Introduzione e report di Simone Vavalà e Roberto Guerra
Un nuovo, piccolo ma combattivo festival prende forma in quel di Milano, nella fedele location del Legend, ormai un vero riferimento per gli amanti di certe sonorità. Facciamo un passo indietro, in realtà: del festival c’è essenzialmente la distribuzione su due giorni delle esibizioni e un nome comune a unire le due date, giacché tutto il contorno che leghiamo a tale definizione resta del tutto assente.
Detto che non ci può ovviamente aspettare banchetti culinari o di altri ammenicoli nei ridotti spazi del Legend, parte dello spazio esterno di solito dedicato al merchandise è diventato guardaroba (non sappiamo se già da tempo o solo per l’occasione), al punto che contiamo a spanne una presenza complessiva di circa dodici album e una scelta di quattro magliette/felpe a costituire il merch complessivo per quattro band il primo giorno… Poco male, comunque; l’importante è poter sperare che una due giorni dedicata all’estremo e con buona selezione musicale possa diventare un nuovo appuntamento fisso del tardo inverno meneghino, e soprattutto conta la qualità delle esibizioni; detto che per l’ottimo prezzo già i soli Gorgoroth e Batushka (qui nella versione guidata da Padre Bartłomiej) meritavano la presenza, le due serate si sono dimostrate coinvolgenti, di qualità e… accaldate. Ma accendiamo gli incensi e apriamo il sipario.
VENERDÌ 24 FEBBRAIO
Con la puntualità che ormai contraddistingue ogni evento al Legend, la prima band sale sul palco alle 19:30 in punto. Anche se non ancora numeroso come nel prosieguo della serata, parte del pubblico sta ancora entrando quando gli svizzeri (non a caso, parlando di precisione!) TYRMFAR attaccano la loro mezz’ora di esibizione; un tempo sicuramente breve, ma che permette ai quattro di mettersi in bella mostra con il loro black metal eterogeneo, nel quale vengono integrati elementi melodici, in particolare in certe lunghe divagazioni chitarristiche, slow tempo quasi death ed elementi hardcore, componente decisamente peculiare in fase live, rispetto al loro sound su disco. Questi ultimi trovano una vena florida soprattutto nella prestazione del cantante Robin, che per versatilità e per la notevole fisicità riversata sul palco, mostra la sincera attitudine underground della band.
C’è appena il tempo di una sigaretta e di una birra, almeno per la componente meno salutista del pubblico, prima degli HATS BARN. L’atmosfera del locale diventa a questo punto rovente, sotto ogni punto di vista. Il caldo e la quantità di persone aumentano sempre più, con anche una nutrita presenza di francesi, non sappiamo se arrivati proprio al seguito della band o meno; ma, soprattutto, sono il marciume e la cattiveria a crescere d’intensità. Psycho, unico membro costante di una band che ha ormai quasi vent’anni di attività alle spalle , conferma il suo nome con movenze folli e inquietanti, che ben si sposano al look a petto nudo con corpsepaint globale, catene e quello che sembra un enorme rosario tibetano al collo. Il resto della formazione lo sostiene alla grande con sonorità che ci sembrano rifarsi particolarmente al black finlandese, dai Beherit ai primi Impaled Nazarene, con ritmiche incalzanti, suoni marci, linee vocali psicotiche – corredate da immancabili “Uh!” e urla strazianti. Francamente una bella sorpresa, dato che, lo confessiamo, non avevamo mai avuto modo di sentirli.
Tornano poi dalle nostre parti, a un paio d’anni dall’esibizione in quel dello Slaughter di supporto ai Marduk, i DOODSWENS; che un tempo avremmo definito ‘le’, ma pare ormai assodata l’uscita di scena della fondatrice Fraukje van Burg. Confermata quindi la veste a tre con chitarrista-cantante e bassista ad affiancare I., l’altra storica metà della band dietro le pelli, per una prestazione magari non mirabolante, ma sicuramente convincente. La nuova formazione è evidentemente ormai molto amalgamata e del resto non è che i brani, su disco, avessero chissà quale aura o sensibilità femminile più marcata; tutt’al più, ci sembra che una certa componente zanzarosa e old-school venga sacrificata sul (pur sempre apprezzabile) altare dell’impatto feroce, anche se forse conta più la scelta dei brani più quadrati.
