A cura di Alessandro Elli
Fotografie di Brian S. Paskin
Bergen è un posto meraviglioso: circondata da fiordi e da una natura mozzafiato, fredda e costantemente esposta alla pioggia anche nella stagione estiva, eppure allo stesso tempo accogliente e piena di vita, la seconda città più popolosa della Norvegia è la cornice perfetta per un festival come il Beyond The Gates, incentrato sul black metal proprio là dove il movimento ha mosso i primi passi e ha lasciato segni indelebili nella cultura locale, tanto da essere citato tra i patrimoni artistici del luogo.
L’happening, che per due anni non si è tenuto causa pandemia, anche se nel 2021 ha avuto luogo una versione ridotta con soli artisti norvegesi, è giunto ormai alla decima edizione (si va pure oltre se si considerano gli anni in cui si chiamava Hole In The Sky) e anche in questa occasione ha radunato band locali e formazioni internazionali, alternando realtà emergenti e gruppi affermati; rispetto al bill iniziale, annunciato nel 2020, si è dovuta purtroppo registrare la defezione di alcuni gruppi, tra cui Satyricon ed Heilung, ma gli organizzatori sono riusciti a rimediare nel miglior modo possibile. I concerti, suddivisi in cinque giornate, si sono tenuti in tre sedi differenti, tutte vicine tra loro ed in zone centrali e facilmente raggiungibili: la Kulturhuset, piccolo centro culturale con una sala riservata alla lettura durante le ore diurne; la USF Verftet, una ex fabbrica di sardine tramutata in location per concerti ed altre attività; la Grieghallen, ossia il teatro principale della città, utilizzato negli anni anche per registrare alcuni degli album black metal più importanti, a testimonianza, ancora una volta, della compenetrazione di questo genere nel tessuto sociale dei norvegesi. Con appassionati giunti letteralmente da ogni parte del mondo (tra l’altro non è raro scorgere tra il pubblico gli stessi musicisti), un programma fitto ed un’organizzazione con poche sbavature, possiamo affermare che il Beyond The Gates 2022 è stato un successo, nonostante le difficoltà che si sono dovute affrontare. Scopriamo insieme come sono andati questi ‘cinque giorni di oscurità nel cuore di Bergen’.
MARTEDÌ 2 AGOSTO
Il Beyond The Gates 2022 si apre ufficialmente alla USF Verftet ed il primo gruppo in scaletta rappresenta anche la prima grande sorpresa per il non ancora numeroso pubblico in sala: i tedeschi CHAPEL OF DISEASE, infatti, seppur giovanissimi, dimostrano di saper tenere bene la scena e propongono la musica complessa ed articolata dei loro tre dischi in maniera egregia. Stiamo parlando di un death piuttosto old-school arricchito da momenti strumentali che si rifanno al rock classico, con molta melodia e frequenti assoli, tanto che spesso si sfocia in qualcosa di simile a delle jam session. Si vede che i ragazzi di Colonia sanno il fatto loro, forti di una tecnica non indifferente e con ottime capacità compositive. Sicuramente non si poteva pensare di aprire il festival in modo migliore.
Veloce cambio di palco ed ecco il primo gruppo norvegese: i VEMOD sono dei veterani della scena autoctona, anche se in realtà, in ben ventidue anni di carriera hanno realizzato solamente due album. Il loro approccio alla materia è molto soft, tanto che la band definisce la sua stessa musica come ‘dark ethereal metal’ e potremmo descrivere la loro musica come un black metal melodico debitore di band quali Old Man’s Child, con un tappeto di tastiere in evidenza, lunghi break strumentali e frequenti cori; suggestiva la scenografia alle loro spalle, che sembra trasportarci in una foresta in piena notte e prestazione convincente.
