AC/DC e poi il gran finale prima con le note più malinconiche di “Kiss Me, I’m Shitfaced” – che ci riportano direttamente al bancone di un pub irlandese dopo una pesante sbronza – e poi con la più scintillante “I’m Shipping Up to Boston”. Tante energie spese, ma un risultato notevole per la band americana che lascia il palco con la certezza di aver dato vita ad uno spettacolo ricco di adrenalina. Un autentico spasso assistere allo show dei Dropkick Murphys!
Sarà che l’atmosfera di festa messa in piedi dal gruppo di Boston ha lasciato qualche strascico, sarà che i NIGHTWISH non hanno scelto la miglior setlist possibile – almeno per gli appassionati più datati della band finlandese – ma lo show di Tuomas Holopainen e soci è sembrato un po’ freddo fin dall’inizio con una lunga intro sinfonica. La partenza affidata a “Noise” – pezzo estratto dall’ultimo album in studio “Human. :II: Nature.” – non è forse la più adatta per partire, innescando subito le marce alte, ma in generale il quintetto scandinavo si è espresso, seppur con la solita enorme classe e precisione, senza la carica che avremmo sperato. Peccato perchè alcuni momenti esaltanti ci sono stati; prima con “Planet Hell”, robusto e possente brano ricco di orchestrazioni estratto da “Once”, poi con le canticchiabili “Élan” e “Nemo”, immancabili singoli che hanno ottenuto negli anni un successo notevole ed infine con l’esplosiva vivacità di “I Want My Tears Back”. Bellissimo riascoltare “Dark Chest Of Wonders”, brano magico contenuto anch’esso in quell’immenso disco che risponde al nome di “Once” – saranno ben quattro le canzoni pescate da questo lavoro – che però la stessa Floor fatica leggermente a cantare; dopotutto le note altissime che raggiunge Tarja in questo pezzo sono difficilmente replicabili. La lenta “Sleeping Sun” emoziona più di qualche presente e la maestosa riproposizione di “Ghost Love Score” tocca probabilmente l’apice di uno show che si chiude con le note bombastiche e sinfoniche della lunga “The Greatest Show On Earth”. Forse un po’ arrugginiti dopo la lunga pausa, i Nightwish non sono mai stati delle furie sul palco ma in quest’occasione ci sono sembrati ancora più flemmatici che in passato.
Tutto è pronto per gli headliner della prima giornata. Non i Manowar come previsto inizialmente quindi, ma la creatura di Tobias Sammet: AVANTASIA. Chiamati all’ultimo, il supergruppo fondato dal biondo cantante tedesco è riuscito a metter su uno show più che onesto. Qualche sbavatura ogni tanto e soprattutto qualche problema con il sound, colpa del basso che rimbombava troppo forte coprendo tutto il resto per almeno una manciata di brani; un vero peccato visto che la partenza con “Twisted Mind” e “Reach Out For The Light” poteva già valere il prezzo del biglietto o quasi. Gli ospiti, come sempre scelti con cura dal mastermind di questo progetto salgono uno alla volta sul palco, e la novità rispetto al passato è la presenza di Ralf Scheepers, leggendario ed amatissimo cantante dei Primal Fear, ma bisogna ammettere che la mancanza di Michael Kiske si è fatta sentire parecchio. La sua voce limpida, capace di toccare note altissime, è protagonista in diversi brani scelti nella setlist e si è cercato di sostituirla, a tratti con lo stesso cantante sopracitato e passato anche nei Gamma Ray, altre volte con la voce squillante ma di stampo maggiormente rock di Eric Martin (Mr. Big); i risultati, dobbiamo però ammettere, sono stati altalenanti. Lo show prosegue con “The Scarecrow”, brano leggendario dove la presenza del vichingo Jorn Lande ha fatto vibrare l’atmosfera e poi via con le power song “Let The Storm Descend Upon You” e “Promised Land”. Pelle d’oca quando appare sul palco Bob Catley, ed immancabile la presenza dello storico cantante