Procedendo a piccoli passi, il Bloodshed Festival è diventato uno degli appuntamenti cardine per ogni grindcore fan del Vecchio Continente. Se in estate la scena è dominata dal ceco Obscene Extreme senza grossi sforzi, visto che quest’ultimo può vantare una reputazione ormai consolidata e una location sempre più famosa, in autunno è l’evento olandese a stuzzicare le fantasie degli amanti delle sonorità più furiose ed abrasive. Ospitato dal Dynamo di Eindhoven, locale che sotto vari aspetti appare come il fratello minore del celebre 013 della vicinissima Tilburg, il Bloodshed Festival, giunto alla sua quattordicesima edizione, è il tipico ritrovo organizzato da fan per altri fan, simile nell’allestimento del bill ad happening come il Kill-Town Death Fest o, appunto, l’Obscene Extreme. A differenza del connazionale Neurotic Deathfest, l’evento tende quindi ad ospitare solo realtà underground e “fedeli alla linea”, concedendosi solo qualche piccola divagazione per rendere il programma un po’ meno monotono. Insomma, i gruppi non vengono invitati basandosi sulle mode o sulle pressioni delle case discografiche: alla base dell’organizzazione vi sono vera passione, cultura ed integrità, tutte cose immediatamente respirabili una volta entrati nel locale, dove staff e security danno sempre l’impressione di lavorare in grande sintonia con gli avventori. Tra i soliti stand di merchandise e dischi, cibo vegan e una mostra d’arte – senza ovviamente dimenticarci dei concerti visti sui due palchi del locale – i due giorni trascorsi in terra olandese sono filati via in un baleno. Siamo tornati a casa soddisfatti e con l’ennesima conferma che i festival organizzati da queste parti hanno sempre una marcia in più rispetto a tanta concorrenza estera.
BLOCKHEADS
Sbrigate le pratiche hotel/biglietto, il primo concerto del festival che riusciamo a vedere interamente è quello dei Blockheads, che si esibiscono sul palco principale. Abbiamo avuto modo di visionare i francesi dal vivo in occasione del recente ChimpyFest a Londra e questa sera non possiamo che confermare tutte le ottime impressioni suscitate dal quartetto allora. Serve solo mezzora ai Blockheads per fissare uno standard tremendamente alto a livello di esecuzione e risposta di pubblico: tutti i gruppi che seguiranno dovranno fare i conti con una performance mostruosa, davanti alla quale sarà difficile non sfigurare. Suoni subito taglienti, un frontman ultra coinvolto, fan che piovono sul palco… la bolgia vista in Inghilterra viene qui replicata per filo e per segno, con la sola differenza che nella sala è presente molta più gente invasata, per un colpo d’occhio da brividi. Il contratto con Relapse e il successo di “This World Is Dead” deve aver caricato a mille la band, che dalla pubblicazione del lavoro non si è mai fermata, suonando quasi ovunque in Europa e cemetando ulteriormente un affiatamento che è comunque sempre stato ragguardevole. Questa sera i Blockheads hanno dimostrato di essere all’apice della loro carriera; forse i Rotten Sound devono iniziare a guardarsi le spalle…
HELLSHOCK
Rallentano le ritmiche, ma il coeficciente di ignoranza non diminuisce affatto. Non potrebbe essere altrimenti con l’arrivo degli Hellshock, solidissima realtà statunitense che da sempre mescola speed-thrash d’annata e influssi crust punk. Sotto vari aspetti, il gruppo sembra uscito direttamente dai tardi anni Ottanta e il responso della folla si allinea sulle stesse coordinate: assistiamo così ad un pogo vecchia scuola e a circle pit che nascono in maniera del tutto spontanea. Non siamo di fronte a una di quelle formazioni di oggi che si sentono in dovere di dire ai fan cosa fare: i Nostri sanno che basta la loro musica per innescare le reazioni più barbare, quindi si limitano a suonare senza praticamente prendersi una sola vera pausa. Giusto il frontman Joel Smith si fa prendere un po’ più dalla foga, saltando in mezzo al pubblico e cantando le ultime canzoni in scaletta direttamente dal pit, con gente che si sfracella attorno a lui. Band ideale per i festival, visto che riuscirebbe a ben figurare sia davanti ad un’audience metal che prettamente hardcore-punk, gli Hellshock portano agilmente a termine la loro missione, riempiendo la sala principale e demolendo gli avventori pezzo dopo pezzo. Classici e assolutamente letali.