I GAAHLS WYRD hanno pubblicato lo scorso anno un EP con alcuni acustici e qualcuno si sarebbe aspettato di trovare qualcosa del genere in scaletta stasera; invece, la formazione ha deciso di non fare prigionieri, imbastendo uno spettacolo selvaggio, diretto ed improntato al black metal più puro. Il controverso cantante di Bergen sa esattamente come combinare aggressività ed atmosfera e, circondato da musicisti con un background altrettanto importante, riesce ad essere incisivo sia nel suo tipico growling sia in una stupefacente voce pulita, qualità di cui non tutti sono a conoscenza. Ottima anche la presenza scenica. Lo stesso mood viene più o meno mantenuto con i 1349: anche la band di Oslo va annoverata tra i veterani della scena black metal norvegese e, se non sempre i numerosi album pubblicati sono stati di livello eccelso, dal vivo i cinque dimostrano di non temere la concorrenza di nessuno per malvagità, ferocia e precisione. Da sottolineare la prestazione di Frost, un vero e proprio metronomo che viaggia a velocità elevatissime, mentre intorno si scatena l’inferno. Lo show è praticamente ineccepibile per intensità e per tutta la durata non si nota un rallentamento; un’esibizione di forza che il pubblico mostra di gradire.
Ed eccoci finalmente al concerto più atteso della serata, ossia quello del tanto discusso quanto amato ABBATH. Fin da prima dell’entrata in scena di Olve, in sala si sentono commenti di impazienza da parte di chi non vede l’ora che inizi lo show ed altri ironici sulle sue recenti disavventure: l’ex Immortal, con il suo classico face painting, non regalerà ai posteri uno show memorabile ma mostra di essere sulla via del recupero, lasciando ben sperare per il futuro. La prima parte è dedicata alla carriera solista del norvegese, che sembra carburare pezzo dopo pezzo fino ad arrivare alla ottima “Hecate”; anche i brani dal nuovo “Dread River” non sfigurano nella loro resa live e, a sorpresa, viene riproposta anche “Warriors”, dall’unico album degli I, progetto heavy metal di una quindicina di anni fa che vedeva Abbath collaborare con Demonaz. La seconda metà dello show è incentrata sui brani degli Immortal – ben sei quelli proposti – e, al cospetto di canzoni leggendarie come “Withstand The Fall Of Time”, è difficile non percepire la soddisfazione dei presenti. Saranno anche lontani i tempi in cui era una leggenda del black metal ma, con mestiere e carisma, Abbath è riuscito a dare il meglio di quello che attualmente può dare.
La serata all’USF Verftet è terminata ma, per chi non ne ha ancora abbastanza e non teme di fare le ore piccole, quale miglior occasione che spostarsi alla Kulturhuset per vedere l’esibizione dei ME AND THAT MAN? La band capitanata da Nergal dei Behemoth deve avere parecchio seguito anche tra i seguaci del black metal poiché il numero degli accorsi è considerevole ed il piccolo centro culturale nel bel mezzo della città sembra il luogo adatto per gustarsi l’evento non lontani dal palco. L’artista polacco dimostra di essere in buona forma e ci intrattiene al meglio con il suo blues a tinte scure, o gothic country come spesso viene definito, una sorta di Johnny Cash i cui temi sono amore, morte e chiese bruciate. I pezzi, ovviamente, dal vivo sono suonati con vigore accresciuto, ed è curioso notare come molte parti vocali siano opera del bassista italiano Matteo Bassoli. Eccellenti anche le comparsate di Jørgen Munkeby degli Shining al sassofono e del cantante dei Madrugada Sivert Høyem.
MERCOLEDÌ 3 AGOSTO
La seconda giornata del festival si apre con gli YEAR OF THE GOAT: gli svedesi sono una ormai sulle scene da anni e hanno all’attivo tre dischi, eppure in sede live non convincono del tutto. Il loro hard rock con sonorità vintage ed un retrogusto dal sapore occulto ha sicuramente un certo fascino, le scorribande doom e i riff sabbathiani contribuiscono a variare il copione; il compito è ben eseguito, anche se la materia di per sé non ha niente originale, ma una voce monotona e piatta sembra sempre inseguire la parte strumentale senza mai centrare l’obiettivo, rendendo in questo modo faticoso l’ascolto. Peccato, perché i pezzi ci sarebbero anche.
