Report di Enrico Ivaldi.
Per i fan del metal estremo e del black in particolare, la Norvegia rappresenta da anni una meta culturale e turistica obbligata grazie anche e soprattutto a due eventi musicali come l’ Inferno Festival di Oslo e il Beyond The Gates di Bergen.
Quest’ultimo, nato dalle ceneri dell’Hole In The Sky Festival, vede fare da cornice gli splendidi fiordi della cittadina di Bergen, un posto unico, piovoso e tranquillo che vive di turismo e che diventa meta di un numero enorme di metallari nella settimana a cavallo tra luglio ed agosto.
Il clima di Bergen non è per tutti, piove la maggior parte del tempo durante tutto l’anno e l’atmosfera è spesso grigia e surreale, con le sette montagne che abbracciano il fiordo spesso minacciate da nubi e nebbia a rappresentare l’apoteosi di quel mood che da sempre ha caratterizzato il black metal scandinavo. Quest’anno per quasi tutta la durata del festival invece il meteo ha graziato i presenti con tre giorni abbondanti di sole e temperature quasi mediterranee, lasciando solo alla giornata del sabato il compito di ricordare a tutti che Bergen significa pioggia e vento.
Il Beyond The Gates è un festival atipico e che si divide su due location: i primi due giorni tutto si svolge sui palchi della USF Verftet, una ex fabbrica di sardine, mentre i due giorni restanti è la famosa Grieghallen, teatro che fu studio di registrazione per tutti i capolavori del metal scandinavo negli anni Novanta, ad ospitare tutti i concerti.
Si aggiunge poi la Kulturhuset, sala da concerti nel centro di Bergen, come sede degli eventi notturni e diurni (inclusi solo nel pacchetto gold ma comunque acquistabili separatamente) prima e dopo i programmi nelle due location principali.
Come da tradizione, oltre a banchetti di merchandising vario, durante tutto il periodo è presente anche il Beyond The Ink, convention organizzata da Jannicke Wiese-Hansen (tatuatrice e autrice di numerosi loghi e copertine del black metal norvegese) che vede la presenza di tatuatori da tutto il mondo, per una quattro giorni in cui convivono musica, arte e natura.
Di seguito il resoconto della nostra esperienza in quel di Bergen.
MERCOLEDI 31 LUGLIO
Il festival apre le porte verso le quattro del pomeriggio, giusto il tempo per ambientarci e girare per gli stand di tatuatori, vinili, cd e magliette in attesa che i WHOREDOME RIFE si presentino sul palco principale del USF Verftet, ricavato da un grosso magazzino di stoccaggio direttamente sul mare.
Cinquanta minuti di black metal violento, moderno ma che paga pegno alla tradizione norvegese, lungo sei lunghi brani epici e drammatici tra cui spiccano la splendida e maestosa “Den Vrede Makt”, “From Nameless Pagan Graves” e “Beyond the Skies of God”.
La bravura della band di Trondheim non è certo una novità, ma questo pomeriggio sembra essere in stato di grazia, trasmettendo un’intensità palpabile durante tutto il set, supportata da una pulizia tecnica invidiabile e da una tenuta del palco perfetta. I presenti sono già molto numerosi e dimostrano di essere già caldi pur essendo solo ai primi minuti di festival. Non si poteva chiedere di meglio come apertura.
Ci spostiamo sul palco interno chiamato Røkeriet (un tempo stanza per l’affumicatura del pesce) per i polacchi MĀNBRYNE, band alter ego dei Blaze Of Perdition. A livello musicale rimaniamo sulle coordinate di un black metal che ricorda i Mgla, vagamente colorito da pesantezze death ed estremamente ossessivo e monolitico, sorretto da uno show decisamente interessante, con una scenografia dal sapore rituale ed il frontman S. che dirige il tutto dal suo altare posto al centro della scena.
I suoni nel palco interno sembrano essere leggermente migliori e il risultato finale ne giova parecchio, cosa che invece non succederà da qui a breve quando si presenteranno i WATAIN sullo stage principale.
Ora, chi scrive non è mai stato un fan, ma è cosa ormai comprovata ed oggettiva che la band svedese sia una sicurezza in sede live, sia musicalmente che per lo show disturbante e macabro che mette in scena ogni volta.