BLOOD I BLEED
Al piano interrato i riflettori ora sono tutti per i Blood I Bleed, ignorantissima realtà locale che si muove fra grindcore primordiale e thrash/crossover, per una miscela che può ricordare Heresy, Yacopsae e primi Cripple Bastards. La band gioca in casa e non sorprende vedere una reazione selvaggia da parte del pubblico: la sala è piccola, ma nessuno si spaventa davanti a niente: pogo vecchia scuola, stage dive, crowd surfing… in pochi minuti la bolgia è totale e il colpo d’occhio appagante sia per i musicisti che per i curiosi rimasti in disparte. I Blood I Bleed presentano il loro nuovo split con i Lycanthrophy e scelgono indubbiamente la serata giusta per avviare la promozione di questo loro ultimo lavoro: meglio un singolo concerto ad un happening come il Bloodshed Fest che dieci davanti alla solita gente nel proprio circuito locale.
GADGET
È un piacere rivedere anche i Gadget, band che negli ultimi tempi ha mantenuto un profilo molto basso, rilasciando solo uno split con i Phobia in più di sei anni. Il quartetto svedese gioca praticamente in casa, essendo in toto un gruppo “da Bloodshed Fest”: grindcore scandinavo venato di death metal e hardcore… una simile formula è nel DNA di quasi ogni avventore del festival e il responso che i Nostri ottengono quest’oggi non concede spazio a dubbi. Purtroppo i suoni sono un po’ più sporchi rispetto a quelli in dote alle band che hanno preceduto il quartetto, ma quest’ultimo fa di necessità virtù, lanciandosi in una performance serrata e grezzissima, nella quale riesce a trovare spazio anche un buon inedito. Chissà se il gruppo sta preparando un nuovo album… di certo il periodo sarebbe favorevole, visto il grande interesse che le sonorità più ruvide ed estreme sono riuscite a ritagliarsi negli ultimi anni. In ogni caso, questa sera i Gadget danno prova di essere ancora vivi e vegeti: il loro concerto non è stato entusiasmante quanto quello degli amici Blockheads, ma i fan accorsi al Dynamo hanno senz’altro gradito. A risentirci presto.
DEAD IN THE DIRT
Scendiamo nella “sala underground” (in tutti i sensi!) per goderci lo spettacolo della rivelazione Dead In The Dirt, che hanno di recente pubblicato il debut album “The Blind Hole” su Southern Lord. Si tratta della prima data europea in assoluto per il terzetto, che non tarda un attimo per ringraziare i fan accorsi e per sottolineare come si tratti di un’esperienza del tutto nuova per ognuno di loro. Poi parte il concerto e si sa già cosa aspettarsi: grindcore e fast hardcore suonati con buonissima perizia tecnica e con la foga di chi crede davvero nel messaggio che sta cercando di trasmettere con la propria musica. In verità, non vi è grande spazio per quei comizi che certe band vegan straight edge sono soliti imbastire ai loro show: i Dead In The Dirt pensano per lo più a suonare e ad aizzare il pubblico, allineandosi in questo a tanti altri “normali” gruppi grind. La sala è piuttosto piccola e non pare permettere grande movimento da parte dell’audience, tuttavia si respirano entusiasmo e approvazione. Chi ha apprezzato il disco non rimane deluso dalla prova dei ragazzi; anzi, arriva quasi a rammaricarsi che il set sia davvero brevissimo, persino per gli standard del genere. In ogni caso, chi desiderava una conferma live delle capacità dei Nostri l’ha quasi certamente ottenuta.
NAUSEA
Gli headliner della prima serata del festival sono ovviamente i californiani Nausea, formazione di culto del panorama grindcore che ancora riscuote interesse grazie alla buona fama guadagnata dell’unico vero album sin qui pubblicato (“Crime Against Humanity” del 1991) e alla presenza in lineup del cantante/chitarrista Oscar Garcia, colui che ha cantato su un certo “World Downfall”. Alla seconda chitarra questa sera troviamo poi il buon Leon del Muerte (Impaled, ex Exhumed e Intronaut), mentre il ruolo di vero e proprio frontman viene affidato al bassista Alejandro Corredor, che instaura subito un buon rapporto con gli astanti. Il gruppo, d’altra parte, non sembra dover fare granchè per attirare l’attenzione: basta il proprio status all’interno della scena per riempire la sala principale di fan e curiosi, ma di certo una performance convinta e serrata – come quella che il quartetto presto imbastisce – non guasta affatto. Se poi aggiungiamo che i Nostri, ad un certo punto, decidono di andare sul sicuro sfoderando “Fear Of Napalm” dei Terrorizer come tributo al passato di Garcia, allora il successo è praticamente assicurato. Rispetto ad altre band esibitesi in giornata, suoni ed esecuzione sono risultati un po’ meno precisi, ma il fascino del catalogo dei Nausea (sono stati eseguiti anche pezzi tratti dai demo) e la lineup semi-“all star” hanno fatto la differenza.
