Report a cura di Giovanni Mascherpa
Foto di David Krosnia (Facebook)
Giunge all’ottavo appuntamento annuale il Black Winter Fest, patrocinato dall’attivissima Nihil Productions, in prima linea dagli Anni ’90 nel celebrare black metal e suoni ad esso limitrofi. Nel tempo sono cambiati il raggio d’azione e la frequenza degli appuntamenti programmati da quest’agenzia, che ha tutt’oggi quale filo conduttore il black old-school più fedele alle origini, sia in senso musicale che strettamente tematico. Anche quest’anno l’evento dicembrino ha presentato uno spaccato esaustivo di quanto accade nel sottobosco del black metal continentale, quello fuori dalle rotte mainstream e dalle mode attuali, popolato da musicisti convinti a proseguire su una strada dura e perigliosa, destinata a pochi cuori e anime. Il bill è stato diviso in pratica in due tronconi: una prima sezione dedicata all’underground nostrano, dove le giovani leve hanno assunto l’onere di fungere da apertura, per poi cedere il passo cammin facendo a un paio di leggende sotterranee quali Skoll (al primo show dopo diciotto anni) e Abhor, non esattamente due band che si vedono spesso in azione dal vivo. Il trittico conclusivo ha quindi regalato un paio di momenti memorabili, con la prima esibizione italiana dei greci Acherontas – autori nel 2015 dello splendido “Ma-IoN (Formulas Of Reptilian Unification)” – e la calata dei folk/black metaller ucraini Nokturnal Mortum. In mezzo a costoro, una gradita rentrée per uno dei gruppi più amati in casa Nihil, i francesi Ad Hominem, usciti con il nuovo full-length “Antitheist” a giugno. Quando arriviamo, in tempo per l’inizio del concerto degli Skoll, notiamo con piacere che in tanti si sono riversati da queste parti per godere di un evento così di nicchia. Grazie anche ai numerosi stand di merchandise che tengono desta l’attenzione durante le pause, l’atmosfera nel locale è già bell’elettrica e andrà crescendo fino alla trionfale performance degli headliner. Ma andiamo con ordine, cominciando a parlarvi proprio degli Skoll…
SKOLL
Il forte spirito identitario del Black Winter Fest, l’attaccamento a un suono radicale e fuori dal tempo, lo osserviamo immediatamente con gli Skoll, primo gruppo che abbiamo il piacere di visionare sul palco del Colony. La band novarese, fondata a metà anni ’90, ha sempre espresso nuova musica con molta parsimonia ed ha all’attivo solo tre album in circa vent’anni di storia: l’ultimo, “Grisera”, è anche abbastanza recente e ha riportato un minimo di attenzione sul gruppo. Quello del Black Winter Fest è un concerto particolare, difatti è il primo negli ultimi diciotto anni! A quanto pare, il rientro on-stage è stato effettuato con giusta ragione, ora gli Skoll hanno una line-up solida e carica al punto giusto, perché quella che vediamo suonare non è esattamente una band spaesata o spaventata dal contesto in cui si trova. Tutt’altro, a partire dal corredo estetico dato dal face-painting barbarico, il quintetto ci fa annusare e vedere, ancora prima che ascoltare, l’asprezza delle grandi invasioni barbariche, la sofferenza di un’esistenza precaria fra battaglie, conquiste, violenze, sofferenze indicibili. Tutti i musicisti affrontano con grande serietà la situazione live, la musica suonata non si presta al divertimento quanto all’ascolto attento, anche se non mancano rasoiate tipicamente black metal a scuotere le fondamenta del locale. Il fulcro della proposta sono però mid-tempo epicissimi, sui quali comanda la voce pulita del leader Marco De Rosa, capace di portarci alla mente i Doomsword più crudi e battaglieri con vocalizzi vibrati e irruenti. Siamo in pieni territori viking metal, l’errare pesante delle chitarre e quel pizzico di poesia infuso dalle tastiere donano un pathos maschio e sanguigno a canzoni lunghe e sfaccettate, che non rinunciano nemmeno a un pizzico di sacrosanta immediatezza. Il pubblico apprezza, questo è veramente il contesto ideale per il metal arcano dei piemontesi, che pensiamo possano ritenersi soddisfatti dal loro primo show negli anni 2000.