I tedeschi LUCIFER si muovono sulle stesse coordinate e, anche se la componente doom appare più marcata, possiamo sempre parlare di un hard rock votato all’occulto. Tuttavia, chi se li ricorda nelle scialbe esibizioni dei timidi esordi, rimarrà piacevolmente sorpreso dall’evoluzione della band: è vero che la voce di Johanna Sadonis, seppur evocativa, può risultare alla lunga eccessivamente ingombrante rispetto al resto e che qualche brano è troppo lungo e ripetitivo, ma la band ha fatto passi da giganti nella ricerca del suo suono retrò e, soprattutto, i pezzi che vanno dal secondo album in poi risentono dell’influenza, sia in fase compositiva sia in fase esecutiva, del geniale Nicke Andersson, tanto che addirittura i momenti migliori si avvicinano alla colorata vivacità degli Hellacopters.
I SATAN sono una leggenda della NWOBHM e si scorge subito come siano acclamati in modo particolare dalla parte più attempata del pubblico. Da ormai parecchi anni a questa parte gli inglesi sembrano vivere una seconda giovinezza ed anche su un palco sembrano discretamente in forma: il loro heavy metal basato sui duelli tra le due chitarre e la voce dello storico cantante Brian Ross, che spesso parte per i suoi proverbiali acuti, colpisce nel segno e sembra quasi che il tempo si sia fermato a quarant’anni fa. L’inizio è affidato a “Trial By Fire”, purtroppo funestata da qualche problema tecnico, ed altri saranno gli estratti dal loro capolavoro “Court In The Act”. Il carismatico frontman concede spesso delle pause interagendo con il pubblico con il suo classico humor in stile britannico, in quelle che sembrano interruzioni studiate per riprendere il fiato e ripartire a tutta velocità. “Alone In The Dock”, posta in chiusura, è la degna conclusione di uno show adrenalinico e dal sapore retrò.
La proposta dei SÓLSTAFIR è ormai da anni qualcosa di unico nel panorama metal: il loro stile, tra cavalcate eteree e momenti ben più concreti, è veramente di difficile definizione e divide il pubblico tra chi li adora e chi proprio non li comprende. La voce del cantante Aðalbjörn Tryggvason, magari non perfetta, è suadente ed efficace nel disegnare paesaggi incantanti ma riesce ad essere ruvida a sufficienza quando richiesto, ed il look da cowboy venuti dal freddo è un’altra delle contraddizioni che gli islandesi riescono magnificamente a mettere in scena. Sembra azzeccata la scelta di una scaletta che pesca soprattutto dal materiale più datato: in apertura “Þín Orð” è una vera e propria mazzata ed il suono delle chitarre non si sentiva così aggressivo da anni; altro momento ottimo in questo senso è “Godless Of The Ages” mentre la stupenda “Fjara” fa invece la felicità dei fan delle atmosfere sognanti e suggella quella che è probabilmente l’esibizione più intensa di tutto il festival.
A chiudere la serata gli OPETH: nessuna band, negli ultimi anni, è stata così divisiva, tra i fan più affezionati fedeli alla svolta prog e quelli che invece non hanno perdonato alla band l’abbandono delle sonorità più metal; nonostante tutto ciò, anche stasera il pubblico è visibilmente entusiasta per la prestazione degli svedesi, come al solito impeccabili e tecnicamente perfetti. Lo show ha inizio con l’unico estratto da “In Cauda Venenum”, una “Hjärtat Vet Vad Handen Gör” invigorita nella versione live. Da qui in poi, una cascata di classici, ma sempre da “Blackwater Park” in poi: “Ghost Of Perdition” è una presenza fissa ormai da anni, e dal vivo ha un tiro incredibile; “Cusp Of Eternity” colpisce per le sue derive psichedeliche; “Sorceress” è uno dei brani migliori degli ultimi album; “The Drapery Falls” è storia. Mikael intrattiene il pubblico divertito con i suoi siparietti che, questa volta, non possiamo comprendere perché in svedese (o magari in norvegese, chi lo potrà mai dire?). Tutto bene quindi? Da un punto di vista formale sì, ma la band appare stanca, come se questo non fosse un momento di forma eccezionale e, complice una setlist senza sorprese, per chi li ha visti più volte la serata sembra piuttosto piatta.
