Report a cura di Edoardo De Nardi
Giunto ormai alla sua undicesima edizione, il Black Winter Fest non necessita certo di presentazioni, rappresentando un appuntamento fisso per molti extreme metaller italiani, interessati alle varie forme di black metal più o meno moderno presentato nelle varie volte passate, così come del resto per questa occasione. Un cartellone iper-saturo prevede infatti la presenza di ben undici band nel corso della giornata, ognuna incline secondo dinamiche proprie al genere sopracitato. La novità principale risiede nella location, che nel 2018 si sposta al Campus Industry Music di Parma: un locale accogliente, ma forse poco attrezzato per un tour de force musicale come quello previsto dalla scaletta. Ad ogni modo, un’affluenza corposa fin dal primo pomeriggio ed ancor più marcata nelle ore serali rende l’atmosfera calda e scalpitante a dovere. Arriviamo precisi sulle prime note degli Scuorn (perdendo purtroppo l’esibizione degli Afraid Of Destiny) ed è proprio da qui che parte il nostro resoconto…
SCUORN
Il nome degli Scuorn, almeno a livello nazionale, ha già fatto parlare di sé negli ultimi tempi, grazie soprattutto alla peculiare unione di black metal e musica tradizionale napoletana che la band sembra aver coniato con particolare coraggio: piantando con vigore le proprie radici in un metal piuttosto melodico ed accessibile, gli Scuorn ci mettono del loro soprattutto nella scelta di motivi popolari insolitamente a loro agio nel contesto prevalentemente freddo e distaccato in generale associabile al black. In questo caso, invece, si cerca di ‘scaldare’ l’atmosfera con inserti dal sapore quasi etnico e tribale che colpisce nel segno, a giudicare dalla reazione partecipe ed ammaliata della platea. Il mattatore del palco e Giulian, ideatore e creatore del progetto, che tiene alta l’attenzione su di sé grazie ad una buona presenza scenica e ad uno screaming graffiante al punto giusto. Gli Scuorn raccolgono applausi al termine del loro spettacolo, segno di un’esibizione ben organizzata e coinvolgente per i presenti.
ATTIC
Si vira verso sonorità ben più tradizionali con gli Attic, act tedesco non nuovo dalle nostre parti. Cresciuti a pane e King Diamond, i Nostri ne rappresentano ad oggi la più pura discendenza, venando di soluzioni più acide e black-oriented, però, alcuni arrangiamenti. Dotati di scenografie suggestive e presenza fascinosa, gli Attic si impadroniscono con crescente sicurezza del palco, pur commettendo qualche errore di troppo nell’esecuzione dei loro pezzi. Sezione ritmica e chitarre, ad esempio, non sempre brillano per particolare coesione, mentre alcuni dei falsetti più arditi di Meister Cagliostro finiscono per risultare quasi eccessivi. Scremate però queste imprecisioni di fondo, il live si tinge di un certo mood sinistro che lascia scorrere veloce il tempo a disposizione, in cui la band gioca le sue carte migliori proponendo brani dai due album pubblicati fino ad oggi. A metà strada tra citazionismo ed inventiva, gli Attic puntano molto sul versante scenico, aumentando non poco lo charme crepuscolare del loro heavy metal melodico ma aggressivo.
SOJOURNER
Possiamo affermare senza remore che la presenza dei Sojourner all’interno del festival risulta quantomeno bizzarra, visto il tenore ben più oscuro di gran parte del bill. Probabilmente l’esibizione di questo supergruppo (?) internazionale dovrebbe spezzare il ritmo del Black Winter Fest, ma finisce solo per annoiare al termine di quaranta minuti che sono sembrati un’eternità. Incentrato sul dualismo in effetti scontato tra voce maschile distorta ed inserti angelici di voce femminile, lo spettacolo dei Sojourner fatica davvero a trovare un filo logico rispetto al contesto generale, creando una particolare situazione di imbarazzo per i musicisti sul palco. Presi singolarmente, i pezzi della band non riescono a distinguersi in nessun modo, finendo per impantanarsi sempre nelle solite, lente soluzioni canzone dopo canzone ed appesantendo eccessivamente la situazione. Superato il primo passo falso della giornata, quindi, ci si prepara allo show della band successiva.
ANTIMATERIA
Si torna a respirare il freddo del Nord con l’assalto primordiale degli Antimateria, attratti solamente dalla celebrazione della Nera Fiamma del black metal. Ben poco interessati al fattore tecnico, i finlandesi puntano piuttosto ad una ferale interpretazione del black metal più puro ed incontaminato che, sulla scia dei connazionali Sargeist ed Horna, sa macchiarsi di una certa melodia tetra e straniante in alcuni frangenti. Muovendosi quasi sempre su tempi martellanti e poco sostenuti, gli Antimateria ammorbano a dovere il Campus Industry Music, finendo però per strozzare il climax della loro musica proprio sul più bello: problemi tecnici per il chitarrista ed un brusco taglio sulle tempistiche dovuti a ritardi poco chiari nel running order poco chiari portano a termine l’esibizione dei Nostri dopo una manciata di minuti dal loro inizio, impedendoci di formare un giudizio completo su quanto mostrato. Per quanto si è potuto vedere, la semplicità becera e maligna degli Antimateria stava riportando il tenore del festival sui giusti binari prima di venire interrotta in anticipo rispetto a quanto previsto; rimane comunque incompleta la valutazione che facciamo in merito al loro operato.