Questa sera però qualcosa non gira per il verso giusto e tutto lo show risulta un po’ troppo caotico a livello di suoni.
Nulla da dire sulla parte puramente visiva, fatta come al solito da uno stage che si trasforma in una cattedrale in fiamme, ma un certo sbilanciamento tra i volumi dei vari strumenti ha, in alcuni punti, trasformato il tutto in un caos di batteria e chitarre. Immancabili “The Devil’s Blood”, “Wolves Course” e la nerissima “Malfeitor”, che avrebbero meritato un suono migliore.
Il risultato generale sembra però soddisfare molti dei presenti, ma si notano anche facce un po’ deluse.
Migliore sarà la situazione quando saliranno i BLACK ANVIL, band americana che, col suo black venato di thrash e dal piglio quasi hardcore, si dimostra estremamente efficace dal vivo.
La loro esibizione presenta un’attitudine molto più grezza e in your face, con pochissimi orpelli scenici e un’energia da vendere, che spezza in maniera molto intelligente sia il lungo rituale visivo dei Watain che lo show nostalgico e quasi cinematografico dei MAYHEM, che inizieranno subito dopo, intorno alle nove e mezza.
Quello che portano in scena Hellhammer e soci è la riproposizione in versione leggermente ridotta dei due show celebrativi dei loro quarant’anni di carriera (completamente esauriti) che si sono tenuti ad Oslo nel mese di maggio.
Un viaggio storico a ritroso nella storia della band che ha dato il ‘la’ a tutto il movimento norvegese, supportato da intermezzi video contenenti immagini e video di repertorio, che più di una volta fanno salire un senso di nostalgia misto a disagio, pensando a tutte le vicissitudini extramusicali ben note a tutti.
Si parte con la recente “Malum” e con un paio di brani da ogni lavoro in studio si torna indietro nel tempo, dimostrando come, di fatto, i Mayhem siano sempre stati una band in continua evoluzione, nel bene e nel male. Dalle contorte strutture di “Psywar” e “Milab”, passando per il disagio di “Illuminate” e “Chimera” e arrivando alla sperimentazione forse un po’ forzata, ma senza dubbio originale, del periodo “Grand Declaration Of War”, si ha l’idea di una band più compatta che mai, in grado di metter in scena uno show tributo a se stessa, senza essere esageratamente autocelebrativo.
I riff old-school di “Ancient Skin” traghettano il concerto nel proprio culmine e quando risuonano le campane della cattedrale di Trondheim i cinque norvegesi entrano sul palco incappucciati per proporre tre brani dal capolavoro “De Misteriis Dom Sathanas”: una “Freezing Moon” da brividi, la nerissima title-track e “Funeral Fog” bastano per ricordare a tutti quanto quel disco sia speciale, inarrivabile per certi versi.
A questo punto il palco si trasforma e l’enorme batteria di Hellhammer lascia spazio ad un drum-kit molto più minimale. È il momento del periodo “Deathcrush” e per l’occasione la formazione sarà, oltre ai due chitarristi attuali, quella storica dei primissimi anni: Kjetil Manheim alla batteria, Necrobutcher al basso e Billy Messiah, alla voce. “Deathcrush”, “Necrolust” e “Pure Fucking Armageddon” creano un delirio cacofonico supportato dalle laceranti grida di Messiah col il pubblico che si scatena come non mai.
Uno show impeccabile, quindi, e che cerca, riuscendoci, di raccontare i quarant’anni di vita di una delle band più divisive e controverse della scena metal.
Setlist Mayhem:
Malum
Milab
Psywar
Illuminate Eliminate
Chimera
Crystalized Pain in Deconstruction
View From Nihil
Ancient Skin
Freezing Moon
De Mysteriis Dom Sathanas
Funeral Fog
Deathcrush
Necrolust
Pure Fucking Armageddon
Ma non è ancora il tempo di salutarci, visto che da qui a breve assisteremo ad un evento a suo modo unico: la prima apparizione live dei TRELLDOM, primo gruppo di Ghaal che torna in attività a diciassette anni dall’ultimo lavoro in studio.
