06/11/2024 - BARONESS + GRAVEYARD + PALLBEARER @ Live Music Club - Trezzo Sull'Adda (MI)

Pubblicato il 09/11/2024 da

Introduzione di Dario Onofrio
Report di Dario Onofrio e Stefano Protti
Foto di Simona Luchini

Era indubbiamente una serata imperdibile per tutti gli appassionati di heavy-psych, quella del 6 novembre a Trezzo sull’Adda, con tre formazioni che non incontrano spesso i nostri lidi su palchi importanti come quello del Live Music Club.
Nonostante fosse mercoledì e ci fossero i Gatecreeper in contemporanea al Legend Club, un concerto con Baroness, Graveyard e Pallbearer ha comunque richiamato alcune centinaia di fan dal nord Italia, ansiosi di sentire i pezzi di “Mind Burns Alive” e “Stone”, rispettivamente le ultime prove in studio dei primi e degli ultimi in scaletta.
Curiosità anche per vedere come se la sarebbe cavata Joakim Nilsson dei Graveyard solamente al microfono, vista la sua operazione alla spalla che lo ha costretto per questo tour a cantare lasciando la chitarra a quel John Hoyles che molti là fuori conoscono soprattutto per il suo lavoro con i Witchcraft.
Una serata, comunque, ad alto tasso di psichedelia in tutte le sue sfaccettature, dal doom metal intimista ed emotivo del combo dell’Arkansas, passando per l’hard rock blueseggiante degli svedesi e concludendo in bellezza con lo stoner riflessivo e intenso della formazione di Savannah. Vediamo come è andata.

Quando nel 2017 “Heartless” (2017) aveva definitivamente rivelato i PALLBEARER come una delle più promettenti band nel panorama doom moderno, nessuno poteva ancora presagire che in poco meno di sette anni sarebbero giunte le canzoni struggenti e al tempo stesso impeccabili di “Mind Burns Alive”, a deviare il percorso della band verso lidi più pacati ma altrettanto sorprendenti.
Gli americani si presentano al pubblico del Live ben consapevoli delle aspettative create dalla loro recente pubblicazione e non deludono, in uno show conciso ma di straordinaria intensità, dove i brani della loro ultima opera crescono tra accordi in minore e brevi momenti corali, svelandosi in un romanticismo degno dei Warning di Patrick Walker; buona la prova al microfono di Brett Campbell, sensibilmente cresciuto anche come cantante, nel corso degli anni, mentre la malinconia che innerva i recuperi del passato li riveste di un afflato quasi funeral doom (“Worlds Apart”).
Una sparuta manciata di brani per circa quaranta minuti di concerto memorabile e una band che avrebbe meritato il ruolo di headliner al pari di Graveyard e Baroness. (Stefano Protti)

Puntualissimi, alle otto e mezza, salgono sul palco i GRAVEYARD, accompagnati dalla grafica quasi lovecraftiana che campeggia nella copertina dell’ultimo “6”, uscito lo scorso anno.
È subito evidente come la vena hard rock e blues che aveva caratterizzato le prime prove in studio della band si sia evoluta piano piano verso una maggiore attenzione alla psichedelia, a partire dalle note di “Twice”, direttamente appunto dall’ultima prova in studio della band, con un Joakim Nilsson forse un po’ spaesato senza la sua chitarra in braccio.
Una prova comunque che diremmo ineccepibile da parte della band più hillybilly della Svezia, con un palco scarno – salvo alcuni dettagli divertenti come una lanterna posizionata dentro la batteria e un orologio a cucù sulla testata del basso – mentre piano piano vengono snocciolati brani da “Peace” come “Please Don’t” e “Bird Of Paradise”.
A registrare l’esaltazione più grande dal pubblico sono ovviamente i pezzi di “Hisingen Blues”, come una “No Good, Mr. Holden” piazzata in mezzo a “Cold Love” e il pezzo citato precedentemente; da parte sua, la formazione dimostra ormai una professionalità e una familiarità con il palco che fanno dimenticare la pausa fra il 2016 e il 2017, che molti temevano potesse essere una pietra tombale sul progetto.
Dall’oscuro “Lights Out”, forse il lavoro più cupo della band di Göteborg, arrivano di fila “An Industry Of Murder” e “Slow Motion Countdown” a riportarci nella parte più voodoo del repertorio, con Truls Mörck che ogni tanto si prende pure il microfono tutto per sé, mentre il veterano Jonatan Larocca e la new entry temporanea John Hoyles si dimostrano perfettamente integrati nella macchina a vapore sonora – stantuffata dall’ormai stabile Oskar Bergenheim alla batteria – che lascia i suoi effluvi psicoattivi sul pubblico del Live Club.
Dopo una bellissima “Uncomfortably Numb” c’è anche tempo per tre encore a cominciare dalla battagliera “Rampant Fields”, che esplode prima degli assoli in una jam dai tempi dilatati e tiratissimi, mentre non si può che chiudere con “Ain’t Fit To Live Here”, dove forse Joakim comincia – giustamente – ad accusare il colpo sulle sue corde vocali, e la blueseggiante “The Siren”.
L’unica critica che possiamo muovere alla band è quella di essere ancora troppo ancorata a “Hisingen Blues”, dal quale arrivano ben cinque brani su quindici, ma va bene anche così: i Graveyard hanno come sempre realizzato un concerto coinvolgente, sentito e appagante per chi era sotto il palco a godersi uno spettacolo fatto di valvole, zattere, paludi e paesaggi svedesi che, in fondo, un po’ si confondono con il sud degli Stati Uniti. (Dario Onofrio)