dei Magnum per duettare con Tobias sulla sognante ballata “The Story Ain’t Over”. Si gioca facile andando a ripescare due pezzi stratosferici come “Avantasia” e “Farewell”, estratti dal meraviglioso debutto discografico “Metal Opera pt. 1”, e cantati a squarciagola dai trentamila presenti. Volendo fare i puntigliosi e avendo visto più volte la band dal vivo, anche qui un piccolo appunto su Adrienne Cowan andrebbe fatto: per quanto la brava cantante americana abbia una voce dinamica e capace di adattarsi ad ogni tipologia di sound, ha faticato un po’ a cantare le linee vocali celestiali di “Farewell”, dimostrando di non possedere di certo la presenza scenica ed il carisma di Amanda Sommerville, cantante che l’ha preceduta. E’ tempo del gran finale prima con “Lost In Space”, solita canzonetta un po’ soporifera che però non smette di far parte della setlist di ogni concerto firmato Avantasia, e poi con l’esplosivo epilogo sulle note di “Sign Of The Cross” (alla quale, nel finale, sopraggiunge come sempre il coro di “The Seven Angels”) con tutti i musicisti che salgono sul palco per dare il proprio contributo finale tra gli scroscianti applausi. Abbiamo assistito in passato a degli Avantasia più in palla? Certo! Ma questo non toglie che la band di Tobias Sammet abbia offerto uno spettacolo comunque degno di chiudere da headliner il cartello della prima giornata del Rock Fest.
Torniamo a casa non del tutto soddisfatti, qualche problema organizzativo ed in generale la sensazione di aver trascorso una giornata piacevole ma senza esser stati testimoni di alcune performance memorabili. E’ tempo di riposare perchè il meglio deve ancora venire!
Myrath
Accept
Nightwish
Avantasia
VENERDI’ 1 LUGLIO
Recuperate le energie si torna sul campo di battaglia con una certa attesa per la seconda giornata del Rock Fest 2022; il programma del Venerdì è davvero ricco e non vediamo l’ora di viverne ogni secondo al massimo. Ingresso rapido ed immediato ed alle 15 esatte i REEF sono già sul palco per battezzare questa nuova giornata: la loro dose massiccia di stoner ed hard rock dalle chiare tinte americane è ideale per scaldare subito i motori. L’ugola graffiante del singer Gary Stringer si esalta sulle note di “Shoot Me Your Ace” e “Higher Vibration”, uno-due davvero diretto e possente posto in partenza. La band inglese nata nel 1993 ha ancora la carica dei tempi migliori e non si fa certo scrupoli nel dover suonare sotto un sole cocente nelle prime ore della giornata. Chitarre potenti ed un basso preciso e costante spinto dal barbuto ed iconico Jack Bessant – membro fondatore – continuano a correre spedite sulle note di “I’ve Got Something to Say” mentre nella successiva “Place Your Hands” escono tutte le influenze blues della band. Alcune file di coraggiosi appassionati rmangono davanti al palco a cantare e dimenarsi sulle note psichedeliche di “I Would Have Left You” e infine durante la chiusura affidata a “Yer Old”. Che buon battesimo per questa seconda giornata con i Reef, promossi a pieni voti!
Ci trasferiamo nel palco più defilato, la Rock Tent, per ammirare la furia heavy-speed metal dei belgi EVIL INVADERS, band costruita per dare il proprio meglio dal vivo grazie a brani dalla potenza mastodontica. Forti della loro ultima fatica discografica “Shattering Reflection”, il quartetto nordico martella senza soste per un’ora con riff continui ed il cantato aggressivo del loro leader. Una tracklist esplosiva e furiosa che passa attraverso brani come “Eternal Darkness”, “Die For Me” e “Raising Hell”, infuocando lo stage a suon di heavy metal old-school e scatenando un pogo esagerato (ma corretto) che puntualmente prende forma a ridosso delle transenne. Carica esplosiva incontrollabile con lo show degli Evil Invaders.