In una vecchia intervista Pytten, produttore storico di tutti i classici norvegesi anni novanta, aveva confessato di ritenere i Trelldom la band di gran lunga più interessante ed originale tra tutte quelle con cui avesse lavorato: ora, vero che la discografia dei Trelldom (specialmente gli ultimi due dischi) presenta una visione parecchio personale del concetto di black metal, ma visto quello che Ghaal e soci hanno tirato fuori col loro ritorno, c’è da ammetter che il buon Eirik Hundvin ci avesse visto lungo già all’epoca.
Il loro debutto live infatti trascende qualsiasi genere, a partire dalla formazione sul palco che vede un strumento inusuale come il sassofono a fare da protagonista. Da sottolineare la presenza alla batteria del mostruoso Kenneth Kapstad, già con Motorpsycho, God Seed e Gåte e del jazzista norvegese Kjetil Møster al sassofono, appunto.
Il black metal, a livello formale, è ormai un ricordo, rimanendo presente solo sporadicamente con la sua aura malsana e cupa, venendo invece sostituito da una musica psichedelica. Vagamente avvicinabile alle atmosfere degli Oranssi Pazuzu ma estremamente personale, la band si avventura in più occasioni in strutture vicine al kraut rock, al jazz sperimentale e con lunghi tratti improvvisati e minimali.
Un concerto non per tutti, di fatto scioccante per tutti quelli che si aspettavano qualcosa di più classico, e che comprensibilmente lascia l’amaro in bocca ai fan più intransigenti. Viene suonato per intero l’album di imminente pubblicazione e per chi scrive questa ora di concerto rimane come tra i momenti più alti dell’intero festival, proprio per la sua natura trasversale e disorientante. Se è questo il nuovo corso dei Trelldom ne vedremo delle belle.
GIOVEDÍ 1 AGOSTO
La giornata del giovedì inizia già nel primo pomeriggio sul palco della Kulturhuset, nel centro di Bergen. Dei tre gruppi che si avvicenderanno decidiamo di seguire i RITUAL DEATH, terzetto da Trondheim erede della cult band Kaosritual e che vede tra le proprie linee membri di Darvaza e Dark Sorority.
Il loro è un black metal ossessivo e figlio della scuola nidarosiana più esoterica, con brani che raramente superano i quattro minuti ma che creano un atmosfera asfissiante e claustrofobica, a cavallo tra il suono norvegese e quello finlandese. Menzione speciale per il cantante Wraath (già con Behexen, Darvaza e Mare) che si rende protagonista di una performance brutale ed inquietante.
Il tempo di raggiungere USF Verftet, a circa un quarto d’ora a piedi dal centro, e notiamo che il palco principale è già pronto per lo show dei CULT OF FIRE, con due grosse statue a forma di serpente ed un’iconografia che rimanda alle religioni mistiche dei paesi indiani.
Se ad un ascolto distratto l’impressione è quella di una sorta di gruppo simile ai Batushka, il gruppo ceco, comunque antecedente alla combo polacca in termini discografici, dimostra una personalità tutta sua, a partire dalla presenza scenica sul palco, con i due chitarristi seduti a gambe incrociate
ed il cantante completamente mascherato come un sacerdote indù impegnato in una performance molto teatrale.
Al netto di uno spettacolo visivamente accattivante, il black metal dei Cult Of Fire risulta parecchio affascinante grazie ad una formula mai troppo moderna e con una sacco di influenze di musica orientale.
Il tutto crea un’aura mistica ed a tratti epica, senza perdere in aggressività e capace di raggruppare anche un discreto seguito, tra cui un ragazzo accanto a noi che cantava ogni canzone, parola per parola.
Il compito di stemperare un pochino l’aria dai suoni più estremi tocca agli svedesi PORTRAIT ed il loro heavy metal dalle tematiche sataniche, capace di attirare l’attenzione di molti fan dei suoni più classici e intrattengono per cinquanta minuti scarsi con bravura e senza troppi fronzoli.
L’immagine dell’iconico caprone di “Black Metal” giganteggia sul palco principale dell’ USF Verftet e quando i VENOM di Cronos attaccano il boato dei presenti è decisamente forte: non potrebbe essere altrettanto vista la scelta di iniziare con “Black Metal”, brano-simbolo di una scena intera, in grado di scatenare un mosh-pit immediato.
