Report a cura di Giovanni Mascherpa
Foto di Jarle H. Moe (Sito ufficiale, Facebook, Twitter, Instagram, Pinterest)
Il Blastfest, concepito e organizzato dalla laboriosa mente di Yngve “Bolt” Christiansen, cantante dei Blood Red Throne, giunge alla terza edizione. Partito subito forte, con due line-up di alto profilo nelle edizioni 2014 e 2015, già all’altezza dei migliori festival europei, sia indoor che outdoor, quest’anno l’happening norvegese si è connotato per un’idea unica. Pazza. Sognatrice. Destinata a lasciare un segno profondissimo nella storia minima di questo tipo di manifestazioni e a rimanere impresso nella memoria di musicisti, addetti ai lavori vari ed eventuali, spettatori, per tutta la vita che avranno ancora davanti. La Blastphemy Production, l’agenzia dietro la poderosa ed agile macchina del Blastfest, ha puntato su un’edizione interamente autoctona, “a one time only celebration of the Norwegian metal scene”, prendendo a prestito le parole campeggianti sulla locandina. 52 gruppi, tutti provenienti dalla terra dei fiordi, dalle blasfeme leggende del black metal che proprio da Bergen hanno mosso i primi passi nella notte dell’extreme metal, fino alle evoluzioni più fantasiose e fantasmagoriche, le idee più bislacche impresse su supporti digitali e analogici. Il tutto prendendo in considerazione giovinastri in rampa di lancio, notevoli entità underground mai arrivate alle luci della ribalta, act celeberrimi nel pantheon metal internazionale. Un rincorrersi di interpretazioni metalliche multiformi, storie underground intrise di sacrifici, orgoglio e piccoli grandi capolavori, eventi unici, reunion insperate, incroci di personaggi che hanno incrociato gli uni con gli altri carriere e storie umane e spesso hanno concepito lavori destinati a cambiare per sempre la nostra musica. Prima ancora che un festival, il Blastfest 2016 si è configurato come un riepilogo esaustivo di cos’abbia rappresentato, e rappresenti tutt’oggi, la Norvegia per l’universo heavy metal. Una terra che fino agli Anni ’90 nulla pesava nella storia del rock, e che partendo da satanismo da quattro soldi, chiese bruciate e idee musicali iconoclaste ha creato nuovi generi, li ha resi popolari, li ha sviluppati in un dedalo di vie che nessuno avrebbe mai immaginato potessero esistere. Fin dalla prima sera al Garage e per tutta la durata della manifestazione – quattro intensissimi giorni – si è respirata un’atmosfera unica, famigliare, con i musicisti che giravano tranquillamente per la venue per godersi gli spettacoli di amici e colleghi, si fermavano a parlare con chiunque lo chiedesse e posavano volentieri per le fotografie di rito. Con l’animo calmo e quieto di chi si stava godendo, al pari degli spettatori, un momento storico, da assaporare pienamente per far durare il piacere il più a lungo possibile. Sul piano organizzativo e logistico, è andato tutto per il verso giusto, tenendo fede all’idea di precisione e affidabilità che dalle nostre parti serbiamo per chi sta in Scandinavia. L’USF, ex fabbrica per la conservazione delle sardine riadattata a centro culturale, si è rivelata una location perfetta. Vicina al centro città e raggiungibile facilmente a piedi, ha accolto metallari di tutta Europa in locali lindi, sempre puliti da pomeriggio a notte inoltrata, dove tutte e tre le sale predisposte per i concerti si sono rivelate comode, dotate di un ottimo impianto audio e di tecnici in grado di farli funzionare a dovere. Locali ben arieggiati, con una temperatura interna sempre gradevole e un’affluenza buona ma non eccessiva, che ha sempre consentito di vedere i concerti in santa pace, senza subire spintoni o resse fastidiose. Ciò grazie anche alla civiltà del pubblico, molto rilassato ed educato, mai incline a comportamenti sopra le righe. Le esibizioni sono state sempre contraddistinte da orari rispettati quasi al centesimo, ottimi suoni e, quando possibile, scenografie spettacolari. È balzata all’occhio e all’orecchio la squisita gentilezza di tutti i ragazzi dell’organizzazione, in molti casi volontari che hanno potuto mediare fra lavoro di supporto ai palchi e al merchandise con la possibilità di vedere, durante le pause dalle loro incombenze, molte delle band presenti. Tallone d’Achille per un festival svoltosi da questi parti è, ovviamente, il prezzo, dal biglietto (180 euro circa per i tre giorni all’USF, poco oltre le 200 comprendendo anche la prima serata al Garage), ai voli, al cibo, mentre per quanto riguarda la sistemazione alberghiera chi scrive ha scovato facilmente un’ottima combinazione in un ostello del centro, veramente economico e dotato di tutti i comfort. Detto infine di una prima serata dai toni squisitamente underground nei sotterranei della città dei fiordi, in un Garage stipato e fibrillante, della bellezza di Bergen come città – dopo il primo giorno che si è da queste parti, risulta chiarissimo perché qui il black metal abbia prosperato – e di una serie di attrazioni collaterali (la mostra dei dipinti di Gaahl nelle vicinanze del museo d’arte moderna cittadino, la mostra delle opere del rinomato artista polacco Zbigniew Bielak, la listening session dei nuovi full-length di Sarke, Vredehammer e Sahg al pub-negozio di dischi più bello che abbiamo mai visitato, l’Apollon, le diverse signing session organizzate), vi lasciamo all’ampio excursus delle esibizioni cui abbiamo avuto il piacere di assistere. Fidatevi se vi diciamo che una roba del genere non l’avevamo davvero mai vissuta!
HADENS
Con un ritardo minimo sulla tabella di marcia, cinque minuti circa, inizia ufficialmente il Blastfest 2016 con l’ingresso in scena degli Hadens, abitanti proprio nella città sede del festival. Presto per definirli idoli locali: il primo album omonimo, già in vendita al banco del merchandise, ha data di uscita prevista nei giorni immediatamente successivi la loro apparizione al Garage (20 febbraio). Si percepisce nell’aria, nonostante l’orario e una sala mezza vuota, un clima di vero culto, come se già in questa prima serata con nomi, sulla carta, di secondo piano, dovesse accadere qualcosa di magico, impossibile da scovare altrove. Gli Hadens partono col piede giusto, incappucciati e rivestiti di un saio che arriva fino ai piedi, escluso il batterista per non impedirne i movimenti. Non solo scena comunque, i ragazzi ci sanno fare e mettono in mostra uno spettro stilistico piuttosto variegato. Nei primi brani ondeggiano in un crudo black/doom molto controllato, dove gli stessi atti scenici sono ridotti al minimo e ci portano a una dimensione realmente claustrale. In seguito i toni si inaspriscono, le velocità si alzano, i musicisti sciolgono la tensione, tirano indietro il cappuccio e si mettono a pestare con cattiveria, alternando spunti bathoryani, altri alla Celtic Frost e un credibile, cieco, oltranzismo figlio del black dei primi Anni ’90. Canzoni abbastanza lunghe e articolate ci esplodono addosso con la forza di minimali riff di qualità, così che questa prima mezz’ora di concerto scivola via fra inneggiamenti sempre più convinti dei presenti ed euforia generalizzata. Battesimo del fuoco superato ottimamente.
ENDEZZMA
Seconda esibizione di giornata e primo punto esclamativo della manifestazione. Gli Endezzma sono in attività da una decina d’anni e hanno all’attivo solamente un full-length, il programmaticamente intitolato “Erotik Nekrosis”. Come il titolo fa intuire, melodie e toni rilassati sono severamente banditi, il gruppo ci assale con un carico di black metal oltranzista che riassume i toni biecamente militareschi di gente come Endstille e Ad Hominem, la depravazione dei Marduk, la bramosia d’oscenità dei Gorgoroth. Il trucco di scena, fra sangue ovunque, lunghe borchie appuntite, sguardi da serial killer sotto il pastiche di cerone e altra ‘robaccia’ buttata su volti e braccia, ben predispone un’audience già bella carica, stipata nelle prime file e calda abbastanza da incendiare la venue di un’atmosfera apocalittica. Tempi medi squadrati si danno il cambio a sassate monocrome gestite in ogni caso con ottima tecnica, per cui la nitidezza non viene mai meno anche nei frammenti più concitati e isterici. Il singer Morten Shax domina la scena forte di uno screaming magnifico, una sentita ode a Satana Signore degli Inferi, e si permette anche qualche momento teatrale, come quando inizia a rigurgitare sangue e squadra le prime file in tralice, dando l’impressione di volere scavalcare la transenna e picchiare chi ha davanti. Impossibile stare fermi, gli Endezzma si giocano bene le loro carte e, a questo punto, attendiamo di sapere se vi saranno ulteriori sviluppi anche sul fronte discografico.
Setlist:
Against Them All
Malferno
Gates Of Mephisto
Serpent Earth
Alone
BLODHEMN
Nuova band dall’età media abbastanza bassa, di stanza a Bergen e accasata in questo caso per Indie Recordings, altra band che ci preme segnalarvi caldamente e da tenere monitorata per il futuro. Quando li vediamo salire sul palco rimaniamo quasi delusi: passare dalla crudeltà degli Endezzma a un outfit pulito come quello di questi giovanotti, privi di trucco di scena e nemmeno caratterizzati da un look old-school ‘denim and leather’, ci lascia un po’ così. Pazienza, perché quello che conta è la musica e su quello gli uomini di Invisus, mastermind del progetto che solo per i live si avvale di altri musicisti, gestendo tutto in prima persona in studio, chiariscono di essere qui al Garage a pieno titolo. I Blodhemn si fanno strada nei nostri cuori neri tramite canzoni molto dirette ma colme di differenti sfumature, con un occhio di riguardo a melodie evocative in sottofondo, un’epicità mai totalmente manifesta ma sempre presente e un lavoro ritmico che alterna grandi rudezze a piccole sfiziosità. Soprattutto dalle parti del bass-player, bravo a supportare ritmiche di batteria secche e senza fronzoli e avvicinarsi, in qualche maniera, a un’idea di musica leggermente più ‘progressiva’ dei compagni di reparto. Anche in questo caso, come per chi ha preceduto questo gruppo e chi li seguirà, è evidente una grande cura nel songwriting, nei riff e nelle dinamiche, per cui tutto diventa avvincente e coinvolgente anche andando di là della semplice botta di brutalità, garantita comunque per tutto il breve set. Nulla da eccepire quindi sull’operato dei cinque, capaci di strappare consensi un po’ a tutti nel tempo a disposizione.