SAOR
Lo stesso discorso fatto per i Sojourner potrebbe essere applicato senza problemi anche alla prestazione dei Saor, autori di un metal melodico ed atmosferico poco calzante rispetto al pubblico presente, ma con una notevole differenza: rispetto ai brani piatti della band succitata, la musica dei Saor sembra possedere classe ed esperienza, che unite ad un impatto sonoro curato ed avvolgente riescono a rovesciare i pronostici in merito al loro concerto. Il punto in più va sicuramente riscontrato anche in una componente estrema decisamente più marcata, ma comunque di contorno rispetto alle eteree evoluzioni viste sul palco, coronate dalla insolita presenza di un violino quale motore trainante del comparto melodico, elemento che, pur ‘stroppiando’ talvolta, dona un carattere di folkloristica originalità al programma della serata. Buoni arrangiamenti alla chitarra ed una prestazione impeccabile dietro le pelli rendono insomma formalmente sufficiente la prova dei Saor, che riescono così a superare senza impasse qualche soluzione fin troppo smielata.
ACHERONTAS
L’atmosfera inizia a farsi densa e pesante, l’aria pregna dell’odore penetrante dell’incenso e dei candelabri che appaiono sul palco poco prima dell’arrivo on stage dei temibili Acherontas. Volto coperto da bandane sulla faccia, fare minaccioso e tenuta sicura del palco sono le prime caratteristiche a colpire dell’esperto ensemble greco, ormai una conoscenza più che rodata nel circolo black metal europeo e non solo, prima che sia la loro musica misterica ed ipnotica ad attirare definitivamente l’attenzione dei presenti. Come scritto, si nota una certa maestria nel tenere il palco, soprattutto per quanto riguarda il cantante e mastermind del progetto Acherontas V. Priest, che, proprio come il nome suggerisce, officia il proprio oscuro rituale con registri vocali variegati ed eterogenei, accompagnando lo scorrere quasi mantrico di molti brani del suo gruppo. Per quanto talvolta dispersive, le evoluzioni musicali degli Acherontas non mostrano il fianco a difetti di sorta, ribadendo con vigore lo status di culto che questa band sta assumendo sempre più all’interno di festival ed eventi estremi in giro per il mondo.
VALKYRJA
Altro gruppo, altra sfaccettatura del black metal affrontata sul palco: tocca ai Valkyrja stavolta, che guidati dal loro chitarrista (e da poco anche cantante) S. Wizen infiammano letteralmente la scena grazie al loro scoppiettante black di puro stampo svedese. Nati con un’indole reverenziale nei confronti dei Watain fin troppo evidente, oggi i Valkyrja vivono e camminano sulle proprie solide gambe e sono pronti a dimostrarlo nei quarantacinque minuti messi loro a disposizione. Il nuovo album “Throne Ablaze” è uscito solo da pochi giorni e questo tour europeo con Archgoat e Marduk è l’occasione perfetta per sparare alcune delle migliori frecce presenti nella raccolta. A farsi notare, dei nuovi brani, sono soprattutto le riuscite trovate ritmiche, che differenziano non poco i singoli episodi gli uni dagli altri, mentre spiccano solenni, dalle tracce più datate, le melodie chitarristiche che dai Dissection in poi hanno reso indelebile l’apporto svedese al genere in questione. Senza alcun passo falso, i quattro musicisti concludono uno show senza sbavature che ha il merito di scaldare a dovere la platea in attesa del trittico del Male previsto da ora in poi.
ARCHGOAT
Fedeli alla loro attitudine underground a tutti i costi, gli Archgoat eseguono un rapido line check direttamente sul palco per provare volumi e suoni, prima di partire in quarta con la loro setlist malefica. Grande importanza viene data naturalmente all’appena pubblicato “The Luciferian Crown”, omaggiato con numerosi estratti che modificano notevolmente la scaletta usuale del terzetto finnico. Mancano infatti molti classici del repertorio, che non si fanno però rimpiangere grazie all’ottima qualità delle canzoni più recenti suonate al Black Winter Fest. La carica sprigionata è come sempre furiosa ed istintiva e non tarda a scatenare sotto palco il pogo più violento fin qui visto, dimostrando il grande apprezzamento che questa band ottiene ogni volta su suolo italiano. Dal canto loro, i gemelli al basso/voce e chitarra sembrano un pelo spiazzati, forse non proprio abituati a tournée di questa caratura; ma basta poco per lasciarsi calare nelle tenebre più oscure di “Lord Of The Void” o “Goat Of The Moon”, classici senza tempo che riescono sempre ad emozionare ed infiammare all’unisono. La voce cavernosa di Lord Angelslayer, poi, basterebbe da sola a sviscerare incubi repressi ed inquietudini malcelate: un vero e proprio ruggito satanico di inarrivabile profondità. Un poco di coinvolgimento in più da parte dei musicisti non avrebbe guastato, ma non avremmo potuto comunque chiedere di più alla band black/death metal più diabolica che ci sia.