Il concerto è un susseguirsi di alti e bassi, con momenti oggettivamente esaltanti come “Welcome To Hell”, “Warhead”, “Buried Alive” o “Countess Bathory” ed altri in cui brani più recenti come “Long Haired Punk” o “Pedal To The Metal” non riescono a reggere il peso dei classici.
A parte questo, sicuramente un live divertente, dall’attitudine punk e strafottente, retto da una band che sa ancora il fatto suo quando è chiamata a tributare il repertorio storico.
Dalla vecchia scuola si ritorna ai suoni moderni dei DARKSPACE, attesi alla prova del nove dal chi scrive, dopo la delusione di questo inverno in quel di Oslo in cui venne suonato per intero il nuovo “II”, scelta non proprio fortunata vista la natura frammentaria e sperimentale del suddetto lavoro.
Fortunatamente, questa sera gli svizzeri si rifanno con un concerto devastante e claustrofobico a livelli pericolosi: sono tre i brani in scaletta, “1.2” e le lunghissime “2.10” e “4.20” per un ora di suoni cosmici, atmosfere aliene e abissali, che fanno letteralmente perdere la concezione del tempo e lasciano dietro di un senso di disorientamento che raramente abbiamo percepito.
Scenografia splendidamente minimale con i soli laser ad illuminare la sala e una presenza scenica dei tre componenti statica e austera, per un risultato che porta i presenti in un lungo viaggio cosmico senza fine.
Bracieri sparsi per il palco e due grosse strutture metalliche suggeriscono che è il momento di uno degli headliner più attesi del festival; i BEHEMOTH salgono sul palco verso nove e mezza e nel tempo a loro a disposizione dimostreranno, ancora una volta, il concetto di professionalità, con show totale in cui musica, tecnica strumentale e impatto visivo coesistono a livelli praticamente ineccepibili.
Persino i suoni, fin qua buoni ma non sempre cristallini – per un uno spazio che è di fatto un enorme magazzino all’aperto – sono impeccabili e ogni minimo dettaglio esce in maniera talmente pulita da risultare scioccante. Si parte con la recente “Once Upon a Pale Horse” che anticipa l’anthemica “Ora Pro Nobis Lucifer”, mentre poi si alzano i livelli di pesantezza con i classici del periodo più death metal come “Demigod” e “Conquer All”.
Nergal è un frontman rodato nel dettare tempi e comunicare col pubblico, riuscendo a mantenere un livello di pulizia tecnica senza sbavature, mentre Jon Rice (che sostituisce momentaneamente Inferno) non sbaglia un colpo, suonando con una precisione quasi irreale.
Si torna indietro nel tempo con una versione pesantissima della vecchia “Cursed Angel of Doom” da “Sventevith” mentre col trittico “The Deathless Sun”, “Blow Your Trumpets Gabriel” e “Bartzabel” si tributa il passato più recente, per poi rituffarci nel death-black di “No Sympathy For Fools” e “Chant of Eschaton 2000”.
Non poteva mancare la chiusura con la lunga ed apocalittica “O Father O Satan O Sun!” a sancire uno dei migliori momenti della storia del festival. Si può discutere su molte cose riguardo ai Behemoth, dal fatto che siano diventati una band costruita a tavolino o che vivano di un attitudine ruffiana e pacchiana, ma quando ci si trova di fronte ad uno spettacolo così ben orchestrato e mai noioso non c’è altro da fare se non ammettere la loro bravura. Che poi piacciano o meno è una questione soggettiva e assolutamente personale.
Scaletta Behemoth:
Once Upon a Pale Horse
Ora Pro Nobis Lucifer
Conquer All
Ov Fire and the Void
Cursed Angel of Doom
Christians to the Lions
Demigod
The Deathless Sun
Blow Your Trumpets Gabriel
Bartzabel
No Sympathy for Fools
Chant for Eschaton 2000
O Father O Satan O Sun!
Saranno i DEATH SS l’ultimo gruppo a salire sul palco del USF Verftet per quello che è il loro primo concerto in assoluto in terra norvegese.