Setlist:
Brenn
Djevelen i Menneskeform
Dan
Nekro
Flammens Virke
Evig Heder
Vill
VOLUSPAA
Tastiere, violino elettrico, tre voci a sovrapporsi fra rabbia e soavità. Le atmosfere lordate di atrocità e fustigazioni delle band precedenti vengono in parte sostituite da quella che, assieme agli headliner Chrome Division, rappresenta l’anomalia della serata. I Voluspaa sono una one-man band frequentante le scene dal 1995, che ha avuto finora una storia assai frammentaria, contraddistinta da demo (ben quattro), split e singoli (uno ciascuno) e un solo vero album, “Åsa” del 2010. Si parla quindi di un’altra realtà di nicchia, che non si vede spesso in giro anche nel proprio paese. I timori di essere di fronte a una band un po’ festaiola, dedita magari a un becero folk ‘ballabile’ tipico delle lande nordiche, sono fugati nel giro di una manciata di minuti. Violino e tastiere vanno effettivamente a disegnare melodie facili, quasi gioiose, però non assistiamo mai a banalizzazioni o facilonerie e, sul fronte eminentemente metal, il controcanto rappresentato dalle aspre voci del carismatico leader e l’aura sprezzante delle chitarre ci fanno comprendere che i Voluspaa, di puntare al divertimento spensierato, non hanno alcuna intenzione. Freddy Skogstad cerca il contatto con le prime file, si sbatte come un dannato sull’angusto stage e riesce facilmente a coinvolgere chi ha di fronte, ben coadiuvato dagli altri musicisti, tutti molto precisi, consapevoli del loro ruolo e preparatissimi su quanto debbono suonare. Andando avanti nello spettacolo arie battagliere prendono piano piano il sopravvento, anche se la dolcezza dei vocalizzi femminili e l’estro del violino mantengono sempre un soffio di struggente poeticità all’interno di brani che amano crogiolarsi in barbare durezze e scontrosità vichinghe. Una bella sorpresa.
SVARTTJERN
Dai sentimenti gonfi di pathos dei Voluspaa alla carneficina degli Svarttjern il passo è breve, giusto il tempo di rifiatare, prendere una boccata d’aria fuori da un Garage ora gremito e rituffarsi nel sadismo del black metal vecchia scuola dei folli personaggi di stanza ad Oslo. Costoro incarnano la vera essenza del nero metallo primordiale, comunicando un odio smisurato, una traboccante volontà omicida che non conosce barriere. Sembra di risentire i Mayhem di “Deathcrush”, quella stessa scelleratezza isterica, una (in)sensibilità per gli aspetti più ributtanti della musica che ci lascia di sasso, anche se il genere a cui i musicisti si applicano è avaro di sorprese o di spunti particolarmente originali. Però l’intensità è davvero mostruosa, veicolata anche da uno stage acting invasatissimo, dove un po’ tutti svolgono al meglio la loro parte, lordati di sangue e body-painting irregolare. Tutto un programma l’armamentario di borchie, collari, spuntoni addosso al cafonissimo singer Hans Fyrste, in preda a una trance omicida che non va a offuscare l’incisività delle vocals, dotate di terrificante espressività e, a ben vedere, anche un certo sarcasmo. Sì, perché alla fine nella ben orchestrata caciara di blast-beat e saette chitarristiche si infilano pacchianissimi giri rock’n’roll, un po’ alla ultimi Darkthrone, senza che questi prendano il sopravvento sulla violenza fisica e concettuale. Il campionario di facce dementi del singer, vagamente somigliante all’ex cantante dei Centvrion Germano Quintabà, arricchisce di beato non-sense un concerto così eccessivo che ogni tanto non si sa se prenderlo sul serio oppure lodare lo spirito caricaturale di certe mosse. L’impressione generale è infine assolutamente positiva, da un profondo pozzo ricolmo di pece gli Svarttjern hanno tirato fuori un concentrato di malignità godibile dalla prima all’ultima nota. Bravi.
Setlist:
Upon Human Ending
I Am The Path part II
Admiring Death
Hellig Jord
Stillborn Acolyte
All Hail Satan
Hymns for the Molested
Ultimatum Necrophilia
Code Human
MISTUR
In procinto di pubblicare, a fine aprile, il secondo album “In Memoriam”, i Mistur vanno a chiudere l’ampio panorama black metal offerto dalla serata del Garage, prima di darci alla pazza gioia con il party-rock’n’roll dei Chrome Division. Fra il caldo e l’ardore con il quale tutte le performance precedenti sono state seguite, ci si poteva anche aspettare un minimo di rilassamento da parte dei presenti in attesa del gran finale. Ci accorgiamo in fretta, però, che il sestetto, di tutti gli ensemble andati in scena finora, è probabilmente quello a godere del maggiore seguito. Non importa che il primo full-length, “Attende”, risalga addirittura al 2009, c’è vera voglia di Mistur nell’aria e ne abbiamo immediata prova dai cori che accompagnano la prima manciata di episodi in scaletta. La memorizzabilità dei pezzi è superiore a chiunque si sia visto fino a questo punto, la commistione fra death melodico, black sinfonico e viking ci mette un nonnulla a galvanizzare un’audience per nulla provata da un susseguirsi di esibizioni una più frenetica dell’altra. L’equilibrio fra i sottili synth di Espen Bakketeig, ottimo anche alla voce pulita, e chitarre ribollenti di ruvida gloria fa viaggiare rapida la formazione in un crescendo di epicità che raggiunge apprezzabili momenti di fastosità, grazie alla spavalda intraprendenza mostrata un po’ da tutti quanti sul palco. Ancora una volta in questa prima giornata di festival, più che un’originalità di vedute non ravvisabile nemmeno nell’operato dei Mistur, colpisce la sicurezza e la coesione di tutti gli elementi, la volontà di rendere memorabile il concerto, buttando l’anima dal primo all’ultimo secondo. La risposta, come accennato, rimane rabbiosamente festosa per tutti i quarantacinque minuti: in sala c’è la consapevolezza che quest’edizione del Blastfest non abbia nulla in comune con altri festival e sia i protagonisti on-stage che i paganti hanno tutta l’intenzione di renderla qualcosa di memorabile. Anche i Mistur portano il loro mattoncino alla causa di questa ‘All Norwegian Edition’.
CHROME DIVISION
Prendete personaggi più o meno noti dello scenario black metal norvegese, lavategli via il face-painting, teneteli lontani da croci rovesciate e altro armamentario satanico, fategli riascoltare una bella dose dell’hard rock frequentato in giovinezza, e voilà, ecco magicamente saltar fuori dal nulla un gruppo come i Chrome Division! In questi dodici anni di carriera non si può dire che Shagrath e compagni abbiano lasciato un’impronta profonda nell’immaginario collettivo, ma gli va riconosciuto di aver proseguito sulla strada del rock’n’roll disimpegnato senza stare troppo a interrogarsi sulle eventuali opinioni del pubblico. Il fatto che siano headliner in questa prima giornata di Blastfest può sembrare un po’ un assurdo, i Chrome Division non c’entrano nulla col mood della serata, però francamente non ci dispiace questo drastico cambiamento di sonorità e assistere a un concerto pressoché unico in una line-up che altrimenti nulla concederebbe al rock più disimpegnato. Motorhead, Danzig, hair metal, rock Anni ’60, i cinque mattacchioni di Oslo frullano assieme diversi approcci, giocando coi clichè e rispolverando un modo di essere da simpatiche canaglie che è buffo osservare in musicisti solitamente dediti a suoni nettamente più estremisti. Il cantante Shady Blue, gli occhi nascosti da enormi occhialoni specchiati, gigioneggia compiaciuto, arringa la folla, la blandisce e la prende in giro, mettendo in piedi simpatiche scenette fra una canzone e l’altra, ben coadiuvato dai compagni, che partecipano divertiti ai suoi lazzi e frizzi. Anche dal lato musicale la band si fa apprezzare, in sede live i refrain acquistano rinnovato vigore, la spinta ritmica è di tutto rispetto e i fraseggi di chitarra avvincono pur passando in rassegna giri molto semplici e sentiti mille volte. “(She’s) Hot Tonight” è la nostra preferita all’interno di una scaletta molto ampia, che ha permesso ai Chrome Division di spaziare in lungo e in largo all’interno della propria discografia, con disponibilità di tempo di cui poche altre volte devono aver goduto. Doverosa citazione per la cover di “Killed By Death”: dei Motorhead-addicted come questi non potevano farsi scappare l’occasione di omaggiare il compianto Lemmy. Peccato soltanto che in molti, forse perché poco attratti dalla proposta degli headliner, forse per l’ora tarda (il concerto finirà ben oltre l’una) lascino anzitempo il Garage, lasciando che lo spettacolo si concluda davanti a uno sparuto manipolo di fedelissimi. Di ciò i Chrome Division sembrano non accorgersene, alla fine i musicisti salutano e abbracciano chiunque gli si pari davanti, ben contenti di essere stati parte di un tale evento.
Setlist:
Breathe Easy
Wine of Sin
Bulldogs Unleashed
Zombies & Monsters
Endless Nights
(She’s) Hot Tonight
Trouble With the Law
Reaper on the Hunt
Fight
Raise Your Flag
Raven Black Cadillac
Booze, Broads, and Beelzebub
Killed By Death
Serial Killer
REPTILIAN
Non c’è ancora moltissima gente al Sardinen quando vanno in scena i Reptilian. In pochi, crediamo, sono a conoscenza anche solo dell’esistenza di questi personaggi, aventi alle spalle soltanto uno split con gli Inculter, formazione con la quale condividono Cato Bakke, nei Reptilian voce e chitarra, mentre per gli autori di “Persisting Devolution” occupa il posto di bassista. L’età media è bassissima, ci stupiremmo se qualcuno dei musicisti a noi di fronte superasse i vent’anni, tutti quanti hanno l’aria implume degli adolescenti alla prima uscita fuori dalle mura di casa senza i genitori a monitorarli. Gioventù che in questo caso fa rima con sfacciataggine, perché i Reptilian assestano immediatamente dei signori scossoni e ci fanno capire di non essere davanti a dei cosiddetti ‘scappati di casa’. Seguendo una corrente recente del death metal nordico, i quattro mescolano urgenza espressiva – si sentano le rasoiate old-school thrash nei frangenti più rapidi – e tentazioni a perdersi nell’oscurità, valicando più volte i confini del doom e affogando la crudezza delle intenzioni in una malevolenza ad ampio raggio, piacevolmente sabbatica. Da un lato, intervengono a più riprese giri ignoranti mutuati dal primo death svedese, dall’altro si nota la volontà di complicare le cose e frequentare andamenti umorali, con parentesi fustigatrici e punitive intervallate da rallentamenti sulfurei e armonizzazioni ipnotiche. Prende piede un forte senso di smarrimento con lo scorrere dei pezzi, ci accorgiamo che i Reptilian, pur incanalandosi in un filone ben riconoscibile, sono bravi nello scompaginare le carte in tavola e a non farci capire facilmente dove vogliano andare a parare. L’atteggiamento dei ragazzotti di Fusa è all’insegna di un dialogo ridotto all’osso, giusto un paio di annunci in growl dei pezzi che andranno a eseguire, mentre lo sbattimento durante le canzoni è quello che vorremmo sempre ammirare nelle giovani band che si affacciano sui grandi palcoscenici. Cercheremo di non perderli di vista, considerando altresì che tra due mesi vedrà la luce per Edged Circle il primo full-length “Perennial Void Traverse”.