Musica tradizionale e alternative metal che si uniscono a sonorità tirolesi: può sembrare un mix senza senso e invece i KONTRUST si sono tuffati in questa avventura. Percussioni da una parte, batteria dall’altra; la voce maschile filtrata e quella femminile più classica, con basi elettroniche che fanno da contraltare a chitarre possenti. Tutto questo si fonde assieme formando un impasto sonoro interessante e simpatico, che dal vivo riesce a risultare piacevole. Il gruppo è carico e voglioso di presentare la propria proposta sonora ad un pubblico curioso, e così vengono proposti alcuni brani pescati dalla discografia ancora breve dell’act austriaco con “Bomba” (singolo che in Olanda fece un gran successo) e poi “Adrenalin”, “Just Propaganda” e “Raise Me”. Agata Jarosz e la sua band hanno certamente reso scoppiettante il main stage con un’oretta di heavy metal sicuramente originale.
Apprendiamo che per problemi legati ai voli anche i Diamond Head dovranno, momentaneamente, saltare la loro performance. Ci rifacciamo dando un’occhiata agli ORANGE GOBLIN che con il loro stoner psichedelico fanno il loro sporco lavoro incendiando il palco minore. Il pubblico è presente e partecipe, e grazie anche alla carica che trasmette il gigantesco cantante londinese Ben Ward, lo show è un’autentica mazzata. “Scorpionica”, “Sons Of Salem” e “Saruman’s Wish” aprono il concerto disseminando adrenalina purissima tra la folla, “The Devil’s Whip” ruvida ed oscura, colpisce con energia, ma il quartetto inglese continua a testa bassa senza troppi fronzoli ma con la convinzione e l’esperienza di chi ne ha vissute tante. La voce piena e vibrante di Ben, con i riff di chitarra pieni e possenti suonati da Joe Hoare ci accompagnano fino al finale con la roboante “Red Tide Rising”. Un po’ troppo lineare, forse, la proposta degli Orange Goblin ma la capacità di propagare carica ed energia è apprezzata da tutti i presenti.
L’esaltazione del thrash metal di matrice Bay Area dei CRISIX é protagonista subito dopo nel main stage. Il gruppo di casa ha sempre energia da vendere con brani da pogo sostenuto, ed in patria sono amati anche per questo. Visti altre volte dal vivo, il loro impatto è sempre devastante. Anche stavolta non deludono le attese e con la loro attitudine di altissimo livello riescono a piazzare una dopo l’altra delle autentiche mazzate ricche di carica esplosiva, come “Leech Breeder”, “Get Out of My Head” e “Bring ‘em to the Pit”. Un concerto granitico che scorre via senza soste, una vera e propria certezza!
Zero effetti speciali ma una classe che solo poche band possono mettere in mostra sera dopo sera. Gli UFO sono attesi da migliaia di persone che non vedono l’ora di cantare i grandi classici che la band inglese ha composto nel suo periodo più storico. Ed il quintetto capitanato da Phil Mogg non delude le aspettative, aprendo subito la strada con “Fighting Man” e poi via sulle note di “Only You Can Rock Me”. Sono solamente le 20.30 e c’è ancora il sole che inizia timidamente a tramontare. Immaginiamo come sarebbe ancora più ineguagliabile l’atmosfera se durante questa esibizione ci fossero le stelle, creando un effetto visivo maggiormente emozionante. La storica band britannica non demorde e lascia il segno con i precisi soli di chitarra firmati da Vinnie Moore e le tastiere del celeberrimo Neil Carter. Una forte coesione che questi musicisti mostrano sul palco dando un preciso segnale di come si dovrebbe suonare la musica che amiamo. Il trio finale è da antologia: il riff di “Rock Bottom” parte tra il boato del pubblico che inizia a danzare sulle note rockeggianti di questo pezzo leggendario. Ma si prosegue con la canzone più famosa mai scritta dalla band: “Doctor Doctor” è un brano che ha fatto la storia del rock e ancora oggi riesce ad unire intere generazioni, mentre a chiudere ci pensa poi “Shoot Shoot”. Il tempo è volato e i musicisti sono costretti a salutare l’affezionato pubblico che ha apprezzato non poco questo tuffo nell’era d’oro dell’hard rock. Precisi, costanti, esperti; senza troppi fronzoli gli Ufo danno lezione ancora a moltissime altre band e anche stavolta confezionano uno show intenso e 100% rock. Leggende!