Con la curiosità tra il pubblico che diventa palpabile, la sala Røkeriet è già completamente piena, tanto che verranno bloccati gli ingressi per qualche momento e mentre attendiamo che le luci si abbassino non riusciamo ad evitare di captare alcuni commenti dei presenti, tra chi considera la loro immagine quasi grottesca (e un po’ maccheronica) ma parecchio affascinante e chi non vede l’ora di assistere a quello che è, a suo modo, un evento storico.
Un’ora in cui Steve e soci si fanno protagonisti di uno show teatrale ed improntato esclusivamente sulla prima parte della loro carriera: sd eccezione della recente “Zora”, infatti, tutti i brani suonati coprono infatti la discografia fino a “Do What Thou Wilt”, dal quale verranno estratti la tribale “Baron Samedi” e la morbosa “Scarlet Woman”. Il loro mix di tastiere horror e un attitudine che mischia il progressive d’annata al metal classico fa pieno centro e il responso della gente presente è genuinamente entusiasta, specialmente quando vengono proposti classici come “Where Have You Gone?”, “Terror” o “Vampire”.
Non mancano i soliti crocifissi su palco, apparizioni di ragazze seminude e un’immagine da Grand Guignol che crea uno show d’altri tempi, ben orchestrato da uno Steve che pare in piena forma. Di rito la chiusura con “Heavy Demons” a far calare il sipario su un concerto che ha reso giustizia alla carriera di una band storica come i Death SS. Intelligente poi la scelta di farli suonare su un palco come quella della Røkeriet, più piccolo e meno dispersivo, cosa che ha aiutato parecchio nel creare un effetto teatrale e intimo.
Sarà questo l’ultimo live in quel del USF Verftet per questo 2024, visto che da domani tutto si sposterà nella storica Grieghallen, ma non l’ultimo concerto per questa sera. Si continuerà infatti nella Kulturhuset fino a tarda notte.
A mezzanotte e mezza parte l’esibizione degli americani AKHLYS, molto attesi a giudicare dal sold-out registrato e protagonisti di uno show estremo e morboso, con un immagine fortemente satanica che sfocia quasi nel BDSM.
Sei lunghi brani, equamente divisi tra i tre album, compongono la scaletta, con picchi di intransigenza che si registrano durante “Through the Abyssal Door” e “Incubatio”, in cui il black metal si mescola con le atmosfere claustrofobiche del dark ambient, ma che avrebbero forse reso ancora meglio in una location più spaziosa e con un palco rialzato.
La notte si chiude con i suoni notturni del dungeon synth degli OLD TOWER, che fungono da giro di boa per questi quattro giorni di musica.
VENERDÌ 2 AGOSTO
In attesa dell’apertura della Grieghallen, decidiamo di tornare alla Kulturhuset per assistere allo show dei OWLS WOOD GRAVES, band che ruota attorno all’universo Mgła (con cui condivide tre membri) e che propone un black metal molto più influenzato dal punk, diretto e marcio quanto basta per quaranta minuti divertenti e decisamente godibili.
Uno sguardo alla mostra dedicata alla carriera dei Satyricon, con numerose foto e cimeli come demo-tape, vecchie magliette, poster e flyer vari ed è l’ora di prender posto per assistere ai DØDHEIMSGARD, reduci dal meraviglioso “Black Medium Current”.
È proprio con la commovente traccia di apertura “Et Smelter” che i quattro si presentano al pubblico. La loro è un’esibizione eclettica e teatrale come la loro musica, in cui si fondono black metal, elettronica, ed elementi progressivi in una sorta di teatro dell’assurdo che disorienta ed ed emoziona.
Si continua con la micidiale e parossistica “Sonar Bliss”, mentre la velocità viene stemperata da “Interstellar Nexus” prima di una “The Snuff Dreams Are Made Of” con tanto di Kvohst (al secolo Mat McNerney, cantante nell’album “Supervillian Outcast” e già Hexvessel, Grave Pleasures) in veste di ospite speciale.
Si torna addirittura indietro al thrash-black di “Monumental Possession” con “The Ultimate Reflection” per chiudere poi con una versione devastante di “Traces Of Reality” che mette la parola fine ad un live grandioso, intenso e grottesco, con un Vicotnik che passa tutto il tempo a lanciare polvere colorata ai suoi colleghi e al pubblico lasciandosi andare addirittura ad un crowdsurfing a fine concerto.