DEATHRITE
Il sabato, secondo e ultimo giorno del festival, per noi si apre con i Deathrite, quartetto tedesco che ha da poco pubblicato il suo secondo album, “Into Extinction”. Con i ragazzi di Dresda siamo per lo più dalle parti di un death’n’roll che può ricordare gente come Black Breath e Acephalix (gli Entombed li diamo per scontati). I suoni sono ottimi, almeno per chi conosce bene la natura ruvida del genere, e il gruppo denota subito un buon affiatamento, facendosi guidare soprattutto dal chitarrista Andy, colui che pare dettare i tempi dello show. I riff di chitarra sono ovviamente la spina dorsale di una proposta come questa e il Nostro fa certamente un buon lavoro, sfoderando sia spunti concitati che bordate groovy. Sono soprattutto queste ultime a destare l’interesse del pubblico, che a poco a poco inizia ad accorrere nella sala principale, incuriosito dall’impatto della formazione, che appunto suona assai simile a certe realtà oggi sulla bocca di tutti. Il frontman Tony non fa granchè per coinvolgere i presenti, ma evidentemente bastano la buona qualità dei pezzi e dei suoni a rendere lo show un piccolo successo. Sulle note di “The Golden Age” si assiste all’headbanging più convinto dell’intera giornata!
EVISORAX
Nello scantinato troviamo gli Evisorax, freschi reduci da un tour americano e da alcune date di un certo profilo in Europa. Il trio britannico ha un nuovo album in uscita per Bones Brigade e si presenta al Bloodshed Fest altamente motivato. Si può subito dire che il sound non sia cambiato affatto rispetto alle prove recenti: di nuovo si parla di grindcore iper frenetico sulla scia degli Insect Warfare, suonato senza basso e “cantato” quasi esclusivamente su tonalità altissime e schizzate. La saletta è piena e, anche se molti sembrano ancora stanchi dalla sera prima, si respira una grande approvazione per i ragazzi, i quali si gettano a capofitto nel set, bruciando letteralmente i brani in brevi scariche che non concedono respiro. Il chitarrista Daniel Lynch, inoltre, sembra essersi quasi del tutto ripreso dalle conseguenze dell’aggressione subita mesi fa e ora può stare sul palco senza l’aiuto di sedie o stampelle: ciò significa un po’ di presenza scenica in più per una band che comunque non ha mai conosciuto il significato del termine timidezza. Anche il concerto di oggi è una bella botta!
UNDERGANG
Nella sala principale è il turno degli Undergang, una delle death metal band chiamate a irrobustire il bill dell’evento. L’anima crust dei ragazzi danesi attira comunque vari tipi di ascoltatore e, infatti, quando i Nostri attaccano, il colpo d’occhio è più che buono. Purtroppo pare che il gruppo quest’oggi abbia qualche problema di suoni sul palco, ma dall’esterno tutto appare abbastanza in regola, tanto che il pubblico inizia a “farsi prendere bene” e a fare headbanging su ogni pezzo. Colpisce soprattutto il suono del basso: una delle cose più sporche e pesanti che si siano sentite al festival… marciume puro! La scaletta è a grandi linee la stessa udita al londinese Chimpyfest, con pezzi equamente estratti dai due full-length e un paio di inediti. Il gruppo ha in programma di registrare un nuovo album nel corso della prossima estate e ora sta evidentemente testando le proprie idee in sede live. Il pubblico, a ben vedere, non fa una grinza davanti a queste sorprese, anche perchè le differenze stilistiche sono minime: pare a tutti gli effetti di ascoltare tracce del vecchio repertorio! E ovviamente nessuno si lamenta: gli Undergang sembrano destinati a diventare uno dei massimi baluardi della sporcizia nel death metal!
ABADDON INCARNATE
Assistiamo con piacere alla performance degli Abaddon Incarnate, longeva realtà death-grind irlandese che forse avrebbe meritato un pizzico in più di fortuna negli anni. La band infatti ha sempre rilasciato lavori più che dignitosi, ma ha spesso dovuto fare i conti con case discografiche poco disponibili e con una scarsa promozione dovuta anche alla posizione geografica (l’Irlanda e queste sonorità non sono mai andate troppo d’accordo). Oggi alla batteria troviamo l’ex Altar Of Plagues Johnny King, ottimo motore di una prova che non concede tregua sin dalle primissime battute. I Nostri hanno solo l’imbarazzo della scelta in termini di setlist e fanno in modo di coprire quanti più periodi possibile, senza dimenticare di omaggiare i maestri con una gradita cover di “Dead Shall Rise” dei Terrorizer. Scelta scontata e ruffiana, ma che paga su tutta la linea, visto che il pit si accende ulteriormente, regalando agli Abaddon Incarnate l’ovazione definitiva. Speriamo che il concerto di oggi riesca a spostare sul gruppo qualche riflettore in più, proprio come avvenuto per i Blockheads, premiati dopo anni di gavetta underground.