Un attore che ha la platea ai suoi piedi grazie ad uno spettacolo che tiene incollati i presenti per oltre un’ora e mezza. ALICE COOPER mette in piedi uno show spettacolare a partire dalle scenografie, con il suo castello orrorifico all’interno del quale combatte le varie creature oscure che incontra, dei musicisti di alto livello e la sua capacità di tenere il palco in maniera sublime. Ogni cosa è studiata al dettaglio durante lo spettacolo, dalle pose con i compagni, ai cambi di look fino ai combattimenti con i propri incubi che si materializzano sul palco.
“Nightmare Castle” apre la via alla mastodontica “Feed My Frankenstein”, prima che “Bed Of Nails” venga sparata a tutto volume. Il pubblico apprezza e si lascia incantare dallo showman americano che si dimostra anche in forma dal punto di vista vocale. “Hey Stoopid” riesce a coinvolgere tutti i presenti che cantano osservando le movenza del loro idolo, prima che il duetto armonica, suonata da Alice, e chitarra dia spettacolo con la brava Nita Strauss in una delle sue ultime performance con la band, visto che è di qualche giorno la notizia della sua uscita dalla formazione con il ritorno dello storico chitarrista Kane Roberts. Le note AOR di “He’s Back (The Man Behind the Mask)” sono tutte da cantare prima che la super hit “Poison” venga sparata a tutto volume, con il pubblico esaltato a cantare insieme a mister Cooper. Dopo le note blueseggianti di “Billion Dollar Babies” ci pensa la martellante ed oscura “Roses On White Lace” a colpire con audacia. Si avvicinano i titoli di coda, con la teatrale interpretazione di “Steven” ed “Escape”, quest’ultimo altro pezzo – saranno quattro in totale – estratto dallo storico disco “Welcome To My Nightmare”. È sulle note di “School’s Out” che infine la band saluta l’audience tra un tripudio di applausi. Grandi musicisti, spettacolo studiato e proposto nei minimi particolari: Alice Cooper esce tra un pubblico in delirio dopo uno show memorabile.
Neppure il tempo di tornare alla realtà dopo una performance fiabesca e straordinaria come quella messa in piedi da mister Cooper, che poco più in là, nel palco di fianco, tutto è pronto per dar vita allo show oscuro di King Diamond con i suoi MERCYFUL FATE Un concerto atteso da tantissimo tempo anche qui in Spagna ed il gruppo danese, come già confermato al nostro Rock Castle nel weekend precedente, si dimostra in formissima. King Diamond al microfono, con la sua voce inconfondibile ed un carisma che non si compra da nessuna parte, riesce a cantare ancora alla grande e brani leggendari come quelli proposti non possono che incendiare lo scenario. “The Oath” e “The Jackal Of Salzburg” per aprire le danze, con le chitarre esplosive di Hank Shermann e Mike Wead che alternano riff di puro acciaio ad assoli al fulmicotone; la sessione ritmica non è da meno con un veterano come Joey Vera a dettare i ritmi con la sua tecnica sopraffina al basso. Ma è il cantante mascherato il vero protagonista sopra il palco; si muove con autorità tra un urletto e l’altro, riuscendo ancora a toccare note altissime. “Black Funeral” è una carica infernale, esaltata dall’enorme croce rovesciata che spicca dal palco illuminando lo scenario. “Melissa”, attesissima da tutti, viene riproposta con precisione prima che “Curse Of The Pharaohs” ed “Evil” vengano sparate con insistente carica e decisione. Nel finale non poteva certamente mancare la lunga e tenebrosa suite “Satan’s Fall” che confeziona alla perfezione uno show memorabile d indimenticabile. Una scaletta scelta con attenzione andando a pescare dai dischi più datati ed amati della band ed una performance ai limiti della perfezione per i Mercyful Fate.
