Report e introduzione a cura di Matteo Cereda Foto a cura di Francesco Castaldo
Li avevamo ammirati nel 2007 all’Alcatraz di Milano e da lì non si sono fatti più vedere sul suolo italico, ma già all’epoca vi avevamo avvertito di non farveli scappare una seconda volta. Grande attesa dunque per i Blackfield, progetto parallelo del leader dei Porcupine Tree, Steven Wilson, in collaborazione con il cantante israeliano Aviv Geffen. I numerosi impegni dei due musicisti non permettono alla band frequenti dischi e tour, ma la recente uscita del terzo disco in studio “Welcome To My DNA” ci regala la possibilità di rivedere i Blackfield per ravvivare i ricordi ormai sfocati della bellissima serata di qualche anno fa.
NORTH ATLANTIC OSCILLATION
Il duro compito di aprire la serata all’alba delle 20 circa spetta ai North Atlantic Oscillation, nuova promessa progressive rock di casa Kscope. Il trio originario di Edimburgo, che per l’occasione evidenzia una formazione a quattro, si presenta timidamente al pubblico italiano ancora sparuto in sala, proponendo un progressive rock di nuova generazione ricco di spunti post rock e di elettronica. La componente electro della band scozzese è determinante nell’economia del sound, non a caso i musicisti si avvalgono di imponenti basi sintetiche o effetti sui propri strumenti per interpretare le tracce quasi interamente derivanti dal debutto sulla lunga distanza uscito un anno fa a titolo “Grappling Hooks”. Buone le armonizzazioni vocali di stampo prettamente britannico così come appare ben amalgamata la componente psichedelica in contrapposizione alle aperture o sfuriate post rock. Attraverso l’ascolto di pezzi come l’apripista “Cell Count”, “Hollywood Has Ended”, “Ceiling Poem” e la magnifica “Ritual” eseguita in chiusura, abbiamo la sensazione di trovarci di fronte ad una band di grande spessore artistico che, pur non disdegnando l’influenza di Pink Floyd, Oceansize e Sigur Ros, mantiene una buona personalità. Una resa sonora più pulita e bilanciata avrebbe consentito di apprezzare meglio alcune delle delicate linee vocali sovrastate dalla “massa” strumentale, ma come inizio non c’è davvero male!
BLACKFIELD
Sono le 21 e 15 quando i Blackfield, accompagnati da un’introduzione di musica classica, fanno il loro ingresso sul palco dei Magazzini Generali milanesi. Il piccolo locale nel frattempo si è riempito a dovere mostrando un buon colpo d’occhio, sprigionando il dovuto calore a Steven e Aviv che ingranano con “Blood”, tratta dall’ultima fatica in studio della band. Il sound appare ben bilanciato permettendo di apprezzare le infinite sfumature del sound dei Nostri, il pubblico apprezza e si trova letteralmente coinvolto da un vortice emozionale che la band anglo-israeliana decide di fornire limitando al minimo le pause tra una canzone e l’altra. Nella prima parte dello spettacolo a farla da padrone è il nuovo “Welcome To My DNA”, che a conti fatti verrà eseguito interamente ad eccezione di “Far Away”. Nella seconda parte di spettacolo le nuove composizioni saranno alternate in maniera più equilibrata al vecchio materiale, ma in avvio la band decide giustamente di dare la precedenza al nuovo arrivato, con l’eccellente riproposizione di pezzi quali l’opener “Glass House”, “DNA”, “Waving” e “Go To Hell”, che Aviv confessa di aver scritto pensando ai suoi genitori. Il quintetto, completato dalla presenza di Eran Mitelman alle tastiere, Seffy Efrati al basso e Tomer Z alla batteria, mostra notevole compattezza riuscendo a riproporre in maniera perfetta l’art rock emozionale dalle tinte melanconiche che abbiamo apprezzato sui dischi con fedeltà pressoché assoluta, ad eccezione di un comprensibile e apprezzato irrobustimento complessivo del sound. Uno dei punti di forza dei Blackfield è senza dubbio la componente vocale, con i bellissimi contrasti creati dalle differenti timbriche di Steven e Aviv, le linee semplici eppure mai banali, ma anche grazie alle armonizzazioni corali eseguite senza l’ombra di una base in maniera stupefacente. Nella prima metà di show impossibile non menzionare l’esecuzione di perle quali l’omonima “Blackfield” e “Pain”, mentre in un secondo momento anche le tracce del secondo disco “II” vengono chiamate in causa con successo, pensando all’intensità raggiunta con “Once” ed “Epidemic”, ad esempio. Dopo una breve pausa i Blackfield rientrano accolti da un boato e attaccano con un classico del calibro di “Hello”. Prima del definitivo congedo c’è spazio ancora per un paio di pezzi: “End Of The World” e l’immancabile “Cloudy Now”. La prima regala emozioni uniche grazie all’interpretazione a dir poco sentita di Aviv Geffen, mentre la seconda è teatro di un simpatico siparietto allorché un fan anticipa il coro tra le risate generali, durante una pausa catartica all’interno del pezzo. Niente paura! Steven ammonisce e poi si riprende come se niente fosse successo dando spazio al finale forte in cui la band urla l’emblematico verso “We’re a fucked up generation! It’s cloudy now!”, mettendo fine ad uno spettacolo straordinariamente intenso di un’ora e quarantacinque minuti in cui la band ha SUONATO con trasporto e perizia tecnica esemplari, lasciando da parte inutili giochetti che molti gruppi utilizzano solo per tirare l’ora e andarsene a casa!
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