KAMPFAR
Dei Kampfar o del concetto di non sbagliare uno show. Visti all’opera di recente alle nostre latitudini nella bella cornice del Fosch Fest, i quattro viking/black metaller capitanati da Ask rappresentano un’inossidabile sicurezza, uno dei portacolori della vecchia scuola black metal ad essere invecchiato meglio. Su di loro puoi sempre contare per assaporare suoni brutali, grezzi, evocativi di un mondo irraggiungibile tra le pieghe del passato. Quando irrompono sullo stage, disadorno come è loro abitudine, senti scorrere nelle vene lo spirito dei conquistatori, degli avventurieri che partirono da casa e andarono a caccia di nuovi territori da annettere, preferibilmente con la forza. Intanto che s’impegnavano in queste rischiose imprese, costruivano dentro se stessi e con gli altri una cultura forgiata dal contrapporsi con l’aspra natura circostante, segnata da rapporti di sangue fortissimi, virili amicizie e la volontà di non cedere mai alle difficoltà imposte dall’esistenza. Tutto questo emerge distintamente nei cadenzati battaglieri di cui la musica dei Kampfar è ricca, mentre Ask punta gli occhi e il braccio verso una meta indistinta davanti a lui, richiamando la nostra attenzione al raccoglimento, spronandoci a lanciarci contro gli ostacoli che ci troviamo davanti, ad abbatterli con la grinta che abbiamo nel cuore. Un’intensa celebrazione della nordicità, questo è uno spettacolo dei Kampfar: Jon Bakker e Ole Hartvigsen allestiscono un quadro sonico acceso, dipinto di tonalità forti e ardenti, sul quale il carismatico singer ha gioco facile nel cavalcare l’onda emotiva e a farci volare con la fantasia. Sporchi latrati ripieni di enfasi e lirici puliti sono influenzati da spunti di un folk arcano, antichissimo, fuso completamente nella parte più estremista dello stile dei Kampfar, del quale diventa infine un compendio imprescindibile, punto di svolta per una compagine dotata di una poetica unica, rafforzata da un ultimo full-length (“Profan”) ancora una volta avvincente e credibile nel riproporre tormentate storie vichinghe. Una freschezza, quella della settima opera in studio, traslitterata in un live d’altissimo profilo, meritevole di essere visto almeno una volta nella vita da chiunque si dichiari black metaller osservante. Bergen capta est.
Setlist:
Gloria Ablaze
Troll, Død Og Trolldom
Skavank
Daimon
Mylder
Our Hounds, Our Legion
DØDHEIMSGARD
I Dødheimsgard, o DHG, come si fanno chiamare ultimamente, hanno compiuto l’ennesima evoluzione copernicana nell’ambizioso “A Umbra Omega”, corpo dai mille arti e dalle mille emozioni che ha rivendicato l’assoluto valore della compagine di Vicotnik. Nel pomeriggio dell’USF i quattro pazzoidi irrompono con un outfit abbastanza dimesso, privi del trucco colorato e disturbante che ne aveva caratterizzato il periodo immediatamente successivo a “Supervillain Outcast”. Si fa notare solamente il cantante Aldrahn per una vistosa giacca rossa da musicista d’avanspettacolo; gli altri tre, almeno in questa sede, ci tengono alla sobrietà e preferiscono far parlare direttamente la musica. Causa la natura di anomalia nell’anomalia, intesa come un’ulteriore digressione in senso allucinato di un genere, quello avant-garde black metal, già di per sé di difficile masticazione, il Røkeriet si presenta con ampi spazi vuoti, che non andranno a riempirsi più di tanto durante il concerto. Desta inoltre un certo scalpore, per chi non conosca la band, questa chitarra un po’ sottile, sovrastata dalle escursioni ballerine di basso e batteria; suona inconcepibile, anche se il suono dei Dødheimsgard, come udito nell’ultimo album, è questo e ciò non accade di certo perché Vicotnik, principale compositore, abbia esaurito la vena creativa. Soltanto, questa è la sua scelta di equilibri interni fra i diversi strumenti. Sembra di ascoltare un’estremizzazione del techno-thrash più funambolico, Sekaran ai tamburi si sobbarca un lavoro durissimo, miscelando stacchi jazz, blast-beat irregolari, groove ipnotici, tempi dispari bastardi, coadiuvato da ‘surfate’ di un basso libero di muoversi per galassie insondabili. Poco spazio all’ultimo disco, le lunghezze monstre delle sue tracce ci riservano la sola “Aphelion Void” in chiusura, il resto va a colpire incessante nelle schizofrenie sardoniche del materiale più datato, tutto proposto con l’intelligenza e la freschezza tipica del gruppo. Nel quale Aldrahn svolge il ruolo di divertentissimo mattatore, quasi ballando il tip-tap, imbastendo scivolamenti plastici, deformando la faccia in espressioni clownesche mai troppo accentuate nell’effetto comico. Il massimo tocco surreale lo si ha in quei movimenti delle mani che lo portano a disegnare figure astratte nell’aria, dove tocca immaginari bottoni, unisce puntini, piega linee di nulla, plasma figure inesistenti. In pochi, crediamo, colgono tutta la grandezza di questa band nell’occasione, i Dødheimsgard resteranno per sempre troppo avanti per avere un minimo di riscontro ‘popolare’: quel che è certo, è che artisticamente non si toccano e non lo si può fare nemmeno dal lato umano, vista la gratitudine con cui ci hanno salutato. È stato davvero bello, stringendo le mani a un Aldrahn quasi commosso, sentirsi dire “Thank you for coming!”, con un accento di vera gratitudine. Ricambiata da parte nostra col medesimo trasporto.
INCULTER
Avendo apprezzato l’esordio su lunga distanza “Persisting Devolution”, il sottoscritto riponeva alte aspettative sull’operato degli Inculter, manipolo di assatanati adolescenti intenti a percorrere a folle velocità le strade del miglior extreme thrash ottantiano, accompagnato da isteriche imboscate black metal. Già quando vedi un cantante che sembra la versione adolescente di James Hetfield, capisci di essere nel posto giusto al momento giusto, in tempo per goderti quello che – lo speriamo – sarà il primo passo di una lunga, felice, storia di metal underground. Non ci sono mediazioni o ragionamenti complessi dietro la musica del trio, si pensa a pestare duro, mettendo nell’ordine corretto tutti i fattori necessari a creare canzoni di alto livello e che entrino nel cuore al primo ascolto. La musica degli Inculter vive di strappi rabbiosi, viscerali, che guardano ai primi Slayer come ai Celtic Frost degli esordi, senza dimenticare le lezioni di Bathory, Sodom e Coroner. L’essenzialità non va a scapito di una certa fantasia nel riffing, elemento fondamentale per non far cadere l’attenzione, visto che ogni brano viene suonato con grande foga e in assenza di un buon controllo sugli strumenti il rischio cacofonia sarebbe dietro l’angolo. Gli Inculter no, dominano la situazione invece di subirla, se ne fregano di essere in un festival così importante vantando un pedigree nettamente inferiore a buona parte dei colleghi qui presenti. L’energia di questi ragazzi terribili è contagiosa, impossibile rimanere fermi, dalle parti della transenna sono in molti ad avere seri problemi nel controllare i movimenti della testa, soggiogati dal latrato di Remi Andrè Nygård e dalle pose tarantolate di Cato Bakke. “Envision Of Horror”, così come accade su “Persisting Devolution”, si staglia quale magnifico vessillo del terzetto proveniente da Fusa: prova del fuoco superata a pieni voti, sugli Inculter si può contare.
Setlist:
Endless Torment
Death Domain
No Silence
Diabolic Forest
Mist Of The Night
(Pezzo nuovo, per ora senza titolo)
Graveyard Premonition
Envision Of Horror
Vicious Rite
VIRUS
Dove il grosso dei ‘rivali’ nei cosiddetti ambiti avant-garde la vince a colpi di eccentricità, turbolenze, sperimentazioni inconsuete, i Virus la portano a casa quasi sottovoce, amalgamando preziosismi carezzevoli, chitarre dense e rotonde, una vocalità profonda che racchiude in sé tutta l’essenza del Nord. Non c’è una folla smisurata ad attenderli all’USF stage, il trio di Czral non l’ha mai attirata e mai lo farà, però chi è presente sa perché è qui. Un’arietta fresca si propaga nella venue – altro dettaglio vincente dell’intero complesso dell’USF, il perfetto funzionamento dell’impianto di aerazione e di riscaldamento – che sembra quasi introdurci a una delle esibizioni più tranquille e pacate della nostra quattro giorni. Diciamolo, ci voleva anche qualcosa del genere. I tre si presentano rilassati come se si stessero recando a una cena tra amici, a cui l’appuntamento del Blastfest assomiglia moltissimo: sono in molti a scambiarsi saluti con Czral, Plenum e Einar Sjursø, un cenno e un in bocca al lupo prima di investirci di tempi dispari, riff obliqui e distesi, melodie lattiginose piene di una compostezza quasi regale. I Virus, fatta la dovuta tara al calibro differente delle due formazioni, agiscono con la serafica sicurezza dei Rush, facendo sembrare quasi semplici partiture elaborate e cangianti, tripudi di chiaroscuri pennellati dalla voce sul baritonale del leader. Il quale parrebbe arrivare, per l’outfit naif, un po’ trasandato, direttamente da quegli Anni ’70 che implicitamente omaggia tramite la sua creatura; perché se è vero che vi è anche molto doom onirico fra queste calde note e alcuni stacchi molto veementi ci accompagnano verso il black metal più colto, è il prog di una volta a plasmare le visioni del gruppo. Mancherà il momento saliente, la vampata di energia che getti una luce di leggenda su un’intera esibizione, ma non si può proprio affermare che al Blastfest i Virus abbiano sbagliato qualcosa. Intanto, la sala si è riempita e nessuno l’ha lasciata anzitempo, così che tutti quanti si sono goduti questo insperato spaccato di docile calma in un oceano di cruente lotte e voli dionisiaci. Ora sentiremo cos’avranno da proporci con il quarto full-length “Memento Collider”, in uscita il 4 giugno per Karisma Records.