La serata ha già trasmesso fortissime emozioni, tanto che davamo quasi per scontata l’esibizione dei BLIND GUARDIAN quando la mezzanotte è passata da un bel po’ e la stanchezza comincia a prendere il sopravvento. Ma ci rendiamo presto conto che la performance dei bardi doveva per forza essere vissuta al massimo. Sarà che lo schermo dietro il palco ci ricorda che anche questo show andava ad omaggiare un grande disco come “Somewhere Far Beyond”, che in effetti viene riproposto quasi nella sua interezza per festeggiare i suoi trent’anni, vuoi che la partenza è subito un concentrato di esaltazione ai massimi livelli con “Into The Storm”, vuoi, infine, perchè ci si rende subito conto che c’è qualcosa di strano sul palco. In effetti ci conferma poco dopo Hansi al microfono che a causa della positività al Covid Marcus Siepen, chitarrista della band, non è potuto volare fino a Barcellona. Sarà quindi un concerto speciale con una sola chitarra e André Olbrich a fare il possibile per non far pesare questa mancanza. L’esperienza dei Blind Guardian è così radicata che consentirà al quartetto tedesco di confezionare un grande show che si è prolungato per quasi un’ora e venti, più di quanto previsto inizialmente (probabile che per qualche problema l’ultima band prevista, Ross The Boss, abbia dovuto posticipare la propria performance lasciando più spazio ai tedeschi). “Welcome To Dying”, “Time What Is Time” e “Journey Through The Dark” sono tre estratti dallo storico disco, canzoni energiche e potenti che esplono in cori tutti da cantare. Ci pensa “The Bard’s Song” a creare un’atmosfera magica, con Hansi che lascia spazio al coro vibrante del pubblico che canta ogni singola parola. E’ sempre una grande emozione. “Somewhere Far Beyond”, titletrack che la band non eseguiva dal vivo da moltissimi anni prima di questo tour celebrativo, colpisce con carica prima del gran finale dove vengono proposte le immortali ed immancabili “Mirror Mirror” e Valhalla”, quest’ultima portata avanti per lungo tempo lasciando cantare il coro a tutti i presenti. I Blind Guardian sono una band speciale, già lo sapevamo, ma questa sera lo hanno dimostrato ulteriormente. Molti gruppi avrebbero dato forfait, loro hanno voluto suonare lo stesso anche senza se non al completo, mostrando professionalità e rispetto verso i propri fan. Una performance da ricordare.
ROSS THE BOSS è pronto a chiudere la serata. Sono le 2 di notte, le energie mancano, molti stanno già pensando di tornare in branda. Ma se ci sono dei brani che possono tenerci svegli, questi sono le grandi hit che i Manowar con Ross The Boss (membro originario della band) hanno composto durante gli anni d’oro della loro storia. “Blood Of The Kings” apre lo show con energia insieme a “Sign of the Hammer” e “Wheels of Fire”. Difficile non dimenarsi durante la possente scarica heavy metal di “Blood Of My Enemies” prima e “Black Wind, Fire And Steel” poco dopo. La meravigliosa epica suite “Battle Hymn” colpisce con precisione lanciata da una prestazione niente male del cantante Marc Lopes. Il chitarrista americano sprigiona i suoi riff spediti su “Kill With Power” prima dell’anthem “Fighting the World” e dell’immancabile super inno “Hail And Kill” che manda tutti verso l’uscita senza voce. Non saranno i Manowar in persona ma Ross The Boss con la sua band ha certamente coinvolto tutti i presenti con un live show infuocato, in chiusura di una memorabile seconda giornata al Rock Fest!
Mercyful Fate
UFO
Alice Cooper
Bling Guardian
SABATO 2 LUGLIO
Grazie ad una comunicazione dell’ultima ora che conferma gli orari del Sabato, si scopre che l’esibizione dei DIAMOND HEAD verrà recuperata alle 14. Quando arriviamo al Can Zam – anche noi a concerto già iniziato da un po’ – sono pochi infatti i presenti a supportare, davanti al palco, la storica band britannica. Poco importa, il gruppo cerca di dare il meglio per chiudere a testa alta anche questa esperienza in terra spagnola. Ci riescono con brani immortali come “It’s Electric”, “Helpless” e “Am I Evil?”, un terzetto esplosivo che chiude lo show nel migliore dei modi, tre brani estratti dallo storico disco “Lightning To The Nations” che hanno fatto la storia della NWOBHM.