Due, invece, i concerti che si tengono alla Kulturhuset: i costaricani UMBRA CONSCIENTIA convincono con un black metal ferale che divaga frequentemente nel death metal, suonato con una buona tecnica strumentale e dando luogo ad una sorta di rituale; meno incisiva la prova dei BYTHOS, progetto di membri di Horna e Behexen dedito ad un black metal melodico abbastanza canonico e che, perlomeno su un palco, non regala molti sussulti.
GIOVEDÌ 4 AGOSTO
I MISÞYRMING sono una delle massime espressioni di quel movimento black metal nato in Islanda e che ha dato alla luce negli ultimi anni alcuni musica meravigliosa, tanto che, fra il pubblico, qualcuno si chiedeva come mai fossero ancora in apertura di giornata e non in una posizione più importante del bill. In ogni caso, la band di Reykjavík non delude, riuscendo a ricreare le atmosfere dense e ricche di dettagli che rendono riconoscibile il loro suono su disco; la pesantezza tipica del black viene mitigata da riff melodici, mentre il cantato in screaming è spesso affiancato dal growling e la sezione ritmica è pulsante e ben distinguibile. Una prova di classe assoluta.
A seguire i WHOREDOM RIFE, altra band norvegese che propone un black metal decisamente legato alla tradizione nordica, sia quella dei loro connazionali sia quella svedese, con l’aggiunta di una buona dose di melodia e di brevi intermezzi dal sapore folk che spezzano il muro del suono. Notevole la prestazione del batterista, mentre la voce è uno screaming aspro e malvagio che riesce a creare un’atmosfera malsana mescolando una cupa intransigenza con qualche passaggio più arioso. La band di Trondheim dimostra di avere la giusta personalità e non sfigura in una giornata in cui la concorrenza, su sonorità simili, è agguerrita.
C’è un’immagine che sintetizza alla perfezione l’essenza degli ARCHGOAT: il cantante/bassista Lord Angelslayer che, mentre suona il suo strumento, riesce a cantare in growl con una sigaretta in bocca! I finlandesi sono esattamente questo: musica senza compromessi, ‘ignoranza’ allo stato puro, esagerazione in ogni gesto, con un’aura malefica che ammanta trent’anni di carriera vissuta come band di culto. Gli ingredienti sono pochi ed anche semplici, un impasto tra il black ed il death metal sparato ad una velocità folle e senza la minima variazione, nessuna interazione con il pubblico ed un atteggiamento di strafottenza talmente marcato da farli risultare simpatici. Non ce n’è, in quello che fanno sono insuperabili.
Ad ormai diversi anni dal loro esordio, l’hype che ha sempre accompagnato i MGLA non si è ancora esaurito, merito del loro carisma, dell’alone di mistero che hanno saputo mantenere attorno ai loro personaggi ma, soprattutto, della loro musica. Il loro black metal è pungente, profondo e colpisce nel segno, con un’esecuzione precisa e potente; incappucciati, con i passamontagna che coprono completamente i loro volti ed i giubbotti di pelle nera come tutti gli strumenti, i polacchi rimangono pressoché immobili per tutta la durata della loro esibizione e riescono ad emanare una misantropia che lascia ammutoliti. La scaletta è imperniata sugli ultimi tre album, con “Exercises In Futility I” sugli scudi e la sorpresa “Mdłości II” ripescata da uno dei primi EP. Ormai sappiamo cosa aspettarci, ma ogni volta ne rimaniamo impressionati.