Tocca ai DJEVEL il difficile compito di rappresentare la nuova scuola norvegese in mezzo agli ingombranti nomi storici che si esibiranno questa sera ma, come spesso è accaduto, Faust e soci non falliscono e regalano un’ora di black metal classico, nella più pura tradizione nordica, che bilancia perfettamente aggressività e atmosfera.
Una scaletta che vede due brani a testa dagli gli ultimi due lavori più uno inedito che creano un atmosfera nebbiosa e notturna, dimostrando ancora una volta come siano loro i veri eredi della fiamma nera che fu già portata a suo tempo dai Taake.
Non c’è Beyond The Gates senza ENSLAVED.
Dall’edizione del 2017 infatti, i vichinghi di Grutle e Ivar sono sempre stati presenti in quel di Bergen (con la sola eccezione nel 2019) presentando ogni volta un set dedicato ad uno dei loro lavori. Quest’anno, come già nel 2018, è la volta del capolavoro “Frost” che verrà suonato per intero per la felicità di chi non ha mai potuto sentire dal vivo canzoni come “Loke”, “Fenris”.
Sull’importanza e la bellezza di un lavoro come “Frost” c’è poco da dire e vedere la band ancora divertirsi nel riproporlo, a distanza di trent’anni esatti, tra le stesse mura in cui fu registrato, è decisamente commovente. La cavalcata di “Svarte Vidder”, la furia incontrollata di “Wotan” e “Jotunblod” o l’epicità progressiva di “Gylfaginning” e “Isolders Dronning” danno brividi lungo la schiena, ma il momento più alto si ha con la versione del brano folk “Yggdrasil” che vede salire sul palco nientemeno che Eirik ‘Pytten’ Hundvin (che questo album lo ha prodotto) al basso fretless.
Chi scrive ha assistito a un numero infinito di concerti degli Enslaved ma quello di questa sera si piazza senza dubbio tra quelli più memorabili.
Senza dubbio l’evento più atteso di questa edizione del 2024 rimane il ritorno dei SATYRICON, che ritornano sulle scene dopo cinque anni di inattività e raddoppiano i concerti per l’occasione: due setlist differenti divise su due serate, per un lungo excursus attraverso i quasi trentacinque anni di carriera.
L’esibizione di un paio di mesi fa in quel di Oslo durante il Tons Of Rock aveva già fatto intuire ottime cose e quello che vedremo qua Bergen ne sarà un ulteriore conferma. I Satyricon del 2024 sono una band in piena forma che tributa la propria storia nel migliore dei modi, con una professionalità impeccabile e un’attitudine matura.
L’inizio non potrebbe essere dei migliori con le note dell’intro di “Walk the Path of Sorrow” che risuonano tra il cemento della Grieghallen per il boato dei presenti che accolgono anche la successiva “Du Som Hater Gud” in maniera quasi isterica.
Segue la recente “Our World, It Rumbles Tonight” che apre ad una lunga sezione di brani del periodo centrale quali “Commando”, “Wolfpack” e “Repined Bastard Nation”, decisamente efficaci dal vivo. “Nemesis Divina” conduce verso l’ultima parte di questo primo set che va a ritroso nel tempo, attraverso una marcissima “Filthgrider”, l’epica “Hvite Krists død” e l’inno immortale “Mother North”, cantato da tutti in sala.
Menzione speciale per la versione di “Phoenix” eseguita alla voce dall’attrice e cantante norvegese Heidi Ruud Ellingsen che, pur non raggiungendo i livelli dell’originale, si fa comunque apprezzare. Un’ora e mezza che scivola via senza sbadigli, ben orchestrata e caratterizzata da momenti esaltanti, per un gruppo che non ha più nulla da dimostrare e che continua per la propria strada senza guardare in faccia nessuno.
A questo punto il sipario su questa penultima serata cala e la curiosità su cià che hanno in serbo per domani Satyr e Frost è abbastanza grande.
Setlist Satyricon:
Walk the Path of Sorrow
Du som hater Gud
Our World, It Rumbles Tonight
Commando
The Wolfpack
Repined Bastard Nation
Black Wings and Withering Gloom
Nemesis Divina
Filthgrinder
Hvite Krists død
Phoenix
Mother North
La giornata di concerti non è ancora conclusa e ci affrettiamo a raggiungere la Kulturhuset per gli AURA NOIR che, come prevedibile, hanno fatto il tutto esaurito.