Alla luce delle diversità evidenziate tra le prime band, potremmo dire che, al momento della salita sul palco dei GORGOROTH, anche cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia. È evidente come quasi tutti i presenti siano qui per loro, e dopo nove anni di assenza da Milano la cassa del Legend chiude dichiarando il sold-out a metà dello show della band precedente.
Dopo l’intro registrata con la consueta “Marche Funèbre”, inizia una discesa all’inferno senza soluzione di continuità, e che richiede pochi commenti; come di consueto, Infernus sta fermo a un angolo del palco, ieratico, e penserà per tutta la durata dell’esibizione solo a macinare riff feroci, conscio del supporto stellare di una band che è quasi un supergruppo. Citiamo l’ormai fedelissimo e chirurgico Vyl (Whoredome Rife, ecc) dietro le pelli di una batteria così grossa da esser stata presente (e usata) fin dall’inizio della serata, e ovviamente l’ospite d’eccezione Hoest dei Taake, che accompagna ormai con costanza i Gorgoroth in sede live, donando un carisma e una versatilità strepitosa ai brani di una band che, talvolta, viene considerata troppo tetragona.
Detto che non viene lasciato pressoché alcun secondo all’interazione del pubblico, non è questo che ci si aspetta, alla fine; e così, in una sequenza di brani che si apre dalle parti di “Antichrist” e “Quantos Possunt…”, la band norvegese ripercorre l’intera discografia – escluso “Ad Majorem Sathanas Gloriam” – in quella che non a caso è la celebrazione di trentuno, lunghi e gloriosi anni di carriera. Particolare attenzione viene data a “Under The Sign Of Hell”, ma risulta davvero superfluo dare peso a un brano o a un altro, rispetto a cinquantacinque minuti di puro Infernus (passateci il gioco di parole), in cui la cattiveria è trasudata dalle pareti del Legend, assieme al sudore. (Simone Vavalà)
Setlist Gorgoroth:
Bergtrollets Hevn
Aneuthanasia
Prayer
Katharinas Bortgang
Revelation Of Doom
Forces Of Satan Storms
Ødeleggelse Og Undergang
Blood Stains The Circle
Cleansing Fire
Destroyer
Incipit Satan
Krig
Kala Brahman
Unchain My Heart!!!
SABATO 25 FEBBRAIO
Un po’ come per la serata precedente, anche stasera la prima band prevista si presenta puntualmente sul palco, dinnanzi a una platea ancora poco gremita di astanti; questo tuttavia non pare rappresentare un enorme ostacolo per i brasiliani PARADISE IN FLAMES, dediti ad una particolare forma di black metal basata sulla dualità vocale tra la cantante incappucciata Germânia Gonçalves e il chitarrista André Luiz, con la prima più orientata su uno stile lirico, mentre le classiche sfuriate tipiche del black metal sono materia del secondo.
La resa generale ci convince più dal vivo che su disco, anche per via di una maggiore compattezza del comparto sonoro, e malgrado un leggero alone di freddezza, dato anche dalla attualmente poca affluenza, bisogna dire che la sostanza c’è tutta. Buono anche l’utilizzo degli inserti di organo, anche se in questa sede questi vengono gestiti tramite l’utilizzo di basi, non essendo presente sul palco le tastiere.
Dopo qualche tiepido ringraziamento il palco si svuota, per poi ripopolarsi nel momento in cui si palesano sul palco gli statunitensi SUMMONER’S CIRCLE, la cui proposta si presenta diciamo in chiave più ‘colta’ rispetto all’andamento generale, trattandosi di una piacevole e progressiva commistione di black, doom e death metal, sulla linea di quanto proposto dalle line-up americane dedite a sonorità di tali generi però con coordinate tendenzialmente europee, con in più una sana dose di (sempre gradita) personalità. L’esecuzione è pulita e ciascuno dei membri coinvolti esegue con precisione il proprio compito, sfoggiando un’immagine che ricalca il mood generale, con il frontman Joshua Winstead intento a predicare come una sorta di druido, adornando lo show con momenti teatrali, come la simulazione del rituale di sangue con tanto di taglio della mano, fino alla classica parentesi dedicata all’atto di strappare e distribuire pagine di quella che presumiamo essere una Bibbia; non proprio una trovata originale, ma considerato il genere fa comunque la sua figura, quantomeno per gli astanti più giovani.