IN THE WOODS…
In pochi se lo sarebbero aspettato. Invece gli In The Woods…, una sera dello scorso anno, hanno deciso di violare il silenzio in cui si erano rifugiati, allontanandosi dalle scene nel lontano 2000, in corrispondenza della compilation “Three Time On A Seven Day Pilgrimage”. A fine 2015 l’annuncio delle prime date live, a inizio 2016 quello dell’uscita di un nuovo disco, previsto per la primavera sotto l’egida della Debemur Morti Productions. Intanto, ecco anche la lussuosa ristampa, in cofanetto, dei tre album composti finora (“HEart Of Ages” – “Omnio” – “Strange In Stereo”). Non poteva che ricominciare dalla propria terra natia, tra facce amiche, in un ambiente famigliare e accogliente, l’avventura di un gruppo squisitamente inclassificabile, sempre un po’ troppo avanti, pur essendo per alcuni motivi serenamente retrò, baciato dal genio, propenso ad afferrare la pregiata materia dei sogni e rielaborarla in liquide visioni di un candore incantevole. C’è forse ancora un cospicuo grado di inconsapevolezza ad attraversare le anime dei musicisti, oppure è solo colpa del contegno tipicamente nordico, fatto sta che ad eccezione del nuovo cantante James Fogarty tutti quanti sembrano timorosi di abbozzare la benché minima reazione. Chissà, si staranno semplicemente godendo l’adorazione popolare che, precisiamolo, non si esplica in un Røkeriet stracolmo, ma in un nugolo di ragazzi tra le prime file che guarda a questa apparizione con l’animo grato di chi sta vivendo una circostanza speciale, attesa per anni senza quasi più nutrire la speranza che potesse manifestarsi realmente. La grande forma di Fogarty e la precisione di tutti gli altri, preparatisi benissimo in sala prove, fa decollare in pochi istanti lo show, che vaga fra gli spazi sconfinati tratteggiati dalle prove in studio toccando tutti i punti salienti della discografia dei Nostri, omaggiata senza oltraggi ma, al contrario, con grande adesione al proprio glorioso passato. Quando il suono viaggia veloce in “299 796 km/s” si divarica fino a ricomprendere tinteggiature pastellate di prog, doom, psichedelia, slanci verso l’arcobaleno, comprendiamo quanto gli In The Woods ci fossero mancati e avessimo il sacrosanto bisogno che rioccupassero il posto spettante loro sulla scena. Ottimi, a un primo ascolto, i due estratti del nuovo album proposti nell’occasione (“Blue Ocean Rise (Like A War)”, “Towards The Black Surreal”), che non presentano stravolgimenti con quanto offertoci in passato dai fratelli Botteri e da Anders Kobro. Difficile dire a quale periodo vadano più vicini, però la preziosità delle melodie ci sembra proprio quella dei tempi migliori. In questa foresta ripiena di delizie, tutti potranno trovare pace e serenità: aspettiamo con ansia il nuovo disco e, perché no, una prima data italiana. Intanto, questo primo assaggio è stato decisamente soddisfacente.
Setlist:
Yearning the Seeds of a New Dimension
HEart of the Ages
Pure
Blue ocean rise (like a war)
299 796 km/s
Towards the black surreal
The Divinity of Wisdom
EXECRATION
Una volta che si è rilasciato un disco dalle ammalianti fattezze qual è “Morbid Dimensions”, va da sé che si andranno ad attirare aspettative altissime anche per le performance concertistiche. Gli Execration, autori di un album già fondamentale per chi si abbeveri alla fonte del death metal più progressivo e imprevedibile, lo sanno e si presentano al Sardinen forti delle loro idee e di un’invidiabile sicurezza interiore. Le pose, gli sguardi, i comportamenti, non tradiscono minimamente alcuna voglia di farsi notare per altro che non sia la musica. L’atteggiamento generale dei quattro è all’insegna della grinta del death metaller di razza, quello che va sul palco per spazzare via tutto e tutti e se ne frega altamente di dare spettacolo. Per quello basta, appunto, quanto esce dagli amplificatori: il gruppo padroneggia meravigliosamente bene tutto l’elaborato edificio strumentale architettato in studio, e ciò non è scontato, vista la quantità di attorcigliamenti, armonie, cambi di tempo e visioni spiritate contenute nell’ultimo full-length e, in misura minore, nelle opere precedenti. I suoni molto crudi di questo stage tolgono alcune possibilità espressive alle finezze dei duelli chitarristici, il rovescio della medaglia è che la marcescenza insita negli Execration può fuoriuscire con straordinaria facilità, consentendo una felice celebrazione del concetto di death metal, concepito e promulgato come i padri del genere insegnavano. Funziona benissimo il doppio growl dei due chitarristi Jørgen Maristuen e Chris Johansen, posizionati alle due estremità del palco, circostanza che lascia curiosamente al centro il solo bassista Jonas Helgemo: implicitamente, si sottolinea l’idea che avere un vero frontman, agli Execration, proprio non interessi. Fra giochi di prestigio, ossequiosi rimandi all’atavica tradizione doom, accelerazioni dirompenti e momenti di totale obnubilamento della ragione, il gruppo prende vigore a ogni secondo che passa, ingenerando l’idea che gli strumentisti siano preda di allucinazioni che soltanto loro sono in grado di osservare. Talento e fede cieca nel proprio repertorio e nel death metal quale sommo stile di vita fluiscono liberi e impetuosi da “A Crutch For Consolation”, “Ritual Hypnosis”, “Funeral Procession”. Nella vischiosa scia di quest’ultima si conclude un sopraffino saggio di estremismo intelligente, riguardoso verso le origini, proiettato con coraggio verso il futuro.
GORGOROTH
Sei una delle stelle polari del black metal. Hai ispirato centinaia di gruppi. Non ti sei mai piegato a contaminazioni o addolcimenti. Hai cacciato quello che ritenevi, a torto o a ragione non ci è dato di saperlo, un usurpatore della reale essenza della tua creatura. Ora hai di nuovo a fianco musicisti devoti e convinti a prestare servizio alla tua causa, sei tornato a suonare la musica gelida e antiumana che più ti aggrada. Nella tua città natale, ti chiamano ad essere headliner del secondo giorno di un festival dedicato interamente alla scena norvegese. Infernus deve essersi fregato le mani per la soddisfazione, salvo poi essere roso da un dubbio: come presentarsi degnamente a un evento unico, irripetibile, come questo? Semplice, con una quindicina di teste di pecora mozzate, due ragazze in veste adamitica, incappucciate e legate, due enormi croci rovesciate e il trucco da degenerati che sempre viene utilizzato durante i concerti dalla band. Oltre a una batteria di chiodi che consentirebbe di tenere in piedi quadri del peso di una tonnellata. Si presentano così, scenograficamente irreprensibili, i Gorgoroth, atrocemente magnifici nelle loro vesti di schifosi demoni perversi. La meraviglia provata nell’ammirare un tale allestimento scenico – il sipario è stato aperto solo all’attacco del primo pezzo – determina un’accoglienza calorosissima da parte di un pubblico che, ce ne siamo già accorti in questo primo giorno alla USF, sarà pure di ampie vedute, ma va in preda al vero sconvolgimento quasi soltanto per i gruppi più tradizionalisti. Figurarsi per i Gorgoroth, che dell’aderenza totale al primo black metal hanno fatto una ragione di vita. Oltre all’aspetto visivo, i cinque ci mettono molto altro, creando un ecosistema mortuario che rifugge ritualità e misticismi e attinge direttamente all’immaginario dei grandi massacri, delle torture, delle sevizie perpetrate a degli innocenti da parte delle menti più degradate che la storia umana ricordi. La volta dei cieli prima si crepa, quindi barcolla, infine crolla sulla Terra sotto i colpi di un carico di blasfemia inarrestabile, condotto con cinica maestria da un Infernus delittuoso, macabra mente e sicuro braccio esecutore di un ideale distruttivo che, nella sua purezza di intenti, pochi dei coetanei sono riusciti a mantenere. Cogliamo accenni di mosh nelle prime file, una rarità assoluta in un festival all’insegna di una grande compostezza da parte di quasi tutti gli spettatori, segnale che anche gli animi più calmi hanno il loro punto debole. Nell’ora e un quarto a disposizione, i Gorgoroth instillano disagio, timore, la convinzione che tanta negatività sonora possa tramutarsi in qualcosa di fisico da un momento all’altro, così che l’alone di minaccia gravante su di noi diventi una non appellabile sentenza di morte. Le radici del black metal, con Infernus e compagni in circolazione, rimangono più salde che mai, solidamente avvinghiate alla terra di fiordi che tutto questo lerciume ha un bel giorno tirato fuori dalle sue viscere.
Setlist:
Bergtrollets Hevn
Aneuthanasia
Prayer
Katharinas Bortgang
Revelation of Doom
Forces of Satan Storms
Profetens Åpenbaring
Ødeleggelse og Undergang / Blood Stains the Circle
Cleansing Fire
Destroyer / Incipit Satan
Krig
Kala Brahman
Unchain My Heart!!!
SULPHUR
Il venerdì il Sardinen diventa Dark Essence Stage: la casa discografica norvegese mette in mostra alcuni dei suoi gioielli, cinque per la precisione, tutti impegnati in tempi recenti con nuove fatiche discografiche, o in procinto di pubblicarle. Un’ottima idea per andare a caccia di nuovi talenti o realtà con qualche anno sul groppone rimaste lontane dai grandi giri. Onore e onere di aprire questa giornata spetta ai Sulphur, altro gruppo con base proprio a Bergen e giunto al terzo full-length a inizio febbraio. Reduce da sette anni di silenzio discografico, il combo appare ripulito nell’immagine ma nient’affatto disposto ai compromessi quando si parla di suono. Siamo in territori piuttosto classici, alle prese con un dosaggio misurato di elementi death, black e doom all’interno di uno stile che per fierezza e propensione agli attacchi a testa bassa non poteva che arrivare da queste lande. Impreziosisce il discorso l’attenzione per gli andamenti ad ampio respiro, doverosi per sottolineare le fiammate eroiche di cui la musica si fa portavoce. La proposta dei Sulphur rimane in ogni caso estrema, ruvida, incentrata su riff arcigni e spirito barbaro, sottolineato dal growl di Thomas Skinlo Høyven, che cerca continuamente il contatto visivo coi presenti e il loro palpabile sostegno. Superata un po’ di freddezza iniziale, si instaura un minimo di feeling fra le due parti in causa e il materiale offerto scorre fluido, passionale, fosco e movimentato quanto basta per alzare i pugni al cielo e scaldare la voce in vista dei concerti più probanti che interverranno di qui a poco. Un avvio col piede giusto anche per il nostro terzo giorno festivaliero: verificheremo ora ascoltando “Omens Of Doom” se oltre alla grande carica immessa nei live i cinque sanno scrivere canzoni fatte per restare nelle nostra memoria.