Setlist:
Twice
Please Don’t
Breathe In Breathe Out
Bird of Paradise
No Good, Mr. Holden
Cold Love
From a Hole in the Wall
An Industry of Murder
Slow Motion Countdown
Hisingen Blues
Walk On
Uncomfortably Numb

Rampant Fields
Ain’t Fit to Live Here
The Siren

In un passaggio di “This Must Be The Place”, Sean Penn fa mormorare al suo personaggio, Cheyenne, “il problema è che passiamo troppo velocemente dall’età in cui diciamo ‘farò così’ a quella in cui diremo ‘è andata così'”.
Guardando i BARONESS nel 2024, ci rammarichiamo che una band con quel potenziale non sia riuscita a sfondare in ambito mainstream, complice una miscela di vicissitudini tragiche e scelte produttive per certi versi controverse.
E’ andata così, insomma, ma John Dyer Baizley non sembra darsene peso: in questo tour di supporto al recente “Stone”, la formazione che sale sul palco stasera è quanto di meglio si possa sperare, con una sezione ritmica in gran forma (l’accoppiata Nick Jost/Sebastian Thomson rispettivamente a basso e batteria) e la brava Gina Gleason ad affiancare il leader e fondatore alla sei corde e alle seconde voci; inoltre, va reso omaggio anche ai tecnici del mixer per la resa eccellente dei suoni che caratterizzeranno l’intero show.
Certo, la qualità del repertorio lungo cui i quattro si possono muovere, e l’appeal radiofonico di brani come “Lost Word”, “Shock Me” (da “Purple”, qui accolta tra le ovazioni dei presenti) o la “March To The Sea” di “Yellow & Green”, fanno davvero pensare che i Baroness avrebbero potuto essere gli Smashing Pumpkins della loro generazione (band in cui la Gleason ha pure militato in sede live e che viene rievocata nell’epicità di “Green Theme”), in un concerto dove persino i rari estratti da “Gold And Grey” (“Tourniquet”) si liberano dal suono compresso che li limitava su disco per inondare la platea.
J. D. Blazey offre un’esecuzione vocale di gran livello, mantenuta eccellentemente fino al micidiale poker di chiusura, che offre souvenir da “Blue Record” (“Swollen And Halo”), dall’indimenticato “Red Album” – addirittura due recuperi, “Rays On Pinion” con le sue immancabili influenze post-rock e la più arcigna “Isak” – per poi culminare in una “Take My Bones Away” ed il suo coro liberatorio.
Esibizione emozionante ed accessibile anche agli ascoltatori di non stretta osservanza stoner, che avrebbe sicuramente meritato un sold-out. (Stefano Protti)

Setlist:

Last Word
Under the Wheel
March to the Sea
Green Theme
Beneath the Rose
If I Have to Wake Up (Would You Stop the Rain?) / Fugue
Shock Me
Tourniquet
Swollen and Halo
Rays on Pinion
Isak
Take My Bones Away

PALLBEARER

GRAVEYARD

BARONESS

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