Alziamo drasticamente il livello generale in compagnia dei polacchi HATE, che personalmente sono forse la line-up che attendiamo maggiormente di vedere questa sera, considerata la loro comprovata capacità di piallare le folle col loro granitico e belligerante blackened death metal.
Rigorosamente insanguinati e su un palco prontamente decorato con aste e ammennicoli da rituale esoterico slavo, i quattro iniziano a menare duro con la recente “The Wolf Queen”, proseguendo con la più nota “Luminous Horizon” e poi tornando all’incirca nel presente con “Sovereign Sanctity”. In generale, nonostante la carriera quasi trentennale del gruppo, la setlist non pesca mai troppo indietro nel tempo, essendo la apprezzatissima “Threnody” (dall’album “Morphosis” del 2008) il brano più datato del pacchetto, ma bisogna dire che tra i presenti, ora molto più numerosi, il gradimento appare evidente, anche considerando l’esecuzione brutale e terremotante, in linea con la proposta di una realtà dell’underground estremo europeo. Non mancano anche l’interazione col pubblico e un po’ di sano moshpit a centro sala, soprattutto negli istanti finali col brano “Hex”, che di fatto sancisce l’ultimo momento di autentica adrenalina previsto per oggi, contando la natura decisamente più evocativa degli headliner che si esibiranno tra poco.
Sull’esistenza – a dir poco insensata – di ben due creature battezzate col nome dei BATUSHKA ci siamo già espressi più volte, e dopo aver saggiato la resa di quelli guidati da Krzysztof Drabikowski nel corso dell’ultima edizione del Metalitalia.com Festival, stasera siamo curiosi di valutare le differenze nell’approccio con quelli rappresentati invece dal suo ormai ex collega Bartłomiej Krysiuk. La presentazione è invero piuttosto similare, a partire dal pungente odore di incenso nell’aria negli attimi precedenti l’ingresso on stage, fino alle immancabili vesti clericali decorate e realizzate in modo da nascondere pressoché del tutto l’identità del musicista all’interno. Le vere differenze si possono parzialmente scorgere una volta iniziato lo show: oltre alle varianti seppur minime di stile e modo di suonare di questa incarnazione post-scissione, notiamo che Bartłomiej, anche in quanto non provvisto di una chitarra tra le mani, interagisce maggiormente col pubblico, incitandolo a partecipare direttamente allo show e a mostrare il proprio gradimento.
Chiaramente le misure del palco sono diverse rispetto a quelle del Live Club, ma considerando che tra poche settimane in questa stessa location si esibiranno gli altri Batushka avremo modo di valutare ancora meglio le differenze di esibizione. Analizzando il concerto notiamo comunque i tratti fondamentali di uno show della realtà polacca, con una forte enfasi riservata alla componente più evocativa, cui il pubblico reagisce con relativo trasporto, mentre i pezzi selezionati pescano dal full-length “Hospodi”, dal recente EP “Carju Niebiesnyj” e anche dal capolavoro “Litourgiya”, risalente a quando c’era solo una black metal band col suddetto nome, e che continua inevitabilmente a rimanere imbattuto sia dal vivo che su disco. A parte queste considerazioni, lo show viene portato a casa con buoni risultati, anche grazie a una compagine di professionisti composti e ben inseriti nel contesto, mettendo la parola ‘fine’ sul Black Over Milan. (Roberto Guerra)
Setlist Batushka:
IRMOS III
Wieczernia
Powieczerje
Yekteniya III: Premudrost’
Polunosznica
Pismo II
IRMOS II
Yekteniya IV: Milost’
Pismo VI