SOLEFALD
E pensare che erano partiti maluccio, con una versione claudicante della bislacca filastrocca di “CK II Chanel N°6”. L’approccio dei Solefald – quest’anno meno avari del solito in quanto a concerti, grazie a un programma di festival piuttosto ampio per Lazare e Cornelius – nel primo appuntamento stagionale non è di quelli che si sognano prima di iniziare. Suoni fiacchi, voci che non escono come dovrebbero, poco tiro, ritornelli raffazzonati. Tutto qua? Troppo brutto per essere vero. La prima aggiustata di tiro arriva col secondo brano in scaletta, direttamente dall’esordio “The Linear Scaffold”, ovvero “Red View”. Azioni in rialzo, primi sommovimenti in prossimità delle transenne, che diventano brusii di eccitazione per “Song Til Stormen”. In un angolo, il pittore Christopher Rådlund affresca un dipinto raffigurante, poco per volta, un cavallo di strana forma: l’artista ha iniziato a dipingere prima del concerto e andrà avanti per tutto lo spettacolo, completando l’opera proprio negli ultimi minuti di esibizione, griffata col logo dei Solefald. Intanto che questo bizzarro sottoevento scorre, i Solefald, coadiuvati dagli In Vain a fungere da backing band, si sciolgono e prendono sicurezza. Ne guadagnano le voci, che entrano finalmente in temperatura, cominciano a circolare brillantezza fanciullesca e quella spensieratezza carnevalesca che ha reso leggendari gli avant-garde metaller nordici per tutti gli ascoltatori in perenne ricerca di bizzarrie fatte col cuore. Il lascito più pregiato del concerto, però, quello che potremmo mettere tra i tre momenti cardine dell’intero Blastfest 2016, è l’esecuzione di “World Music With Black Edges”. Qui c’è tutto, il potpourri di mille generi in apparente contrasto gli uni con gli altri, la positività travalicante qualsiasi differenza culturale, il desiderio di annettere sotto la comune bandiera della musica di qualità ogni suono sia considerato bello, vivace, frizzante, portatore di gioia contagiosa. Dub-step, percussioni etniche, polifonie non-sense, riprese cicliche di uno stesso tema portante, scatti, salti e urla liberatorie si accavallano in oltre sette minuti che si vorrebbe non finissero mai. Dopo una tale ubriacatura di spezie da ogni angolo del globo, potrebbero quasi sembrare normali la sarcastica “The USA Don’t Exist”, o la dolce “Sun I Call”. Non è così, a questo punto siamo passati dal mondo reale a quello fantastico, il vero universo dei Solefald, che pur viaggiando a mille all’ora in un turbine di emozioni e vibrazioni di gran classe non trovano davanti a loro un seguito così fuori di testa come ci saremmo immaginati. Tolte le prime file, il resto dei presenti sembra vivere con un minimo di distacco il concerto. Non capiamo, ma ci adeguiamo. E alla fine, plaudiamo convinti per un’esibizione molto attesa e che non ci ha per niente deluso.
Setlist:
CK II Chanel N°6
Red View
Song Til Stormen
World Music with Black Edges
The USA Don’t Exist
Vitets Vidd I Verdi
Sun I Call
Jernlov
When the Moon Is on the Wave
MANES
Forse soltanto qui sarebbe stato possibile assistere a un concerto simile. Un ovattato gioco di piccoli tocchi, pacate emozioni, luci soffuse, percussioni blande e accorate, commistioni preziose di materiale elettrico ed elettronico fuse a formare un composto fragile, amletico per molti aspetti, affascinante a udirsi e a cercare di interpretarlo. Volendo fare i difficili, i metallari ostinati gelosi di mantenere intatti i confini della fede, i Manes probabilmente un gruppo metal in senso stretto non lo sono più da anni. La chitarra viene relegata sullo sfondo, non solo musicalmente ma proprio nella posizione sul palco, idem dicasi per il basso, mentre davanti troneggia la postazione di Tor-Helge Skei, principale creatore del tappeto di synth e arie trip-hop, coadiuvato in questo da uno dei due cantanti, anch’egli con un piccolo strumento per governare i synth a disposizione. ‘Massive Attack meets metal’ potrebbe essere il titolo della performance, che ci scappa tra le mani come sabbia, lasciandoci per molti minuti in balia di fruscii laddove siamo soliti aspettarci badilate in testa, perché ogni strumento non si comporta come accade ‘di norma’ in un concerto hard rock, ma indugia in un auto-ipnotismo che va in assonanza a quei due occhi imperscrutabili che ci guardano nel filmato in scorrimento a fondo palco. Il centro del discorso sono le contrapposizioni ritmiche fra i due batteristi e i pad elettronici, qualcosa che sembra indicarci una strada di beatitudine e rinfrancante introspezione, nella quale le voci dei due cantanti, mai fuori tono o stucchevoli nell’inseguire pulizia e incanto, schiudono alla mente le porte di una purezza interiore spesso solo vanamente inseguita. C’è spazio, graditissimo, per incombenze più metalliche, che durano però spazi ristretti e ci fanno comunque capire quale sia il retaggio della band, che partita dal black metal ha poi operato una torsione completa verso altri mondi, diventandone leader e non ripiegando mai verso la strada vecchia per comodità. Non uno dei concerti più frequentati al Røkeriet, quello dei Manes, che si sono staccati dal mondo metal propriamente detto e vagano ora, solitari, in un genere a parte. La poca immediatezza del materiale ne limita il possibile interesse anche presso un pubblico elastico mentalmente come quello del Blastfest, infatti la platea rimane più sguarnita della maggior parte degli altri show visionati sullo stage principale. Ma, appunto, trattandosi di un’esperienza pressoché unica, chi l’ha vissuta la serberà gelosamente nel cuore, nel caveau inespugnabile delle emozioni rare.
KRAKÒW
Il colpo a tradimento offertoci dal festival, quello a cui non eravamo assolutamente preparati, ce lo assestano i Krakòw quando abbiamo da poco scollinato le sette di sera. Completamente ignari di quanto andremo ad assistere, osserviamo con stupore la mole di persone che si va accalcando nel Sardinen. E rimaniamo quindi stupefatti da come parte il concerto, in un’oscurità quasi completa, all’interno della quale scorgiamo innumerevoli personaggi, alcuni difficili da notare nel buio. Due batteristi, un tastierista addetto anche al theremin, quasi non si percepiscono nonostante la vicinanza agli spettatori. La musica, ecco, quella lascia interdetti, schiacciati, perché poco per volta rivela ramificazioni inizialmente solo intuite, che crescono di vividezza, si allargano a ricomprendere stilemi antitetici, incrociano sentimenti lontanissimi, con grande naturalezza. Le reiterazioni strumentali del primo brano portano alla mente il post-metal più fosco, un leviatano dalle forme mostruose ma seducenti che mette assieme Isis, Cult Of Luna, i The Ocean più cupi; gli andamenti sembrano seguire un corso catatonico, infrangersi gli uni sugli altri quasi pigramente, annullandosi l’uno con l’altro, eppure vi promana una forza enorme, inarrestabile. Sono tutti ridotti a leoni di marmo in sala, quasi non si fiata. I Krakòw avevano annunciato uno show speciale di soli quattro pezzi, uno mai suonato live, gli altri molto raramente, e una line-up che, come possiamo osservare, è più ampia del consueto: insomma, era stato tutto apparecchiato per garantire l’unicità del concerto, ed in effetti gli eventi precipitano in un gorgo di assurdità agghiacciante. Con la seconda canzone in programma passiamo in una nuova dimensione, apprezziamo l’entrata in scena delle vocals e l’alternarsi di diversi cantati, tutti molto incisivi, dove pure Ask dei Kampfar dà sfoggio di una voce totalmente diversa da quella del suo progetto principale. Il propagarsi di una cattiveria esecutiva frastornante e l’inasprirsi delle ritmiche fanno emergere metastasi di pesantezza rivaleggianti a pieno titolo coi Conan, se non fosse che allo sludge-drone si contrappone in questo caso, ad ampi tratti, un romanticismo sciagurato che sa tanto di My Dying Bride. Quando la ferocia aumenta, qualche lampo di luce illumina i volti dei musicisti e le espressioni da imperturbabili passano all’indistintamente rabbioso. In taluni rapidi assalti pare addirittura di sentire i Funeralium più peccaminosi e si sfocia quindi nel nichilismo più cieco e infame. In questo magma incandescente e nerissimo, assume contorni surreali l’accensione e spegnimento del logo della band disegnato coi led, un effetto buffo quando lo propone una band tanto efferata, che nella greve coda strumentale accompagnante il piccolo spettacolo di luci va a sigillare una prestazione enorme, trasversale a doom, death, stoner, sludge, drone e, ebbene sì, gothic, in una maniera anomala e anticonvenzionale. Che botta!
ARCTURUS
Cala un’atmosfera incantata, fatesca, quando il luminoso palco degli Arcturus viene svelato ai nostri occhi. Contrariamente al mood prevalente, all’esagitazione di light show incendiari che intendono subissare gli avventori di input visivi accecanti, aggressivi all’ennesima potenza, quello in cui operano gli uomini guidati dal tastierista/polistrumentista Sverd è un mondo fiabesco. Vortex gigioneggia da par suo, ciondola briccone e bambinone attorno al microfono, mentre il suono fuoriesce blando, leggero e vellutato dalle casse. Il trucco da folletti ingentilisce ulteriormente una band che ha da tempo abbandonato qualsiasi tipo di impeto metallico, ora c’è solo voglia di divertimento spensierato nell’animo degli Arcturus e, a chi ancora rimpiangesse la corrente irrequieta patrimonio del gruppo fino a “The Sham Mirrors”, rimane un po’ l’amaro in bocca. Ma oggi gli Arcturus sono diversi, le intenzioni sono mutate e non si può biasimarli più di tanto per la svolta intrapresa, visti i lusinghieri riscontri di pubblico e critica ottenuti da “Sideshow Symphonies” e “Arcturian”. Cambiamenti che non hanno intaccato l’aura quasi sacrale tutt’ora permeante questo act: cogliamo molte persone intente a scandire rapite i versi delle canzoni, aiutate dalla rilassatezza di Vortex, vocalmente in buone condizioni, nonostante fisicamente si colga un po’ di debolezza dovuta, quasi sicuramente, a qualche bicchiere di troppo bevuto prima di calcare il Røkeriet. Attorno a metà concerto, il cantante chiederà addirittura una sedia e proseguirà il concerto seduto sul suo seggiolino, senza perdere slancio nell’intonazione. I Nostri se la cavano dignitosamente, seppure in tono minore al confronto delle versioni in studio, sui brani di “La Masquerade Infernale” e sull’unico estratto di “Aspera Hiems Symfonia”, “To Thou Who Dwellest In The Night”. Vale ben altro discorso sui frangenti dedicati agli ultimi due album, in questo caso è palese una maggiore disinvoltura di tutti quanti nell’approcciare le composizioni, in particolare di Vortex, che non fa rimpiangere le canzoni nella forma originaria. Per chi scrive gli Arcturus odierni rimangono freddini e depauperati di veraci slanci metallici, ma l’idea sonora in sé e la sua trasposizione live funziona, i fan apprezzano e quindi non ci sentiamo di indulgere in ulteriori critiche. Anche se i concerti da antologia del Blastfst 2016 sono stati ben altri.