ABHOR
Entriamo nella macchina del tempo e ci facciamo schiaffare indietro di una ventina d’anni almeno, per tornare agli anni di grazia della forma primigenia del black metal. Quando il carico di nefandezze e blasfemie veniva somministrato sotto vesti sonore corrotte, livide di una rabbia sprezzante e iconoclasta che non conosceva alcun ordine né disciplina. Accanto a una matrice ardentemente norvegese, i padovani Abhor hanno saputo annettere un’anima occulta e misteriosa tipicamente italiana, fattore tenuto in debita considerazione soprattutto grazie a un gelido organo, che non manca di far vibrare le sue nenie mortuarie anche in questa sede. A dire il vero ci vogliono un paio di brani per carburare appieno e andare a regime, la sensazione è che la band abbia dovuto incominciare a suonare senza avere terminato completamente il soundcheck: sul primo pezzo non si capisce bene se stiano ancora provando o l’esibizione sia iniziata sul serio! L’immobilismo tenuto da tutti gli strumentisti, con il solo cantante a ricercare un coinvolgimento fisico nella musica, lascia un po’ sulle sue anche gli spettatori, anche loro bisognosi di qualche minuto per capire esattamente cosa si stiano trovando davanti. Poco per volta, i blackster veneti intorbidiscono di vere suggestioni la venue, le sfuriate old-school ben si amalgamano agli spunti sinistri suggeriti dall’organo e dai riff più sibillini, e anche tutto il vestiario, a base di lunghe vesti e cappucci neri calati in testa di bassista e chitarrista – che stranamente si scambieranno spesso lo strumento durante il concerto – e l’oscena espressione divertita formata dal face-painting sul viso del batterista acquisiscono un tremendo significato. Il pericolo si presenta sotto forma di armate delle tenebre dal passo rapido e incostante, che circondano con circospezione e poi aggrediscono senza dare la possibilità di una controffensiva, mentre le tastiere diffondono aromi vertiginosi e stordiscono fino all’incoscienza. Non la migliore performance del festival, ma gli Abhor hanno comunque contribuito a farci vivere un’esperienza insolita, all’interno di un black metal vecchia scuola oggi omaggiato da una bassa percentuale di gruppi.
Col gruppo greco si sale prepotentemente di livello, stiamo parlando di una delle entità di punta dell’intero panorama black metal underground internazionale, arrivata alla sua completa consacrazione con il recente “Ma-IoN (Formulas Of Reptilian Unification)”. Quello del Black Winter Fest è il primo concerto della formazione ateniese su suolo italiano e l’attesa è davvero palpabile, a bordo stage l’atmosfera si fa elettrica perché c’è consapevolezza fra quasi tutti i presenti dello spettacolo cui si sta per assistere. Avendo ammirato all’opera i cinque al Wolf Throne parigino di marzo, sapevamo di poterci attendere una prestazione sopraffina dal cantante/chitarrista Acherontas V. Priest e dai suoi seguaci. Non ci sbagliavamo. Un concerto degli Acherontas ha una potenza immaginifica con pochi pari, travalica la semplice creazione di una particolare atmosfera, immerge con sensazionale accuratezza nei dettagli in epoche remote, mondi fantastici intrisi di magia dove tutto è possibile, il reale si mischia col sovrannaturale, le tenebre prendono tonalità ingannevoli e si plasmano di forme a noi sconosciute. Candelabri, teschi, fiamme libere davanti alla batteria e a bordo palco, fazzoletti adornati di simboli magici a celare il volto fin sotto gli occhi, la lunga veste sacerdotale del leader sono utili compendi di scena a un concerto che prende subito una piega enfatica e vibrante. Le armonizzazioni delle due chitarre metterebbero in ginocchio per qualità e presa la quasi totalità dell’attuale scena classic metal, le due asce si destreggiano fra melodie taglienti e un riffing veloce ma mai troppo ruvido, che fa volare la fantasia senza permetterle di toccare terra fino all’ultimo secondo di concerto. Acherontas V. Priest canta e recita, officia un rito di cui siamo inconsapevoli protagonisti annettendoci in pochi pezzi al culto da egli celebrato. Non lo conosciamo, ma tanta è la veemenza corale di chi abbiamo dinnanzi che non ci sentiamo assolutamente di rifiutarne la dottrina. Carnalità, estetica sublime, esotismo prettamente mediterraneo e la grazia sporcata di sangue nerastro della moderna corrente black metal che parte dagli Watain, attraversa la Germania, fa un salto a est e poi si pasce delle rovine della civiltà ellenica, si fondono in canzoni lunghe e cangianti, mai dome, iridescenti quanto assassine e cruente. Gli Acherontas vanno in progressione, si crea un accumulo di sensazioni inebrianti che più passa il tempo più lasciano ammirati e deliziati i presenti, stimolati da un cocktail sonoro e visivo ricchissimo. Avremmo gradito vederli come headliner assoluti, ma i cinquanta minuti avuti in dote i blackster greci li hanno spesi benissimo. Alta, altissima scuola la loro.