I BLUES PILLS sono una di quelle band ricche di classe che ai giorni nostri sono riusciti a far rivivere quel sound classico degli anni Settanta. Il loro hard rock dalle forti influenze blues é intenso e vibrante e il loro impatto live é sempre notevole. Merito della loro cantante, la brava e bella Elin Larsson, che possiede una presenza scenica notevole oltre che una voce favolosa. Vengono pescati brani dai tre dischi fin qui pubblicati, con un occhio di riguardo per lo splendido omonimo debutto “Blues Pills”. “Proud Woman” incendia questo pomeriggio infuocato a Barcellona (sarà la giornata più calda del festival) con la cantante svedese che corre e salta con un abito rosso molto in stile anni Settanta. Le chitarre di disegnano riff infuocati prima con “Rhythm In The Blood” poi con le classiche sonorità di “High Class Woman”. Atmosfere più malinconiche piombano con “Black Smoke” e “Little Sun” prima del gran finale che a suon di rock regala attimi intensi grazie a “Devil Man” e “Song From a Mourning Dove”. Che gran partenza con i Blues Pills, classe purissima tutta da vivere.
Nello stage più piccolo sono di scena i tedeschi THE NEW ROSES. Il loro é il classico hard rock che prende a mani basse dalla scena statunitense, una musica coinvolgente e dall’impatto immediato. Non a caso i quattro tedeschi fanno breccia tra il pubblico e tutti i presenti cantano e si divertono. Brani che si lasciano cantare da subito con chiare influenze che vanno da Bryan Adams a Bon Jovi fino ai Danger Danger; il cantante è bravo ad aizzare la folla e la sua voce è calda e colora pezzi canticchiabili e melodici come “Gimme Your Love”, “Glory Road” e “Down By The River”. E così é un attimo essere catapultati dalle spiagge spagnole a quelle californiane durante questa ora di coinvolgente hard rock.
Anche per i BULLET un cambio di programma imprevisto: a causa di problemi coi voli, sono stati rischedulati alla giornata odierna invece che, come previsto, in quella di apertura. Poco importa, la dedizione del quartetto svedese è ben conosciuta e anche stavolta viene confermata. Il loro hard rock fumante incendia la tenda del Rock Fest a suon di riff esplosivi, ritmi calzanti e grazie alla voce ruvida di Dag ‘Hell’ Hofer. Bastano pochi secondi per accorgersi che i brani del gruppo svedese sono perfetti per essere riproposti dal vivo. Il loro impatto è immediato anche per chi non ha mai incontrato la band prima. E così si susseguono vorticosamente “Speed And Attack”, “Bang Your Head”, “Highway Pirates” e “Bite The Bullet” in un turbine sonoro ricco di energia. Questi scandinavi forse non hanno una personalità troppo spiccata e non presentano molta varietà nelle loro composizioni, ma se si tratta di salire su un palco e fare casino, allora potete contare sui Bullet!
DORO è la regina dell’heavy metal e in Spagna gode di un amore ancora più intenso rispetto ad altri paesi (come il nostro ad esempio). Qui la ‘queen of metal’ è idolatrata da intere generazioni e non é un caso che anche stavolta ad ammirare la sua performance ci sia una platea numerosissima e calorosa. Di conseguenza la bionda cantante tedesca riserva una carica unica per i suoi fan spagnoli, e nell’oretta scarsa a disposizione dispensa inni heavy metal capaci di far cantare tutti i presenti. Tanti ovviamente i pezzi dell’era Warlock, andando a pescare anche dai primi dischi della cult band teutonica, come “Burning the Witches” dall’omonimo album e la carica heavy-speed di “Hellbound” ed “Earthshaker Rock”. Buona la prova vocale di Doro, che non può non riproporre qualche estratto dalla sua carriera solista, vedi “Raise Your Fist In The Air”, prima di lasciar spazio ad alcuni inni immortali presi dall’amatissimo full-length “Triumph And Agony” come il midtempo “I Rule The Ruins”, la sentimentale ballata “Für Immer” e l’anthem “All We Are”. Gran bello show per Doro, che saluta tutti emozionata per l’ovazione ricevuta.