CHAPEL OF DISEASE
Si riapre una parentesi death metal con i Chapel Of Disease, quartetto tedesco che lo scorso anno ha lasciato il segno nell’underground con la pubblicazione del debutto “Summoning Black Gods”. Per quanto ci riguarda, sinora abbiamo trovato la proposta del gruppo solo discreta, ma quest’oggi dobbiamo sottolineare come l’esibizione dei ragazzi sia particolarmente intensa e ben recepita dall’audience. Sarà forse perchè una delle principali influenze dei Nostri sono i primi Pestilence, vecchi idoli di casa, oppure, semplicemente, perchè le canzoni acquistano una marcia in più dal vivo; resta il fatto che i Chapel Of Disease si impossessano del palco principale e ci danno dentro con una prova piuttosto sentita, nella quale spicca il cantante/chitarrista Laurent Teubl, super coinvolto nella sua musica. Il pubblico a questo punto non è numerosissimo, ma, come dicevamo, la band fa la sua figura, ritagliandosi una mezzora di gloria davanti a più di un avventore rapidamente convertito al verbo old school death metal. sarà ora nostra premura seguire le successive mosse del quartetto e sperare in alcuni miglioramenti anche su disco.
SPEEDWOLF
Gli Speedwolf rappresentano a pieno lo spirito scanzonato del Bloodshed Festival quest’anno: speed metal/punk che trae nettamente ispirazione dai colossi Motorhead e dai Darkthrone più recenti. Il gruppo statunitense può contare su Reed Bruemmer, un frontman enorme con look da biker che ha intimidito chiunque già ore prima dello show, e un batterista di sostanza come Richie Tice (ex Havok). Basta questo per mettere la performance sui binari giusti e per dare via alla festa. Una volta sentita una canzone è praticamente come averle sentite tutte, visto che la varietà in questo genere è un concetto poco applicabile, ma ciò non toglie che la mezzora targata Speedwolf riesca a smuovere la maggior parte dei presenti quest’oggi, i quali evidentemente non vedevano l’ora di staccare un po’ e trovare respiro in delle sonorità un pochino meno esasperanti rispetto a quelle tipiche del festival. Con titoli come “I’m Begging For Cocain”, “I Am The Demon” e “Denver 666” non potevamo aspettarci altro che ignoranza a palate e infatti così è stato: nessuna sorpresa, puro divertimento. “Veni, vidi, vici”, praticamente… anche se forse la citazione “colta” stona un po’ davanti alla proposta di questi quattro animali.
PLANKS
Dalla barbarie degli Speedwolf alla grazia dei Planks, un’altra delle formazioni “ibride” invitate a prendere parte all’evento per diversificare un pochino il cartellone. Scendiamo nella sala minore e ci rincuora vederla piena per gran parte: lo stesso frontman Ralph ci scherza sopra, visto che “temeva” che l’avventore medio del festival potesse vedere i Planks come una sorta di pop band. Per fortuna non manca apertura mentale da queste parti e il gruppo viene seguito con grande attenzione. I suoni, inoltre, sono calibrati quasi alla perfezione: non avevamo ancora sentito una tale definizione nel piano interrato. La proposta dei ragazzi tedeschi, tra sludge, black metal e post punk, si allontana anche di molto dalle atmosfere tipiche del Bloodshed Fest, ma è appunto questa diversità a fare la fortuna dei Planks quest’oggi: i Nostri spiccano tra la massa per il loro stile e, al contempo, non si può certo dire che manchino di potenza, visto che il lavoro di chitarra, basso e batteria fuoriesce dagli amplificatori con notevole impatto. Un pezzo come “Sacred And Secret” diventa in men che non si dica una delle hit della nostra serata.