Gli Ad Hominem sono di casa agli eventi targati Nihil Productions e, durante i loro selezionati show, possono sempre contare su un ampio seguito di propri fedelissimi. Succede anche stavolta, Kaiser Wodhanaz è uno dei musicisti più celebrati all’interno della corrente ‘bellica’ e tetragona del black metal e la sua sola apparizione scatena una bolgia mai osservata con le band precedenti. Coi francesi, ogni discorso relativo alla costruzione di atmosfere sofisticate, di esplorazione di complesse tematiche e dottrine, viene fragorosamente a cadere, a favore di un approccio asciutto e militaresco, che pare essere rimasto immutato anche nell’ultima fatica “Antitheist”, dai cui arriva il grosso della setlist. Quella combattuta dagli Ad Hominem è una guerra contro tutto e tutti, che ricorda le derive più guerrafondaie dei Marduk e i tedeschi Endstille: nessuna parsimonia quanto a uso della forza, violenza concettuale, andamenti squadrati e martellanti. Black metal essenziale e d’assalto è quanto promanano i registri sonici degli uomini del Kaiser, personaggio discutibile quanto si vuole ma dotato di un carisma tutto suo, per niente intaccato dalla curiosa scelta di presentarsi con una canottiera bianca marchiata Lonsdale, forse una semplice provocazione, oppure un gesto di menefreghismo verso l’estetica stessa della musica votata alla Nera Fiamma. Il Kaiser, il volto eternamente rappreso in una smorfia di rabbia e disgusto per l’intero genere umano, emana un nichilismo supremo, specchio fedele di testi non proprio solari né ottimisti quali sono quelli di “Go Ebola!”, “Achtung!”, “Slaves Of God” o l’eloquente “Glory Hole Jesus”. Agli antipodi quanto ad espressione di emozioni, è la faccia ferma e calmissima di uno dei due chitarristi, A.K., intento a contemplare con compiacimento la baraonda ai suoi piedi senza smuovere un muscolo, a parte quelli deputati alle sevizie chitarristiche. La marzialità è l’elemento dominante nella musica degli Ad Hominem, che marciano compatti verso l’annichilmento di qualsiasi forma di vita cosciente oggi presente sulla Terra. Se si è in cerca di una musicalità ad ampio raggio e variopinta, meglio guardare altrove. Viceversa, se per voi il black metal è prima di tutto odio incontaminato e desiderate mitragliate e cadenzati al sapore di plutonio, con gli Ad Hominem andrete a nozze.
NOKTURNAL MORTUM
Vestiti di pelli, il volto ricoperto di disegni richiamanti una cultura pagana patrimonio intellettuale, oramai, solo dei pochi che la custodiscono come una fragile reliquia, i Nokturnal Mortum sono accolti da una calorosa ovazione quando prendono possesso dello stage. Mai avremmo pensato potessero godere di un benvenuto così caloroso su suolo italiano, ma a quanto pare vuoi la loro rinomanza, vuoi il non averli mai potuti ammirare dal vivo nel nostro paese, gli ucraini sono attesi come novelli messia pagani da una buona fetta dei presenti. I cori di approvazione si sprecano e in poche note le prime file ribollono di passione, con molte persone impegnate a cercare di cantare testi che, in molti casi, sono in lingua madre e quindi difficilmente comprensibili ai più. Coi Nokturnal Mortum siamo di fronte a un collettivo scafato, abile nel trasportare su di un palco le sensazioni selvatiche di un metal estremo assolutamente peculiare, dove i confini tra folk e black metal sono quantomeno labili in molto del materiale offerto. Quando si parla di suoni folcloristici, è facile immaginare certi stilemi ‘faciloni’ cari alle correnti folk metal più commerciali provenienti da Nord Europa e Germania: per la band di Knjaz Varggoth, unico membro fondatore rimasto e leader incontrastato, il discorso è abbastanza differente. Affiorano, purtroppo soltanto come basi registrate, melodie struggenti fortemente radicate nella cultura territoriale del paese d’origine e nei territori slavi in generale. Nei momenti più riusciti la ruvidezza del black metal ancestrale si fonde a sentori nostalgici che vanno a nozze con il conservatorismo culturale che sembra, consapevolmente o meno, aleggiare nell’animo di chi si sbatte maggiormente in prossimità del palco. Se la forte presenza di parti registrate toglie leggermente pathos alla narrazione epica del quartetto, la sola presenza del gioviale orco a chitarra e voce e l’austerità dei suoi compari tappano le poche falle che si aprono qua e là durante il concerto. Quelle più evidenti concernono i pezzi dove il folk la fa da padrone e qui sì, lo possiamo affermare con poca probabilità di essere smentiti, i Nokturnal Mortum mostrano preoccupanti analogie con il vituperato metallo danzante scandinavo. Inoltre, per quanto ben elaborate, alcune canzoni sembrano prendere una piega un po’ fumosa e mancare di una forza d’urto che possa giustificare la loro lunga durata. Detto questo, lo show in sé funziona benissimo, anche se probabilmente coloro che non sono die-hard fan del gruppo avrebbero preferito un headliner differente. Resta il fatto che anche in questa edizione il Black Winter Fest ha appagato i desideri dei cultori del black metal tradizionalista, offrendo esibizioni selezionate e difficilmente ripetibili. Vero culto underground, insomma.