Setlist:
Evacuation Code Deciphered
Master of Disguise
Crashland
The Chaos Path
Shipwrecked Frontier Pioneer
Deamon Painter
Nocturnal Vision Revisited
The Arcturian Sign
To Thou Who Dwellest in the Night
Angst
1349
Di nuovo tempo di black metal metal spietato e sprizzante odio da ogni nota: è tempo per i 1349 di spargere pestilenza, terrore e sofferenza, cercando di pareggiare quanto combinato dai Gorgoroth meno di ventiquattr’ore prima. Con questa band e quella di Infernus si entra in una dimensione agghiacciante, le evoluzioni in senso atmosferico non hanno qua alcuna cittadinanza, esiste solo il becero satanismo e la pulsione distruttiva raggiunge momenti di inenarrabile, invincibile, caos orgiastico. L’assidua attività live ha ridotto a zero le possibilità di errore, ogni meccanismo è oliato alla perfezione e tutti i dettagli vanno al loro posto al primo secondo di musica che ci viene elargito. La coppia di chitarre produce dolore in quantità industriali invischiandoci in un tossico liquido nerastro, il nichilismo viene celebrato tramite un riffing teso e non eccessivamente scarno, conferendo una patina di modernità e durezza a partiture che affondano le radici nei momenti più intransigenti di Satyricon, Mayhem, Gorgoroth. La forza dei 1349 risiede nell’enfasi infusa al suono dalle prestazione dei singoli, sia lo screaming lancinante del bravissimo Ravn, le piccole anomalie del basso di Seidemann – il cui trucco di scena nelle sembianze della Falciatrice per antonomasia ha sempre una gran potere di suggestione – oppure, se non innanzitutto, lo scuoiamento dei tamburi operato da Frost. Lo storico drummer dei Satyricon fa rintronare il suo drum-kit al limite della distruzione, continuando nel frattempo a muovere la testa a tempo in un headbanging esasperato, che ci fa intuire quanto amore dissoluto per questa musica egli sia tutt’ora in grado di provare. Un’ora in compagnia dei 1349 rianimerebbe anche il cuore black metal più affranto per le derive moderniste e poco ‘true’ che si stanno disseminando di questi tempi per l’intera scena; in fin dei conti l’old-school black metal è ancora vivo e vegeto e, finché ci sarà qualcuno tanto bravo a professarlo come i 1349, non morirà mai.
Setlist:
Am Abomination
Nathicana
Sculptor of Flesh
Chained
Exorcism
Slaves
Chasing Dragons
Serpentine Sibilance
Atomic Chapel
Golem
Cauldron
THE 3RD ATTEMPT
Trascorsa un’ora in ‘lieta’ compagnia dei 1349, la logica vorrebbe che si prendesse un po’ d’aria, si desse frescura ai polmoni dopo aver respirato a lungo aria orrendamente pestilenziale. La logica, grande sconosciuta durante i festival: ci sono dieci minuti scarsi da amministrare, poi è ora di rituffarsi nel black metal oltranzista e nel bieco thrash delle annate 1984-85, quando la cognizione strumentale magari faceva ogni tanto difetto, ma lo spirito che animava i cultori della materia era invincibile. I The 3rd Attempt hanno avuto il grosso merito di ricordarci tramite lo scarnificante esordio “Born In Thorns” cosa sia il metal estremo al suo stato primordiale, prima di evolversi, subire le influenze di qualche inopinata ‘beltà’ che ne alteri la costituzione. Qua ci sono soltanto satanassi, caproni, bafometti, angeli caduti a dettare legge e l’accoglienza riservataci, ovvero il buio più totale, ci porta proprio lì dove la band vuole condurci: tra le grinfie di Satana. Un flash, una faccia spaventosa emerge dall’oscurità, quella del cantante Ødemark. Sguardo penetrante, in direzione di un punto lontano oltre i nostri corpi. Di nuovo buio, poi un’altra luce più forte a farci intuire una parte maggiore delle fattezze del singer, infine lo shock del primo riff e l’armageddon è tra noi. Per gli uomini di Tchort si sta stretti e alle prime note sparateci addosso le teste roteano quasi in armonica coordinazione, mentre urla sguaiatissime si accavallano le une alle altre. I The 3rd Attempt denotano senso per il loro ruolo e conoscenza enciclopedica del genere, e visti i nomi coinvolti non ci si stupisce né dell’uno né dell’altro aspetto. Quello che supera la supposta ‘normalità’ di un concerto black/thrash è il gaudioso bilanciamento fra efferatezze e crasso divertimento, perché la teatralità dei movimenti di tutti quanti, lo scatenato Ødemark su tutti, dà proprio l’idea di un coinvolgimento beatamente bambinesco da parte dei quattro. Le canzoni sono conosciute, relativamente facili da ripercorrere, ed emerge da ognuna di esse una sottile vena rock’n’roll che fa alzare voci di risposta anche quando non si ha la minima idea di quali siano le parole pronunciate, tanto ci sembrano assonanti a qualcosa che già conosciamo. Arriva tutto il primo album – ad eccezione di “Anti-Self” – suonato benissimo e con enorme trasporto, meriti riconosciuti in pieno da una platea ricettiva, eccitata di continuo dal comportamento quasi da rockstar del singer di origine spagnola. Ødemark modula linee vocali che passano con portentosa efficacia dallo screaming al growl, a sfumature quasi pulite, andando anche oltre alla già ottima performance in studio: bellissimo il modo in cui interagisce con chi ha davanti, passa infatti l’intero set a stringere mani, passare il microfono per concedere a qualcuno un urlo luciferino, dietro il contegno dell’assassino si scorge l’entusiasmo di un fan che suona tra i suoi stessi simili. E ne gode oltre ogni limite. Chiusura superba con l’ospitata di Yngve “Bolt” Christiansen, cantante dei Blood Red Throne e organizzatore del Blastfest, durante “Nekrogrammaton”, che si tinge così dei colori del sangue e sconfina in un olocausto death metal cui ci siamo sentiti privilegiati di aver partecipato. True fucking black metal.
Setlist:
Torment Nation
Art of Domination
We Defy
Beast Within
Firestorm
Born in Thorns
Dark Vision
Sons of the Winter
Nekrogrammaton
IHSAHN
Sale in cattedra il professor Ihsahn. L’ex singer degli Emperor emana una potente aura cattedratica, assiso da tempo in uno status di artista-guru a tutto campo che ha travalicato i confini del metal estremo e ha permesso al polistrumentista di farsi conoscere e apprezzare da tutti gli appassionati di musica colta e poco convenzionale. Recentemente Ihsahn ha dovuto apportare suo malgrado dei cambiamenti nella line-up della sua backing band, l’ascesa di popolarità dei Leprous non consente più alla band di Einar Solberg di prestare servizio per i concerti e allora ecco un rimpasto nelle posizioni di secondo chitarrista, batterista e tastierista. Niente basso, le cui tracce sono condotte dal responsabile delle keyboard. I nuovi ingressi denotano – e non avevamo tanti dubbi al riguardo – una preparazione all’altezza di chi li ha preceduti: tutti giovanissimi, i nuovi membri intervenuti sul Røkeriet lasciano meravigliati per la cura e il labor limae delle proprie prestazioni. A partire da un batterista, Tobias Ørnes Andersen, in line-up negli Shining e transitato anche per i Leprous, in grado di tratteggiare pattern particolareggiati usufruendo di un drum-kit minimale, passando poi a un Nicolay Tangen Svennæs agghindante landscape corposi e immaginifici. Alla chitarra, Robin Ognedal spalleggia benissimo il leader maximo, accompagnandolo nella formulazione di pensieri chitarristici forbiti, magniloquenti, animati da sfavillanti tempeste umorali. La pienezza del suono, l’equilibrio fra le parti in causa, i volumi alti e nitidi infondono quasi la sensazione di essere di fronte alla rappresentazione di un concerto di musica da camera, piuttosto che all’esibizione di un ensemble heavy metal: la maniacale cura del dettaglio, la giustezza di ogni passaggio, la rotondità di ogni suono sono marchio di fabbrica inconfondibile degli artisti di qualità superiore, che non lasciano nulla al caso. A dispetto dell’outfit molto sobrio di tutti e quattro, il concerto prende spesso una connotazione brutale, Ihsahn sfoggia uno screaming maiuscolo, alternato a un pulito divenuto con gli anni celestiale, lindo da impulsive rabbie giovanili. Gli avanguardismi dei primi lavori hanno virato verso un progressive estremo trascinante e colmo di soluzioni ad effetto, orchestrato rabbiosamente, senza cedere il passo a un perfezionismo stucchevole. Segnaliamo un piccolo medley degli Emperor, a richiamare i passati ardori black metal, un antipasto del nuovo album “Arktis.”, rappresentato dalla sentita e melodicissima “My Heart Is Of The North”, e la prestazione vocale pazzesca di Ihsahn in “The Paranoid”, che surclassa addirittura l’ottima versione presente su “Eremita”. Questione di classe, esperienza e talento fuori dai canoni. “The Grave” chiude un concerto riuscito dal primo all’ultimo istante, vissuto con la necessaria trepidazione e nel quale sono state incastonate perle strumentali a getto continuo. Il Maestro non sbaglia mai.
Setlist:
Hiber
Pulse
Tacit
Frozen Lakes on Mars
A Grave Inversed
Emperor Medley (An Elegy of Icaros/I Am The Black Wizards/Thus Spake the Nightspirit)
My Heart is of the North
The Paranoid
EVIG NATT
Quello degli Evig Natt è uno dei piccoli miracoli che possono capitare in un festival di questo tipo. Dove tutti si conoscono, c’è un grande rispetto per chiunque intervenga e si ammirano grosse manifestazioni d’affetto per band misconosciute. Gli Evig Natt arrivano da un’altra epoca, quella del gothic doom anni ’90 giocato sul contrasto di rudezze vocali maschili e ampollose soavità femminee. La band nasce e opera negli anni 2000, ma è evidente che il suo cuore è rimasto intrappolato in una corrente artistica anacronistica, che vedeva sfumare il suo periodo più fiorente negli anni in cui gli Evig Natt compivano i primi passi. Uno stile che successivamente al suo periodo di auge è sfumato in derive commerciali e, in alcuni casi, ben poco metalliche e che nella sua forma canonica di partenza ha avuto rari, e quasi mai famosissimi, epigoni. Gli Evig Natt ripartono dai fondamentali, dopo aver adeguatamente salutato i molti amici presenti in sala, rilassati e appagati già dal solo fatto di poter presenziare al Blastfest in una cornice così calda e accogliente. A breve, il 19 marzo, arriverà il terzo album, omonimo, a interrompere un silenzio discografico di sei anni: i Nostri infilano allora qualche inedito in mezzo a una setlist ricca di sfumature, che propone mattonate death/doom accanto a bozzetti di calma estatica, sempre corroborati da una spinta chitarristica e ritmica di tutto rispetto. Sugli scudi l’imbrillantinata vocalist Kirsten Jørgensen, le cui linee quasi da soprano scalfiscono le resistenze anche dei metaller più refrattari a farsi travolgere dalle emozioni. Una prova convincente, che ci porterà probabilmente a esplorare con attenzione la nuova fatica in studio e capire cosa siano riusciti a offrirci questi gentili gothic metaller nordici.