Il gruppo di Kolbotn nutre infatti un seguito ed un rispetto enorme in terra natia, come dimostrato in un recente podcast per una radio norvegese nel quale Fenriz, Faust ed altri membri della scena metal li considerano all’unanimità la band norvegese in assoluto più consistente in sede live, cosa difficilmente contestabile vista l’ennesima performance impeccabile di questa sera.
Un’ora di thrash-black suonato con un’intensità e una tecnica fuori dal comune, senza un attimo di pausa e con una pulizia sonora che non abbiamo mai sentito in nessuna delle band che hanno calato il finora il palco della Kulturhuset.
“Upon the Dark Throne”, “Hades Rise”, “Conqueror” e “Condor” i momenti migliori che colpiscono tutti come schegge impazzite e creano un inferno di metal old school che esalta tutti i presenti. Da menzionare la coppia Agressor-Blasphemer alle chitarre che conducono il tutto con una precisione irreale pur mantenendo quel gusto retrò, organico e groovy. Una delle sibizioni in assoluto migliori fino a questo momento.
La stanchezza dei tre giorni, vista anche e l’ora tarda, comincia a farsi sentire e si devono recuperare le forze per i quattro concerti di domani.
SABATO 3 AGOSTO
Giornata più corta ma decisamente intensa quest’ultima e per la prima volta da quando siamo qua ci troviamo sotto una pioggia incessante per tutto il giorno.
Dopo un’obbligatoria tappa alla stavkirke di Fantoft, tipica chiesa in legno del periodo medievale, completamente ricostruita dopo l’incendio del 1992 ad opera di Varg Vikernes, arriviamo puntualissimi per l’inizio dell’esibizione dei VEMOD, una band che col gli ultimi due album si è prepotentemente insidiata tra le preferenze di molti e non si fatica a comprendere il motivo.
Quello dei Vemod è un metal che parte dal black ma si sviluppa su binari più eterei e meno claustrofobici, invadendo i confini del post rock e del post metal, col risultato di una musica avvolgente ma comunque sempre aggressiva. A Eskil Blix (già nei Djevel e nei Mare) e compagni bastano quattro brani per trasformare la sala in un freddo cielo notturno invernale, tra sfuriate drammatiche e momenti di calma glaciale, e brani come “True North Beckons” o la conclusiva “Venter På Stormene” trasportano i presenti in un immaginario viaggio tra i vasti fiordi norvegesi.
“30 Years Of Sognametal”, così viene presentato il set dei VREID che per l’occasione vuole tributare i mai troppo rimpianti Windir, la band madre. Uno show dedicato allo scomparso Valfar e al gruppo che ha creato da solo un modo di suonare folk metal unico ed inimitabile, grazie a capolavori come “Sóknardalr”, “Arntor” (che venne registrato proprio qua nella Grieghallen) o “1184”.
La carriera dei Vreid dal canto suo non si è mai adagiata su quella ingombrante eredità ed ha sempre virato su di un’impronta più rock, senza però mai perdere completamente le proprie origini. Ed è cosi che questa sera riescono a convivere perfettamente canzoni come la diretta “Flammen”, il rock venato di black di “Into The Mountains” o la thrashy “Lifhunger” insieme a momenti più classicamente folk come “Helvete” o “Pitch Black”.
Accanto a tutto questo c’è il tempo, finalmente, per due brani del repertorio dei Windir ovvero l’epica “Journey To the End” e “Saknet”, che vedono la partecipazione alla voce di Vegard Bakken, colui che sostituì per un breve periodo Valfar prima che la band decidesse di cambiare nome in Vreid. Un’ora che scorre senza intoppi e che ha anche il tempo di emozionare.
Sono le otto passate ed è arrivato il momento per i SATYRICON di salire nuovamente sul palco per la seconda sera di fila con un set completamente diverso da quello di ieri che, come vedremo, verterà per la maggior parte sul periodo centrale e quello più recente, con tanti ‘singoli’ (se si può parlare di singoli nel caso dei Satyricon) conosciuti e qualche sorpresa.