THE SECRET
Torniamo davanti al “main stage” per assistere al concerto dei The Secret, unica realtà italiana presente a questa edizione del festival. Fa piacere vedere i ragazzi così in alto nel bill: evidentemente la qualità dei dischi e i numerosi tour sostenuti a supporto di questi ultimi hanno ben presto pagato. Il quartetto si presenta infatti denotando grande sicurezza ed entusiasmo: il palco e la sala di grandi dimensioni non sono evidentemente un problema e l’attacco di “Agnus Dei” spazza via gli ultimi dubbi rimasti, anche se inizialmente i suoni non sono un granchè. Ci vuole qualche minuto per sistemare il mixaggio, ma nel frattempo il gruppo è comunque riuscito ad attirare su di sè l’attenzione di molti avventori. Le prime file accennano pogo e circle pit, mentre più in fondo la gente appare più concentrata sulla performance dei singoli musicisti. Le influenze black metal incuriosiscono alcuni e, in generale, donano profondità alla proposta – di certo i The Secret non assomigliano troppo alle altre band che abbiamo visto su questo stesso palco – ma stasera sono forse i brani più diretti a ricevere i consensi maggiori: “Love Your Enemy” e “Death Alive” su tutti. Basta mezzora ai The Secret per mettere a ferro e fuoco la sala: minutaggio perfetto per un sound che dal vivo acquista ancora più urgenza e frenesia. Non a caso, a fine show Marco Coslovich ci sembra sconvolto!
BLOODY PHOENIX
Il festival spara le ultime cartucce, ma si tratta per lo più di salve letali! I Bloody Phoenix, come giusto che sia, si esibiscono nel piano interrato, ricreando così la tipica atmosfera da scantinato che è da sempre cornice di tanti loro show. Il gruppo old school grindcore statunitense si rende protagonista di quello che è senza dubbio il set più selvaggio al quale abbiamo assistito nella saletta: la band suona a strettissimo contatto con il pubblico e quest’ultimo appare inferocito almeno tanto quanto i musicisti. Grandissimo lo scambio di energia fra le due fazioni, con i Bloody Phoenix che arrivano a proporre quasi una ventina di tracce – praticamente una mitragliata! – e gli astanti che rendono il pit una vera bolgia. La stanza è stra-colma, l’aria irrespirabile, il caldo atroce. Se finora non avevamo avuto problemi nell’indossare una felpa anche all’interno del locale, qui sotto ci tocca denudarci per non soccombere prima del termine del concerto. Basta dare uno sguardo ai musicisti per capire che su quel palco stiano dando tutto e lo stesso si può dire di certi die-hard fan che si ritrovano più volte sul piccolo palco con la band, tanto la pressione dalle retrovie si è fatta insopportabile. Veniamo poi a sapere che il frontman ha abbandonato il gruppo nel mezzo del tour europeo, per poi riconciliarsi appena in tempo per il Bloodshed e, chissà, forse il motivo di tanta ferocia è lo stress accumulato nei giorni scorsi. Sta di fatto che l’audience si prende una delle più grosse sberle dell’intera edizione 2013!
ANATOMIA
Abbiamo visto gli Extreme Noise Terror solo un paio di settimane prima a Londra, quindi per chi scrive il festival giunge al termine con la prova degli Anatomia. I death metaller giapponesi sono attualmente in tour in Europa con gli Undergang e si presentano al Bloodshed Fest sull’onda della curiosità generata dal loro ultimo full-length, “Decaying In Obscurity”. Si tratta del primo tour europeo con la tastierista Kaori al seguito e i Nostri, forse per sottolineare la cosa, decidono di aprire con uno dei loro pezzi più atmosferici e morbosi: “The Unseen”. Sorprende che Kaori imbracci la tastiera quasi come se fosse una chitarra: ci saremmo aspettati un approccio più defilato, invece la ragazza denota una certa confidenza, affiancandosi ogni tanto al bassista/cantante Jun Tonosaki, che sta al centro del palco. Lo show si fa segnalare anche perchè tutti i membri maschili del gruppo si cimentano con le linee vocali, ma è naturalmente la musica ad essere protagonista. Dopo tanta velocità e stringatezza, il mix di Autopsy, Winter e Goblin dei giapponesi incuriosisce gli astanti tanto quanto la provenienza “esotica” della band. Con le loro arie macabre e mefistofeliche, in circa quaranta minuti gli Anatomia trasformano la sala principale del Dynamo in una sorta di rassegna horror, cambiando quasi completamente i connotati del festival. Se prima la gente correva in circolo e urlava, ora si preferisce quasi contemplare i musicisti sul palco, applaudendo solo nelle pause. Una performance indubbiamente particolare e che definiremmo anche assai riuscita dal punto di vista esecutivo, dato che conosciamo bene il repertorio del quartetto. Con umiltà ed entusiasmo, gli Anatomia hanno sicuramente guadagnato alcuni nuovi fan questa sera. Bella chiusura per il nostro festival.