In una giornata in cui gli Archgoat hanno dimostrato cosa significa portare all’estremo la cafonaggine ed il cattivo gusto, non poteva mancare, come headliner, la band che ha inventato questo atteggiamento e può essere considerata come uno dei padri di questa musica: i SODOM sono chiamati a chiudere i concerti all’USF Verftet e lo fanno con la giusta attitudine, quella di chi vuole spaccare tutto senza porsi troppi problemi con il proprio thrash metal furioso e diretto. La band sembra in forma smagliante ed un loquace Tom, a torso nudo dopo pochi pezzi, dà l’impressione di divertirsi davanti ad un pubblico partecipe ed entusiasta; la setlist, poi, è una vera e propria bomba che, oltre a qualche brano dal recente “Genesis XIX”, regala tuffi nel passato degli anni ’80, da album quali “Persecution Mania” (“Christ Passion” e “Bombenhagel”) e “Agent Orange” (la micidiale doppietta costituita dalla titletrack e da “Tired And Red”), oltre che dagli EP “In The Sign Of Evil” e “Expurse Of Sodomy”. Non mancano due cover, la surfeggiante “Surfin’ Bird” e “Over The Top” dei Motörhead, eseguita a mille all’ora con Tore Bratseth (storico chitarrista/cantante della scena black metal norvegese e membro dei Bömbers, cover band del gruppo di Lemmy) in veste di guest. Al termine l’ovazione pare più che meritata.
VENERDÌ 5 AGOSTO
Arriva finalmente il venerdì, il giorno che molti considerano il momento clou dell’intero festival, con tre gruppi norvegesi che hanno fatto la storia ad esibirsi alla Grieghallen, una location forse non molto metal, in cui metà del pubblico è costretto ad assistere all’evento da seduto, ma sicuramente funzionale e suggestiva, soprattutto se si pensa a ciò che è successo qua dentro e che ha fatto la storia del black metal. La serata è stata intitolata “Grieghallen MCMXCIV” per ricordare che, proprio nel 1994, Enslaved, Emperor e Mayhem registrarono in questi studi i loro album più iconici che verranno ripresentati per l’occasione.
Ad aprire le ostilità gli ENSLAVED, che hanno un legame profondo con Bergen poiché sono cresciuti artisticamente in questa città. Stasera i cinque si cimentano con il loro primo album, “Vikingligr Veldi”, un’opera che sconvolse la scena black metal alla sua uscita, che suona ancora incredibile ai giorni nostri e che lo è ancora di più se si pensa che fu composta da quelli che, all’epoca, erano ragazzini. Gli Enslaved che conosciamo adesso non sono più quelli di allora, anche se il nucleo della formazione composto da Ivar Bjørnson e Grutle Kjellson è rimasto immutato, ma si sono evoluti incorporando nella loro musica altre sonorità ed altri generi, pur mantenendo salde le loro radici. Ebbene, se si pensa a come suonava il disco alla sua pubblicazione e all’interpretazione che ne ha dato la band stasera, è come se si arrivasse alla chiusura di un cerchio: già nel loro esordio si potevano cogliere i semi di ciò che sarebbe successo in futuro, nel senso che il loro black metal era strutturato, ricco di dettagli e complesso e, ventotto anni dopo, non stupisce che, dovendo riproporre “Vikingligr Veldi”, i cui pezzi erano stati suonati per l’ultima volta nel 2018, i norvegesi utilizzino il loro approccio attuale, vicino al prog ed alla psichedelia. L’operazione è sicuramente coraggiosa, ma l’esperienza accumulata nel tempo permette a questi fantastici musicisti di portarla a buon fine e la natura stessa di quei cinque pezzi, lunghi ed elaborati, ne facilita l’impresa; in particolare, notevole la resa di “Norvegr”, lo strumentale che chiude il disco, con le tastiere di Håkon Vinje in evidenza.