Si parte subito con “To Your Brethren in the Dark” dall’ultimo album per poi passare alla violenta “Forhekset” l’unico brano del periodo propriamente black insieme alla strumentale “Transcendental Requiem of Slaves”, entrambe da “Nemesis Divina”.
Scorrono senza pause “Black Crow on a Tombstone”, “Deep Calleth Upon Deep” e “Die By My Hand” prima di passare, verso metà scaletta, ad un interessante medley di vari temi tratti dal recente “Satyricon And Munch” che funziona in maniera inaspettatamente bene anche in sede live.
Le atmosfere si anneriscono con la cupa “To The Mountains” prima del trittico di “hit” “The Pentagram Burns”, “Fuel For Hatred” e “K.I.N.G.”, che concludono questo viaggio attraverso la carriera di una delle band più famose e amate del metal norvegese. Poco da dire sulla prova dei musicisti, solida e senza sbavature con un Satyr la cui voce sembra virare sempre più verso uno scream più grave rispetto al passato e Frank Bello (Anthrax) che, nonostante il suo background lontano dal metal estremo, pare essersi integrato benissimo nel contesto della band.
Setlist Satyricon:
To Your Brethren in the Dark
Forhekset
Now, Diabolical
Black Crow on a Tombstone
Deep Calleth Upon Deep
Die by My Hand
Transcendental Requiem of Slaves
To the Mountains
The Pentagram Burns
Fuel for Hatred
K.I.N.G.
Siamo arrivati infine al momento dell’ultimo concerto per questo Beyond The Gates 2024, che non vedrà esibirsi nessun gruppo in particolare, bensì una sorta di alla-star band che avrà il compito di tributare chi codificò di fatto buona parte del black metal scandinavo.
Un’ora abbondante in cui si alterneranno diversi musicisti ed cui ex membri, per suonare i brani più significativi della carriera dei BATHORY, in un tripudio di emozioni e nostalgia.
La formazione base, che vede Ivar (Enslaved) e Blasphemer (Aura Noir) alle chitarre, Apollyon (Aura Noir) al basso e voce e Faust alla batteria, si presterà a delle versione molto fedeli agli originali di classici come “Possessed”, “Enter The Eternal Fire” e “Shores In Flames” mentre Erik Danielsson dei Watain verrà chiamato in cause due volte, per l’epica “Blood Fire Death” e per “The Rite of Darkness”.
Toccante come poche una “A Fine Day To Die” con Gaahl alla voce e piazzata in apertura mentre la violenta “Raise The Dead” vede ospiti Satyr al microfono e addirittura Frederick Melander, primissimo bassista di Quorthon del periodo “Scandinavian Metal Attack” subito antecedente al debutto omonimo.
Non manca la mortifera “Call From The Grave” cantata da Grutle degli Enslaved e nemmeno le violentissime “Total Destruction” e “The Return Of Darkness And Evil”, con rispettivamente Eskil Blix (Djevel, Vemod) e Wraath (Darvaza) a chiudere il cerchio per uno spettacolo a suo modo unico e difficilmente ripetibile.
Encomiabile il lavoro svolto da tutti i musicisti coinvolti, che riescono nel un difficile compito del creare un qualcosa di sincero, per nulla stucchevole e il più vicino possibile allo spirito originale. Un commiato praticamente perfetto per una quattro giorni in cui abbiamo assistito a molte luci e pochissime ombre, sia a livello artistico che organizzativo.
È ora di lasciare Bergen e i suoi paesaggi mozzafiato, ma sappiamo bene che questo sarà solo un arrivederci, in attesa della prossima edizione.
Setlist Blood Fire Death . Tribute To Bathory:
A Fine Day To Die feat. Gaahl (voce)
The Rite of Darkness feat. V. Einride (batteria) E. Danielsson (voce)
Possessed
Enter the Eternal Fire
Raise the Dead feat. F. Melander (basso), Satyr (voce)
The Return of Darkness and Evil feat. Wraath (voce)
Shores in Flames
Call From the Grave feat. Grutle Kjellson (voce)
Total Destruction feat. E. Blix (voce)
Blood Fire Death feat. E. Danielsson (voce)