Setlist:
Intro
Darkland
Sjelelaus
In God I Grieve
Weathered Emotion
Nemesis Of Heart
How I Bleed
KHOLD
È un freddo vero e sincero quello che inghiotte le ossa quando i Khold salgono sul palco. Controllati, meccanici, un po’ buffi nel loro trucco smezzato fra parte superiore e inferiore del cranio, i quattro paiono ancora più convinti, precisi e cattivi del solito potendosi esprimere in un tale selezionato contesto. Black metal deumanizzato, collassato attorno a ritmiche a velocità ridotta e groovy, un riffing spezzato che graffia la carne e lascia segni profondi laddove ha colpito e un senso di rigore scultoreo promanato dall’intero insieme: i Khold non trascinano, mettono sull’attenti ed erigono muraglie di suono duro e quadrato, pieno di spigoli. Un Gard ghignante si muove a piccoli scatti per lo stage, guarda chi ha davanti tra il serio e il faceto, un po’ indossando i panni del cattivo di turno, un po’ blandendo con qualche smorfia delle sue le pretese di divertimento dei fan più calorosi. Pur essendo il quarto giorno di musica e non essendoci ancora una gran mole di persone all’interno del Røkeriet l’atmosfera è frizzante, la band trova in un attimo la chiave per scatenare gli istinti del prossimo e si avventura sicura, impetuosa, nei meandri della sua discografia, tirando fuori una prestazione eccellente in ogni spaccato musicale proposto. Compattezza, energia, entusiasmo e devianza permettono ai Khold di irretire chiunque sia al loro cospetto. Il carisma del leader può molto nell’alzare il tiro del concerto, ma anche i suoi sodali si fanno valere, unendo benissimo chirurgia esecutiva ed emanazione di una genuina aria malsana. Promossi a pieni voti.
VREDEHAMMER
Un po’ di autentico death metal. Ne abbiamo viste e sentite di tutti i colori nei quattro giorni del Blastfest, mancava un ensemble portatore di gagliarda intransigenza old-school, che tanto per rimanere in tema prestasse attenzione anche al retaggio culturale nordico. Ci pensano i Vredehammer a colmare questa lacuna, mandando in scena uno spettacolo per chi ama i sapori di una volta, alle evoluzioni pindariche preferisce delle sonore randellate nei punti più sensibili e si compiace di vedere un atteggiamento truce da parte di chi sta suonando. I quattro si presentano carichi al punto giusto, seri e incazzati guardando di traverso il congruo manipolo di assatanati a ridosso delle transenne. Felix alla batteria richiama i fasti del death floridiano in una prova tempestosa, la doppia cassa traballa sotto una serie di colpi velocissimi, doppiati da un attacco senza tregue al rullante. I Vredehammer caricano a testa bassa, agitando le teste secondo un effetto-ventilatore a noi sempre gradito; ma ridurre l’esibizione a qualche mero espediente scenico sarebbe ingeneroso, il quartetto agita indomabili pulsioni omicida all’interno di una cornice che approda sovente anche ai primi Amon Amarth, strizza l’occhio nei cadenzati agli Unleashed più facinorosi e per il resto macina death metal crasso e gustoso con ottima tecnica e oculatezza per i riff ad alto impatto. Per Valla si destreggia bene fra chitarra e voce, lesina parole e gesti ma, in questo atteggiamento abbastanza schivo, si vede un mestiere e una capacità di ‘essere’ frontman death metal fino in fondo che non dispiace affatto. Un problema tecnico alla chitarra proprio del leader accorcia di una canzone la setlist, i Vredehammer rimandano per ulteriori nuove sul loro conto all’imminente uscita del secondo album “Violator”, previsto per il 18 marzo. Ne sentiremo parlare ancora.
SAHG
Nel mezzo della lavorazione del nuovo disco, previsto per questa primavera e che abbiamo avuto il piacere di ascoltare, in una versione non definitiva, in una listening session organizzata dalla Indie Recordings il giorno prima all’Apollon, i Sahg si presentano al Sardinen desiderosi di produrre rumore. Tanto rumore. Nell’area stoner/doom di appartenenza si sono sempre segnalati per una scrittura tutto sommato abbastanza lineare, ma foriera di spunti accattivanti e piena di riff riverberati, facili e un po’ piacioni, manna dal cielo per chi richiede alla musica divertimento, ritornelli da cantare in coro e un pizzico di atmosfera. Al Blastfest i quattro giocano fra mura amiche, sono l’ennesima band proveniente esattamente da Bergen e questo fatto contribuisce in modo determinante all’afflusso nel locale, zeppo quasi come per nessun altro nei tre giorni che l’abbiamo frequentato. E le soddisfazioni arrivano immediate, il tempo di far tuonare dalle casse le prime note di “Black Unicorn” e rendersi conto che ci arriveranno mattonate in faccia per quaranta minuti, perle d’ignoranza scagliateci addosso in beata noncuranza, miste a melodie quasi tenui e nostalgiche, dolcemente oscure. L’anima più seria e riflessiva, una maggiore elaborazione delle dinamiche e i tratti acustici ammirati nella fugace listening session del quinto disco, per ora senza titolo, affiorano palesemente anche nel sudatissimo concerto del Sardinen, lo spessore di fondo della musica tutta è aumentato e quando incontriamo una primizia dal prossimo full-length i segnali già evidenziati diventano prova concreta. Sì, i Sahg sono maturati, pur rimanendo dei picchiatori di prima categoria e pasteggiando con il doom più semplice e diretto vi sia in circolazione. In sala gradiscono tutti e i refrain godono di adeguato supporto canoro degli astanti, con menzione d’obbligo per quello che è stato a suo tempo il primo mini-classico di Olav Iversen e soci, “Godless Faith”. Una prova energica e di sostanza per i Sahg, bravi a conquistarsi consensi in un festival non proprio affine, nella maggior parte dei gruppi proposti, al loro stile.
RED HARVEST
Una passeggiata solitaria, parafrasando il titolo di una loro magnifica litania (“The Lone Walk”) contenuta nel capolavoro “HyBreed” del 1996. I Red Harvest hanno attraversato vent’anni di metal rivisitando e inventando suoni futuristi in un’ottica personalissima, prima attraverso un thrash visionario oramai dimenticato (quello dei primi due quasi introvabili album, “Nomindsland” e “There’s Beauty In The Purity Of Sadness”), poi attraverso un industrial metal contaminato, sfibrante, a volte abissalmente doom, altre martellante e scorticante. Una lunga avventura artistica adorata dalla critica e da una fetta di appassionati troppo esigua per garantire la celebrità dei coevi Meshuggah e Fear Factory, nonostante sul piano qualitativo i Red Harvest non debbano guardare nessuno dal basso verso l’alto. Vediamo allora quale piccolo atto di giustizia e degna celebrazione di una grande storia l’apparizione al Blastfest, a sei anni dallo split, nella prima venuta live dopo una vita e con ogni probabilità l’unica del 2016, come preannunciato dalla band stessa tramite i propri canali di comunicazione ufficiali. Una reunion, per giunta apparentemente estemporanea, lascia sempre grandi interrogativi nella mente, in questo caso fugati, travolti, sbriciolati dalla voglia dei Red Harvest di imporsi alla nostra attenzione e di trascinarci, a forza di chitarre-mausoleo e ritmiche schiaccia montagne, in un sordido futuro post-apocalittico. Un cammino di trasfigurazione e annichilimento perpetrato scientificamente, tramite un’apertura affidata ad alcune delle canzoni più dense, lugubri, mantriche del repertorio. La band sta sul palco con sicurezza, ondeggiando ogni strumentista sulle proprie gambe al ritmo circolare e in divenire di una musica fredda e intrisa di un fascino algido, austero e immaginifico. Il settaggio dei suoni rende pienamente onore a un riffing unico, ricolmo di calma rassegnata nelle catartiche parentesi doom, scuoiato vivo dagli effetti quando le cadenze si fanno serrate e sembra che tutto l’universo debba collassare sulle nostre teste da un istante all’altro. La pazzia di Jimmy “Ofu Khan” Ivan Bergsten merita poi un discorso a sé: stiamo parlando di una persona che ha dovuto trascorrere molto tempo a curarsi seri problemi di paranoia e depressione e queste sue problematiche, la conflittualità della sua personalità, su di un palco sanno diventare l’arma letale per far deflagrare gli scontri e le antitesi di un sound complesso e per certi versi inspiegabile come quello dei Red Harvest. Feroci invettive, baritonali allucinati, graffi vicini al growl e apoteosi in pulito soggiogano un Røkeriet che prende consapevolezza poco per volta delle meraviglie che sta introiettando, incredulo della bestiale intensità del concerto. Il quale parte dai brani più d’atmosfera e si evolve verso l’armageddon dissoluta, passando in rassegna “Cold Dark Matter”, “Sick Transit Gloria Mundi”, “Mouth Of Madness”, “Death In Cyborg Era”. Azzeccata infine la scelta delle luci, virate spesso su un bombardamento stroboscopico di colore rosso fiammante, richiamante quindi la “mietitura rossa” del monicker. Il commiato è secco e privo di sentimentalismi, d’altronde quando per un’ora si è agito come la più fredda e pragmatica delle macchine di morte, non si può chiedere chissà quale sfoggio di emozioni. Va bene così. È giusto così.
IN VAIN
Stretti fra due delle esibizioni più attese del Blastfest 2016, quella dei Red Harvest che li ha preceduti e quella dei Green Carnation che li segue, gli In Vain escono dai camerini e si trovano davanti un colpo d’occhio non da poco, merito di tre album curati, personali e a loro modo ammiccanti, che hanno fatto guadagnare, soprattutto tra i più giovani, una positiva nomea. C’è poi il fatto che i ragazzi sono la backing band dei più famosi Solefald, i cui due mastermind sono presenti tra la folla già in apertura, altro dato che non può non scatenare un minimo di hype. Passando sopra a un rullante che resterà altissimo per l’intera durata del set, e toglierà leggermente mordente alle chitarre, gli In Vain si mettono a girare a mille dai primi minuti, cavalcando l’indole dinamitarda del duo vocale formato da Andreas Frigstad e Sindre Nedland (fratello minore di Lazare dei Solefald). Il primo impegnato in urla belluine, l’altro in un growl non troppo profondo, alternato a qualche sfumatura più delicata. Anche se poi, a dirla tutta, il migliore del reparto vocale ci pare il chitarrista Johnar Håland, l’ugola pulita in possesso dell’estensione più ampia fra tutti i componenti della truppa raccolta sul Sardinen. Facendo leva su un grande dinamismo sia musicale che fisico e contando su un repertorio che, pur incasellandosi nel filone avant-garde a pieno titolo, presenta striature ‘commerciali’ non indifferenti – sempre da riferirsi al contesto estremo, mica stiamo parlando di pop! – gli In Vain scatenano un piacevole putiferio in sala. Da queste parti la rinomanza del gruppo è elevata, quando i singer chiedono una mano per i cori la risposta è tutt’altro che titubante e sui passaggi più carichi di pathos i decibel si alzano a dismisura. Sulla penultima “Image Of Time” Lazare, sotto l’attento occhio di Cornelius, vestito in un incrocio fra un rappresentante degli Amish, un cavaliere di equitazione e un ebreo ortodosso, arriva a dar man forte al fratello e ai suoi amici, aumentando il già munito reparto vocale con la sua istrionica voce angelica. Non avranno idee altrettanto geniali di gente come gli stessi Solefald, In The Woods… o Arcturus, ma dal vivo le distanze con questi gruppi si assottigliano e gli In Vain possono confrontarsi con loro a testa alta.