Di leggenda in leggenda, la seconda band del giorno sono gli EMPEROR: oltre agli storici Ihsahn, Samoth e Trym la formazione live attuale comprende Secthdamon al basso e Jørgen Munkeby degli Shining alle tastiere ma, come vedremo, lo show riserverà delle piacevoli sorprese. Anche se la maggior parte dei pezzi presentati stasera saranno estratti da “In The Nightside Eclipse” e “Anthems To The Welkin At Dusk”, i due album che costituiscono il fulcro della carriera dei norvegesi, la band decide di non escludere nessuna opera della propria discografia e così, dopo una breve intro, l’apertura è affidata alla complessa “In The Wordless Chamber” dal controverso “Prometheus: The Discipline Of Fire & Demise”: si nota subito che i cinque sono in forma e che vogliono trasformare la serata nella celebrazione di una splendida carriera, con Ihsahn che appare particolarmente emozionato. Da qui in poi sarà una carrellata di pezzi che ogni fan della band dovrebbe conoscere a memoria: la acclamata “Thus Spake The Nightspirit”, “Curse You All Men!”, fino alla doppietta da lacrime “Cosmic Keys To My Creations & Times”/”The Majesty Of The Nightsky”, un vero condensato di ferocia ed atmosfera ed uno dei punti più elevati mai raggiunti dal symphonic black metal tutto. Dopo un breve intermezzo strumentale, ecco stagliarsi sul palco l’inconfondibile sagoma di Mortiis e, inaspettatamente, dietro alle pelli l’ex nemico Bard Faust, per una serie di pezzi che comprendono cover di Bathory e Celtic Frost e addirittura “Wrath Of The Tyrant”. Ma l’apice di tutto il concerto è la malefica “Inno A Satana” che, ancor di più nella versione live, sembra un pezzo di Wagner prestato al metal estremo e manda completamente in visibilio l’intero teatro.
“De Mysteriis Dom Sathanas” è il Male, su questo non ci sono dubbi. La domanda è: riusciranno i MAYHEM a riportare in vita le atmosfere malsane del loro capolavoro a tutti questi anni di distanza, considerando che quel disco era il prodotto di un periodo storico ben preciso, costellato da incendi di chiese, omicidi e suicidi? In realtà, non è la prima volta che la band di Oslo tenta questa impresa e, ad essere sinceri, chi li ha visti nel 2017 non ha un ricordo esaltante di quel tour. Questa sera, invece, la magia (nera) sembra essere tornata ed i risultati sono totalmente diversi: avvolti da una nebbia che non sembra diradarsi mai, su uno sfondo che rappresenta la raggelante copertina del disco, Attila, Hellhammer, Necrobutcher, Teloch e Ghul danno luogo ad una performance malvagia, cattiva ed anche coinvolgente, riportandoci indietro di ben ventotto anni. In particolare il cantante di origini magiare ed il tentacolare batterista sembrano i mattatori della serata: il primo, nel suo tradizionale saio, con le sue urla agghiaccianti, il secondo, quasi invisibile dietro il suo strumento, con il suo drumming preciso e martellante. È come se l’aura maledetta di quell’album fosse rimasta intatta – e non sempre ciò si può dire di tutte le occasioni in cui la band l’ha riproposto – ma le capacità di musicisti dei cinque fossero accresciute grazie all’esperienza accumulata; così pezzi come “Funeral Fog”, “Freezing Moon” o “Life Eternal” riescono ancora a terrorizzare. Certamente, l’eredità di un disco come “De Mysteriis Dom Sathanas” è difficile da sostenere, e spesso i Mayhem ne hanno sofferto, ma questa sera, a casa loro, è stato un trionfo.
SABATO 6 AGOSTO
L’onore di aprire l’ultima giornata alla Grieghallen tocca agli americani UNTO OTHERS che, nonostante non siano esattamente nel target del festival, onorano l’impegno in modo egregio. La band di Portland coniuga l’heavy metal classico con il gothic, una sorta di Depeche Mode con le chitarre in evidenza. La vocalità del cantante Gabriel Franco è tra l’altro abbastanza simile a quella di Dave Gahan, i riff sono sempre azzeccati e pezzi come “Heroin”, “Destiny” e la cover “Hell Is For Children” hanno melodie semplici ma che colpiscono nel segno; felice anche la scelta di avere suoni più sporchi e meno levigati. Erano piaciuti su disco e confermano le loro qualità anche in concerto.