La performance dei MEGADETH è certamente attesa da molti e la band di Dave Mustaine è pronta a regalare un bel viaggio tra le tortuose sonorità thrash di scuola americana. Un’ora è un po’ poco per il gruppo californiano, che comunque sale sul palco deciso aprendo la via con “Prince Of Darkness” e la sfavillante “Hangar 18”. Pochi tempi morti ma un concentrato di tecnica e grinta per il quartetto che lascia spazio ai virtuosismi del chitarrista brasiliano Kiko Loureiro prima di lanciarsi tra le note infuocate di “Angry Again” e “Sweating Bullets”. Dave trova il tempo di criticare un tecnico del suono che nello stage di fianco prova la chitarra per lo show dei Judas Priest, e poi riparte con “Dystopia” ed il gran classico “Symphony of Destruction”, altro brano leggendario con la furia esplosiva di “Peace Sells” ed i botti finali lasciati esplodere sulle note di “Holy Wars… The Punishment Due”. Diretti, precisi, possenti, sicuri di sé, ancora una volta.
Lo scenario di fianco si prepara ad accogliere i JUDAS PRIEST. Se qualcuno dei presenti aveva anche solo minimamente un dubbio sulle condizioni di forma dei ‘metal gods’, si dev’essere ricreduto dopo pochi istanti, poiché nei novanta minuti a disposizione, Halford e soci hanno messo a ferro e fuoco lo stage. Un viaggio di cinquant’anni, cinque decadi che hanno visto nascere ed evolvere l’heavy metal che tanto amiamo anche, se non soprattutto, grazie a loro, i Judas Priest. I suoni sono puliti e la potenza della chitarra di Richie Faulkner si sprigiona fin da subito con “Lightning Strike” e “One Shot At Glory”, scatenando i presenti. L’area che si respira è quella di una serata da tramandare ai posteri. “You’ve Got Another Thing Comin’” fa saltellare l’intera platea prima delle note esaltanti di “Turbo Lover”. Ovviamente il più cercato da tutti ed il maggiormente atteso è lui, il mitico Rob Harford che certamente non si muove con leggiadria (non invecchiano mica tutti come Bruce Dickinson) ma dal punto di vista vocale regala una prestazione assolutamente soddisfacente. E sul carisma c’è poco da dire, come dimostrano le note ostiche della meravigliosa “Victim Of Changes”. Il tridente gigante, simbolo dei Judas viene fatto muovere dall’alto creando effetti spettacolari mentre l’headbanging è assicurato grazie a brani immortali come “Painkiller”. Un attimo di pausa per poi ripresentarsi poco dopo sul palco facendo rombare un motore poderoso. È Harford che fa il suo ingresso a cavallo della sua moto ed un attimo dopo parte la classicheggiante “The Hellion”, nel nome del metallo più incontaminato, puro e primordiale. Che sorpresa e che emozione ad un tratto veder comparire sul palco Glen Tipton; lo storico chitarrista della band che sta lottando con il morbo di Parkinson è certamente in difficoltà nella camminata, ma è ancora in grado di essere presente per aprire con le sue sei corde i riff della leggendaria “Metal Gods” e regalare anche qualche nota nell’assolo della successiva “Breaking the Law” accompagnando la band fino alla conclusiva “Living After Midnight”.
Una grande prestazione, quella dei Judas Priest, che compiono si cinquant’anni ma che confermano di essere ancora degli Dèi.
