Introduzione a cura di Davide Romagnoli e Giovanni Mascherpa
Report a cura di Giovanni Mascherpa
Croce e delizia per molti appassionati del manipolo di musicisti di Savannah, i Baroness sono diventati nel corso degli ultimi anni una vera e propria rivelazione per molte altre giovani reclute al nuovo orientamento dello sludge-rock promosso dai georgiani. E’ infatti con grandi spintoni che la band di John Baizley ha affrontato gli ultimi periodi di carriera promulgando sound maturati più all’insegna dell’impatto immediato e attraversando vicende difficili, come ad esempio l’incidente in bus di qualche anno fa. Poco importa, però, alla luce della qualità effettiva della musica e del cuore messi in scena ogni volta che la band porta on stage gli effettivi highlight degli ultimi due lavori, “Yellow & Green” e “Purple”, da molti fan di vecchia data aprioristicamente snobbati come troppo radio-oriented. Indiscutibile, difatti, come l’effettiva validità dei brani in sede live possa garantire uno standard di qualità assoluta, proprio per il loro assetto più immediato, meditato e allo stesso tempo sentito e ricercato. Grandi aspettative e grandi richieste per una serata e una setlist da cui molti avrebbero voluto ottenere anche un po’ di materiale dai primi lavori più intricati, quali “Red” oppure i primi due EP. I Baroness sembrano però essere cambiati, naturalmente e inesorabilmente. Ma questo pare non essere necessariamente un male, almeno in serate come questa. Ad aprire, annunciati un po’ all’ultimo momento e in netto anticipo rispetto alla tabella di marcia originariamente prevista, sono comparsi anche i Rouge Noir, compagine rock’n’roll prevalentemente al femminile (l’unico componente maschile è il batterista), crediamo praticamente sconosciuti per chiunque e che, a causa dell’inserimento in cartellone all’ultimo momento, non siamo proprio riusciti a vedere!
All’attacco di “Kerosene”, il ritornello vorticante nella testa è: “Perché dobbiamo sopportare questi suoni?”. Problema annoso, quello dell’acustica all’interno dei Magazzini Generali, non esattamente il locale meneghino più congeniale per ospitare band di una certa rilevanza. In media da queste parti c’è sempre da soffrire sul sonoro e soprattutto i primi minuti diventano un discreto Golgota, da percorrere nella speranza che intervengano degli aggiustamenti e si arrivi almeno a livelli di comprensione decenti. Pur mezzi azzoppati da volumi bassi, chitarre assottigliate e un mix cacofonico, i Baroness prendono il controllo delle operazioni con serafica sicurezza. Il sound inscatolato e intorbidato di inutile rumore bianco frena, ma non blocca, i quattro, che a forza di concerti e di un cospicuo vissuto insieme si trovano a meraviglia l’un con l’altro, blocco unico e multiforme senza paura di niente e nessuno. La svolta dal sapore radiofonico, se ci consentite il termine un po’ ‘floreale’, pastellata, insomma, propensa a una tranquilla beatitudine invece che alle turbolenze dei comunque melodici esordi, si sente tutta nelle prime battute del concerto, nel quale si pesca esclusivamente o quasi dagli ultimi due parti discografici. “Purple” ha offerto un’apprezzabile collezione di potenziali singoli, il precedente “Yellow & Green” aveva fatto altrettanto, indulgendo in qualche rarefazione di troppo che ne aveva diluito l’impatto; dal vivo, però, si punta secchi al materiale di immediato consumo e l’esibizione, fatta la tara ai suoni, decolla in fretta. Piace moltissimo l’agilità d’azione dei ragazzi, che badano al sodo, suonano rapiti e gioiosi, meravigliando per l’intersecarsi delle linee vocali e chitarristiche e proiettando un vellutato caleidoscopio di colori nelle nostre teste. In sala nessuno si cura dello sbilanciamento della scaletta sul materiale recente, a discapito di una prima fase di carriera rappresentata solamente da tre estratti di “Blue Record” (“The Gnashing”, “A Horse Called Golgotha”, “The Sweetest Curse). Chi non ha accettato l’attenuamento della rabbia originaria se n’è rimasto a casa, i presenti sono tutti dalla parte dei nuovi Baroness, che in effetti mostrano di essere a completo agio nella nuova veste ora più rock che metal. John Baizley sgancia sorrisoni a destra e a manca, agita le braccia caricando se stesso e chi ha davanti; gli altri sono meno esuberanti, però si nota anche in loro il grande piacere di essere sul palco per immergersi totalmente nel proprio repertorio. Ci sono moltitudini di ensemble dichiaratamente, ostentatamente, Seventies, ma di costoro i Baroness rappresentano una delle ali più convincenti, per il modo di interpretare lo show come un lungo flusso sonoro trasudante pathos, privo di pause e concessioni a lazzi e frizzi di poco conto. A collegamento di un brano e l’altro ci sono spesso gli aciduli synth vintage di Nick Jost, non si rimane mai nel silenzio, una scia sonora melliflua è sempre lì, a contornare di magia anche i sacrosanti stacchi per tirare un attimo il fiato e ripartire più carichi di prima. Tutto il materiale acquista di vigoria rispetto alle impeccabili versioni in studio, le voci non tradiscono imperfezioni e, complice una sensibile ripulitura del suono a spettacolo in corso, si va in crescendo, cristallizzando nella seconda parte di concerto quanto di buono era già emerso nella prima metà di setlist. Fioriture di arpeggi acuti e chitarre dolcemente cromate portano ai climax di “Try To Disappear”; apriamo bianchi fazzolettoni per asciugarci le lacrime generate dal ballatone “If I Have to Wake Up (Would You Stop the Rain?)”; “Take My Bones Away” chiude il cerchio dopo circa un’ora e cinquanta mettendo in fila il meglio dei Baroness attuali: ritornello da cantare in coro, giro melodico pregevole e ammiccante, tambureggiare grosso e ignorante della batteria, brillantini tastieristici sparsi ovunque. Un concerto eccellente, in definitiva, consacrazione assoluta per una band che se ne infischia dei detrattori e continua la sua ascesa di popolarità con pieno merito. Se poi foste tra coloro cui non piacciono più, basta non ascoltarli, c’è mica bisogno di volergli male, no?
Setlist:
Kerosene
March to the Sea
Morningstar
Shock Me
Board Up the House
Green Theme
The Iron Bell
Cocainium
A Horse Called Golgotha
If I Have to Wake Up (Would You Stop the Rain?)
Fugue
Sea Lungs
Chlorine & Wine
The Gnashing
Try to Disappear
Desperation Burns
Eula
Encore:
The Sweetest Curse
Take My Bones Away