TSJUDER
Si erano un po’ perse le tracce degli Tsjuder negli ultimi anni, band che, dopo il controverso “Antiliv”, aveva fatto calare il sipario sulla sua attività, per tornare però oggi più in forma che mai. Di quelli presenti in cartellone, il loro nome è sicuramente il più esclusivo, visto la centellinata presenza live del combo norvegese, e sono in molti ad attendere ormai con irrefrenabile impazienza che si sprigioni la bufera di neve notoriamente evocata dai tre in sede live. Nessuno scherzo: infatti gli Tsjuder sono pronti a mettere a ferro e fuoco Parma come da tradizione e decidono di farlo mettendo in piedi una scaletta affilata e ferale, perfetta per esaltare le spigolature tipicamente norvegesi del loro sound. Dividendosi l’onere vocale in due, Nag al basso e Draugluin alla chitarra danno prova di grande coesione e complicità, lasciando esondare con veemenza il black metal old-school e tradizionale al massimo contenuto tra i solchi delle loro uscite discografiche, riservando fortunatamente un occhio di riguardo a “Desert Northern Hell” e alle magnifiche composizioni in esso contenute. Qualche problema all’impianto audio (presenti in realtà un po’ per tutti i gruppi) provano ad inficiare la performance maiuscola degli scandinavi, che non sono però intenti a lasciarsi sciupare i giochi da interferenze esterne: la loro marcia procede stoica e solenne, passando per la cover di “Sacrifice” dei Bathory ed arrivando a concludersi nell’estasi generale del pubblico, semplicemente elettrizzato dalla potenza blasfema scatenata dagli Tsjuder con così disarmante naturalezza.
MARDUK
I preparativi per la band headliner, giustamente, si protraggono un po’ di più rispetto a quanto visto fino ad adesso, aumentando l’attesa verso l’assalto finale dei lupi di Norrköping. Calcare il palco dopo il successo degli Tsjuder non deve essere facile, ma stiamo parlando di professionisti rodati, che non temono nessuno e sanno come devastare a dovere la povera platea, invero già stremata dalla lunga giornata di metal appena passata. Non ci sono problemi però, basta la doppietta di apertura del leggendario “Panzer Division Marduk” per drizzare le orecchie, raccogliere le ultime forze e lanciarsi in trincea per l’ultimo assalto all’arma bianca. Il sound degli svedesi è cupo, oscuro, perfetto per gli squarci in screaming di Mortuus e le sue litanie anticristiane e guerrafondaie, un invito alla battaglia raccolto con fervore dai più stoici sotto palco. E’ tempo di proporre il nuovo materiale di “Viktoria” con “Werwolf” e, in seguito, con la massacrante “Equestrian Bloodlust”, prima di scandagliare con perizia la propria corposa discografia eseguendo da ogni album i brani più famosi e riusciti, con particolare attenzione ovviamente al materiale composto e registrato con Mortuus dietro al microfono. “The Levelling Dust”, “Throne Of Rats” e “Into Utter Madness” mostrano infatti le varie sfaccettature, ora più aggressive e sanguinarie, ora più riflessive e solenni, che i Marduk hanno saputo assumere nel tempo, confezionando una prova completa ed esaustiva. Ci penserà “Wolves”, ipotetico inno del black metal anni ’90, a portarci indietro nel tempo, prima che si giunga fin troppo presto alla conclusione definitiva del concerto e del festival tutto.
A conti fatti, si lascia il Campus Industry Music letteralmente massacrati, tanto dalla qualità delle band quanto dalla quantità di esse, un numero sicuramente eccessivo per essere seguito con la giusta attenzione e freschezza; per il futuro, una parziale riduzione del bill potrebbe sicuramente permettere di riprendere fiato con più calma e, conseguentemente, onorare i gruppi più importanti con la dovuta dose di trasporto ed entusiasmo; ad ogni modo, rimane difficile segnalare a livello italiano un evento così caratterizzante e di livello per il black metal, costellato qua e là da qualche ingenuità (si vedano i pochi posti per sedersi oppure il cibo a prezzi considerevoli) ma gestito con passione ed esperienza di livello assoluto.