I TRIBULATION danno l’impressione di essere una band in continua evoluzione: ormai da tempo non suonano più i pezzi provenienti dai loro esordi thrash/death ma preferiscono affidarsi al gothic metal degli ultimi album e, in particolare, con i pezzi del recente “Where The Gloom Becomes Sound” che la fanno da padrone, anche alcuni fraseggi in odore di NWOBHM sono ben evidenti. Per chi li ha visti più volte su di un palco, però, è facile notare come, da una parte, gli svedesi siano cresciuti per affiatamento e carisma, ma dall’altra quanto sia stata gravosa la perdita del defezionario Jonathan Hultén, il quale non era solo il chitarrista ma anche il leader occulto della formazione. In ogni caso, band che percorre una strada personale e che sa tenere la scena.
“Nighfall” non ha certo bisogno di introduzioni particolari su queste pagine: pubblicato nel lontano 1987 è l’opera più nota dei CANDLEMASS e probabilmente l’album più iconico di tutta la storia del doom metal tradizionalmente inteso. Quando gli svedesi hanno annunciato che avrebbero suonato per intero il loro capolavoro, accanto all’ovvio entusiasmo per poter assistere ad un evento del genere, ci si sarebbe potuto chiedere come sarebbe stato risentire quei pezzi a trentacinque anni di distanza senza la voce di Messiah Marcolin: diciamo subito che, nonostante la figura dell’istrionico ex frontman sia ancora senza dubbio ingombrante, Johan Längqvist ha già dimostrato più volte di essere in grado di non farlo rimpiangere, grazie a doti vocali non comuni e ad una presenza scenica meno invadente ma comunque appropriata. Sciolto anche questo dubbio, è quasi superfluo raccontare come, dall’introduzione strumentale “Gothic Stone” fino a “Black Candles” sia stato un successo totale, con una menzione particolare per “Bewitched”, il cui ritornello è stato cantato dal pubblico all’unisono. Il finale affidato alla lancinante “Solitude”, vero inno doom e pezzo più amato della band, è stato l’apoteosi ed un’ovazione ha accompagnato un Leif Ending palesemente emozionato al momento di lasciare il palco.
Un concerto dei MERCYFUL FATE non è una cosa da tutti i giorni: la band del Re Diamante mancava dalle scene dal lontano 1999 e, una volta annunciato il rientro in pompa magna tre anni fa, era stata la pandemia a deludere ancora una volta le aspettative degli appassionati di tutto il mondo, almeno fino alla ripartenza dei festival estivi di quest’anno; per questo motivo, il leggendario ed unico King Diamond e la sua cricca hanno alle spalle solamente qualche data tra cui, per la felicità dei fan italiani, il nostrano Rock The Castle. Si può immaginare quale sia l’emozione quando si alza la tenda del palco della Grieghallen e partono le note di “The Oath”: la scenografia è composta da un’imponente scalinata sulla quale troneggia una croce rovesciata; il Re dimostra di avere ancora una voce fenomenale, anche nel suo mitico falsetto e, nella prima parte dello show, cambia spesso travestimento, mentre nella seconda adotterà il più ‘rassicurante’ mantello con cilindro nero a cui ci ha abituato. Accanto allo storico Hank Shermann, i fidi Mike Wead e Bob Lance ed il nuovo arrivo Joey Vera, tutti a macinare riff e ritmiche senza pausa; i pezzi sono tutti estratti dagli albori della band (i primi due album e l’EP omonimo) e tra i più acclamati “A Corpse Without Soul”, “Melissa” e “Come To The Sabbath”, con l’unica eccezione della nuova “The Jackal Of Salzburg”, efficace anche nella sua versione demo. Dopo una breve pausa, il gran finale con “Satan’s Fall” e “To One Far Away”, con la certezza di aver assistito a qualcosa di memorabile.