Setlist:
Against the Grain
Captivating Solitude
Det Rakner!
The Titan
October’s Monody
Image of Time
Floating on the Murmuring Tide
GREEN CARNATION
Nel 2000, i Greeen Carnation, per mano soprattutto di Tchort che ne fu il principale compositore, catturarono una fiammata di indescrivibile bellezza interiore, tramutandola in un album unico nell’intero panorama heavy metal, ovvero “Light Of Day, Day Of Darkness”. Ispirato dalla nascita del figlio del celebre chitarrista, colonna portante anche dei migliori Carpathian Forest, quell’album, formato da un’unica traccia di un’ora, è rimasto un capitolo a sé stante per gli uomini di Kristiansand, che in seguito sono approdati a un hard rock più easy listening (“A Blessing In Disguise”, “The Quiet Offspring”) e infine alla dimensione acustica (“The Acoustic Verses”). Al momento di rientrare sulle scene e chiamati a presenziare al Blastfest, in corrispondenza del quindicennale di “Light Of Day…” (uscito il 8 gennaio 2001), la band ha colto nuovamente l’attimo, fronteggiando se stessa, in quella dimensione perfetta che aveva consentito la nascita di un tale capolavoro. L’obiettivo è diventato quello di riproporre l’album nella sua interezza, al massimo delle proprie attuali possibilità, avvalendosi di una line-up allargata a sette elementi, tre chitarre, l’ausilio di un theremin, il bozouki, un preciso lavoro di riarrangiamento delle parti vocali in studio deputate a un soprano e a un coro di bimbi, al Blastfest non presenti. Una preparazione sfociata in un concerto che definire magico è un semplice eufemismo. Perché mancando i termini di confronto, data l’unicità della musica e dello show, ogni possibile descrizione diventa un florilegio di nulla, uno svilimento di significati sonici e testuali che fanno vibrare corpo e anima senza che queste sensazioni possano essere spiegate in modo convincente. Comunque, ci proviamo. Partendo dall’amorevole pacatezza dei synth introduttivi, mentre sullo schermo scorrono immagini autunnali. Il ponte emotivo fra chi è sopra il palco e coloro che vi stanno davanti si crea immediatamente, i suoni sono calibrati in modo da far interagire senza incomprensioni i musicisti, che paiono in stato di grazia, rilassati e inebriati di vivere un tale prezioso momento. I trascinanti cicli strumentali in cui l’album è diviso si infrangono stupefacenti sull’audience, le chitarre aspergono di profumi ed ebbrezze la venue, le tastiere controbattono con enfatici giri sinfonici e organistici le parti più accese. Vocalmente, si rimane stupefatti dalla varietà espressiva del barbuto Kjetil Nordhus, che spalanca gli occhi per comprendere tutti quanti nello sguardo intanto che ci stende con una serie di maschi baritonali, arie confidenziali, gorgheggi progressive e lirismi d’avanguardia. Il tutto sfoggiando un sorriso larghissimo e una fisicità da orso buono. Ad alternarsi alle voci di supporto un po’ tutti gli altri suoi compagni, secondo intrecci mai sforzati, sempre cristallini, pulitissimi, emotivamente impagabili. Si avanza fra un tuffo al cuore e l’altro, le immagini sullo schermo mutano, fino ad arrivare al toccante loop di due bimbi che danzano e giocano in riva al mare. Tonalità seppia, indefinite, che ben si confanno a un testo colmo di metafore, interrogativi angosciosi, risposte smozzicate, un’immaginazione turbinante che prova a far uscire un individuo dalla sua angosciosa solitudine e portarlo all’agognata felicità. Perdiamo la cognizione del tempo e concentriamo ogni energia su quanto accade sullo stage, dove i pochi momenti di vera pacatezza – incredibile come su un’ora di durata vi siano ben poche radure riflessive – acuiscono i sentori malinconici, grazie alla fragilità del bouzouki e le onde del theremin. Uno spettacolo indimenticabile, che ha avuto in cambio per la band scene di vero delirio in tutta la venue, tra chi non ha smesso un secondo di fare headbanging, a chi semplicemente ha preferito una visione in silenzio, ma con l’occhio a tradire un lacrimare imminente. Una strage per gli animi più o meno sensibili presenti in sala, d’altronde solo un cuore di pietra sarebbe potuto restar indifferente a qualcosa di così pregiato. Per chi scrive, quello dei Green Carnation è stato il miglior concerto del Blastfest 2016.
EL CACO
Quando il serbatoio delle energie nervose segna la riserva, è ora di darsi all’ignoranza e al lieto vivere. Il programma del Blastfest che volge al termine ci pone di fronte l’ennesima scelta degli ultimi tre giorni: al primo piano, il black metal degli Ancient, al piano terra, lo stoner metal degli El Caco. Visto quanto siamo disarmati mentalmente dopo un’ora di Green Carnation, scegliamo i secondi. Il trio, approdato a gennaio al settimo studio album, intitolato con molta fantasia “7”, si è sempre impegnato in sonorità ben poco ‘norvegesi’ e non ha mai nascosto l’amore per lo stoner dei Kyuss, punto di riferimento incrollabile a partire dall’esordio “Viva” del 2001. E se quel disco lasciava presagire un certo tipo di futuro alla formazione, la realtà ha poi detto che gli El Caco sono dei ragazzi simpatici e divertenti, ma che non potranno mai cambiare la storia del rock. Quello che possono fare, e gli riesce benissimo, è creare un bel clima da party, in una forma simile e diversa a quella dell’unico altro gruppo che è andato vicino a questa dimensione al Blastfest, ovvero i Chrome Division. I volumi sono sparati alle stelle, chitarra e basso emanano unto e fuzz, martellate lardose che percuotono schiene colpite in questi giorni da ogni possibile attacco e che ancora cercano di stare dritte e sostenere il peso di una nuova offensiva. La concezione del concerto è di quelle che sarebbe piaciuta molto a Lemmy: colpi durissimi assestati in rapida sequenza, una voce nasale urlata e riottosa, un batterista caciarone che randella qualsiasi cosa gli capiti a tiri come se stesse buttando giù una casa a forza di colpi sui tamburi. Non lo avremmo detto, eppure i facili refrain dei brani più famosi di El Caco sono cantati dalla maggioranza dei presenti – e sono tanti – al Sardinen, confermandoci che sulle realtà locali, soprattutto quelle di facile presa come questa, gli scandinavi non transigono e si fanno prendere la mano nel dare supporto. I musicisti capiscono il momento e col passare delle canzoni sembrano addirittura aumentare l’energia, investendoci con riff metallici uno più carico dell’altro, arrivando in breve tempo sull’orlo del parossismo. Una bella prova, non c’è che dire, nella quale certe ripetitività e mancanze del songwriting sono state artatamente occultate da un agonismo degno dei migliori Raven. Anche gli El Caco si sono seduti con onore alla ‘mensa’ del Blastfest.
Setlist:
Leaving
The Glow
Substitute
Reach Out
Underneath
One Week
Skeleton
A Nice Day
Curious
Sickness
Someone New
Ambivalent
ABBATH
Non poteva che essere lui, il figlio prediletto di Bergen, a chiudere quattro giorni che erano già storia nel momento dell’annuncio dell’intera line-up e sono divenuti leggenda vera quando il tutto si è poi effettivamente concretizzato. Il buon Abbath raccoglie una venerazione da rockstar, è idolo vero per i suoi connazionali, come del resto per i metaller stranieri. Di questi tempi, poi, il concentrarsi su materiale maledettamente old-school, in sfrontato crossover tra black metal ed heavy metal ‘di una volta’, sta lasciando dietro di sé una scia di simpatia nostalgica assolutamente irresistibile nei confronti dell’esperto cantante/chitarrista. Eccoci allora, completamente esausti, quasi allucinati dall’oceano di musica percepita e assimilata, a farci investire da un inno alla norvegesità più forte e granitica. Le luci bianche fanno da contorno in partenza a uno scatenato sciamare di chitarre secche ed essenziali, suonate con proverbiale enfasi nefasta e un’epicità dapprima sottile, in seguito veemente e rigonfia di grandeur. Qualche piccola imperfezione di suono nulla toglie alla fluidità d’azione della band tutta, che per colmo d’assurdità nessuno ha ancora capito da chi sia formata per metà dei suoi componenti. Chi saranno mai il batterista mascherato e il secondo chitarrista? Chissà! Ciò contribuisce ad ammantare di un alone di mistero una prestazione incisiva, costellata di grandi pennellate di classe e tuffi al cuore per chi della passione per l’epos nordico ha fatto una ragione di vita. La sala è piena, adorante, vibrante sotto i colpi di “Winterbane”, “Ashes Of The Damned”, “Fenrir Hunts”, “Root Of The Mountain”. Tutte canzoni che, sfornate da poco sotto l’egida Abbath, hanno guadagnato in brevissimo tempo la stoffa dei classici, forti di semplicità, affabilità, astuzia nell’indovinare il riff da mille e una notte. Assolutamente magiche anche “Warriors”, quando il Nostro sembra rivestirsi di un’aureola d’eroe d’altri tempi, e “Tyrants”, durante la quale pure i compassati norvegesi si agitano come se quello di Abbath fosse l’ultimo concerto della loro vita. Poche smorfie e mossette, tanta sostanza per il lunatico ex cantante degli Immortal, “All Shall Fall” dalla sua band precedente è la chiusura del sipario perfetta per lo show, la giornata, il festival tutto. La neve cala su Bergen, l’energia evapora in una soddisfazione diffusa, il calore nell’anima contrasta col ghiaccio dell’aria della notte. Il Blastfest è finito, la gioia di averlo vissuto in prima persona durerà in eterno.
Setlist:
To War
Winter Bane
Nebular Ravens Winter
Warriors
Ashes of the Damned
Fenrir Hunts
Tyrants
One By One
Count the Dead
Root of the Mountain
Encore:
Solarfall
Endless
All Shall Fall