Poteva già essere soddisfacente la serata dopo la prova dello storico gruppo britannico, ma perché non farsi una vera e propria abbuffata e godersi lo show dei celeberrimi KISS? Dagli schermi laterali vengono proiettate la classiche immagini di Nostri che escono dal camerino fino allo stage ancora coperto e che fanno presagire l’imminente inizio dello spettacolo. Il telo viene lasciato cadere ed i quattro rockettari di New York atterrano sullo stage cavalcando alcuni dei loro dischi appesi per aria. Fuoco e fiamme esploderanno durante tutta la performance, regalando degli effetti pirotecnici allucinanti. La scenografia dei Kiss è spettacolare e la band interpreta come sempre alla grande la propria parte. I quattro mascherati si muovono come macchine ben oliate mostrando la lingua, lanciando baci al pubblico e lanciando plettri. La batteria di Eric Singer si alza fino a toccare quasi il cielo mentre si susseguono “Detroit Rock City”, “Shout It Out Loud” ed “Heaven’s On Fire”. Gene Simmons gioca con il fuoco mentre i riff di “I Love It Loud” prendono forma, nel frattempo Paul Stanley si dimostra in gran spolvero; l’età si fa sentire – ma non troppo – e la sua prestazione vocale è molto più che discreta. Lo show continua con i dischi sopraelevati che si trasformano in schermi luminosi che proiettano immagini andando ad accompagnare i pezzi proposti. Si riconosce la copertina di “Animalize” durante la spettacolare riproposizione di “Lick It Up”. E quando Gene Simmons inizia a sputare sangue, il suo primo piano viene sparato dal maxischermo posizionato dietro il palco. Con “Calling Dr. Love” e “Love Gun” il pubblico va in visibilio e l’esaltazione rimane a livelli altissimi grazie al solito spettacolo pirotecnico durante l’assolo di chitarra di Tommy Thayer con fuochi d’artificio che partono dal suo strumento per poi venir rimbalzati da una zona all’altra dello scenario. Il bis arriva presto con “Do You Love Me” e “Rock And Roll All Nite” con un incedere di fiamme e fuochi che esplodono dal palco, mentre la band saluta il proprio pubblico il quale applaude consapevole di aver trascorso due ore magiche in compagnia di uno dei migliori show che si possano trovare in circolazione.
La serata sta per volgere al termine ma la programmazione del festival continua a regalare musica ai propri fedelissimi. Lasciamo stavolta suonare gli storici OBUS nello stage principale, con un pubblico ancora gremito davanti a loro, per andare ad osservare cosa hanno ancora da offrire gli esplosivi rocker danesi D-A-D. Ed il divertimento é assicurato: Jesper Binzer e soci mettono in piedi il loro solito show costruito su dosi massicce di rock intriso di fumante attitudine. La lunga storia della band può solo testimoniare la passione che questi quattro musicisti possiedono per questa musica, grazie ad una vita dedicata al rock e l’esperienza maturata con anni ed anni a calcare palchi in giro per mezzo mondo. È grazie a questo che il gruppo tiene attivo e caldo un pubblico quasi stremato da tre giorni di festival: da una parte dei pezzi capaci di trasmettere energia come “Riskin’ It All” e “Written in Water”, mischiando classic hard rock a qualche influenza blues e stoner, dall’altra come detto la capacità di tenere il palco alla grande con una tenuta scenica invidiabile. Emblematica la chitarra trasparente di Jacob Binzer che da sola esalta ogni fan. Lo show va avanti spinto da brani esaltanti come “Monster Philosophy”, “Bad Craziness” e “I Won’t Cut My Hair” quando arriva l’ora dei saluti terminando così questa nuova edizione del Barcelona Rock Fest.
Ci si avvia verso l’uscita, direzione aeroporto ripensando a ciò che si é vissuto in queste tre ricche giornate dedicate a questa nostra grande passione. Forse non tutto è stato perfetto in questa ultima edizione del festival, ma in fin dei conti tutte le band hanno suonato in orario e senza riscontrare grossi problemi e alcuni spettacoli a cui abbiamo assistito rimarranno impressi nella memoria per molto tempo. E’ il potere della musica e noi non ne abbiamo mai abbastanza.
Blues Pills
Kiss
Megadeth
Judas Priest
Kiss
Panoramica del Barcelona Rock Fest