A cura di Giovanni Mascherpa
Era ora. Era ora che i Bolzer varcassero anche i confini dello Stivale, la nostra martoriata terra ricca di storia che, grazie alle glorie dell’impero romano, ha contribuito in parte a ispirare il particolare filone lirico/concettuale del duo svizzero. Prima di far da spalla ai Behemoth per tre date che si annunciano come uno degli eventi “cult” dell’annata metal tricolore, i sempre più lanciati autori di “Aura” e “Soma”, oltre che del venerato demo “Roman Acupuncture”, hanno rincarato la dose, affrontando un tour da headliner in compagnia di altre tre formazioni di alto valore artistico (Ascension, Vassafor, Dysangelium). Una serie di concerti dall’impronta decisamente più underground rispetto a quelli che li vedranno aprire per le superstar polacche in aprile, rivolti a quella nicchia di ascoltatori già adeguatamente allenata alle scorrerie di HzR e KzR. L’assidua attività live dei Nostri nella passata annata ha fatto perdere fuori confine l’alone mitologico che ha contornato le prime mosse della band, mentre nel nostro paese la data del Colony presenta ben altra rilevanza. Data di cui si accorge un numero di persone tutto sommato accettabile per gli standard nostrani: si parla sempre di numeri bassi (ad occhio e con ampia possibilità di errore, 60-80 presenze) rispetto alla media europea, ma chi frequenta un certo tipo di concerti sa che da noi questo passa il convento. Per quanto riguarda gli altri partecipanti alla tournee, possiamo affermare che difficilmente i Bolzer avrebbero potuto scegliersi una compagnia migliore. Gli Ascension, col recente “The Dead Of The World”, se ne sono usciti con una delle opere black metal più originali ed esaltanti degli ultimi anni; i Vassafor stanno da tempo nella prima fascia dell’attraente e rivoltante categoria del “war metal”; i Dysangelium si stanno facendo le ossa tra gli Watain-wannabe, ostentando idee magari non personalissime, ma sviluppate con ardore e convinzione degni di nota. Con leggero ritardo sul programma – andrà ad aumentare nel corso della serata, senza inficiarne assolutamente il brillante esito – i Dysangelium salgono sul palco, avvolti dal fumo e da fragranze di incenso.
DYSANGELIUM
Il palco si presenta addobbato come un santuario satanico: un baule di legno di fronte ai monitor, sopra di esso un candelabro con candele ardenti e il teschio d’un caprone. D’altronde i gruppi in programma stasera abbinano tutti quanti un forte elemento spirituale alla violenza belluina del metal estremo, e qualche dettaglio di scena per creare atmosfera è sempre gradito. Dai Dysangelium ci aspetteremmo una prestazione muscolare, di impatto ma senza troppi grilli per la testa, in linea con il profilo dei tipici opener: un modo per far scapocciare un po’ i presenti e scaldarli in vista delle band che seguiranno, in poche parole. Invece i cinque tedeschi, che hanno appena esordito sulla lunga distanza con “Thánatos Áskesis”, ci aggrediscono con un black metal suggestivo, dove la solista e la ritmica si dividono equamente i compiti e creano un’inebriante dicotomia espressiva. Mentre la prima si dedica a stillare melodie sinistre, sottili e funeste come presagi di atrocità a venire, la seconda ci inonda di malevolenza concreta, fisica, con una brutalità bestiale e incontrollata. Il drumming tracimante e curato fa svoltare repentinamente i pezzi più volte, conferendogli un incandescente dinamismo, mentre la voce declamatoria apre a un ventaglio di sensazioni disagevoli ben più ampio di quelle veicolate da uno screaming tradizionale. Siamo di fronte a una rivisitazione degli Watain pre-“Lawless Darkness” di ottimo gusto e senza impacci di sorta, orchestrata con energia irresistibile, sicurezza e bramosia di assaporare le supposte delizie di Satana fino alle più alte vette di piacere. Una “rottura di ghiaccio” sensazionale, cercheremo di tenere d’occhio i Dysangelium nelle loro future mosse.
VASSAFOR
Dev’esserci un’aria anomala in Oceania, una sostanza intrappolata nelle molecole d’ossigeno che altera le menti e le spinge a rappresentare raccapriccio e sgomento tramite apparentemente innocui strumenti musicali. Lovecraftiani figuri, con un albero genealogico che frappone solo poche generazioni rispetto ai Grandi Antichi, infestano il pianeta partendo dagli Antipodi, portando scempio uditivo a chiunque abbia l’ardire di reclamarne bisogno. Eccoci allora in compagnia dei Vassafor, disumani figuri con un gusto/malgusto singolare per le collane di teschi. Tutti e quattro si portano on-stage un fardello di finte (?) ossa al collo, in onore delle vittime di qualche insana depravazione. Appena tornati sul mercato con lo split in compagnia dei Temple Nightside (“Call Of Maelstrom”), gli uomini di Auckland si producono in un esacerbato vilipendio della sanità mentale, prodotto tramite una masticazione con denti acuminati della parte più sordida dell’universo death/black/doom metal. La fusione di chitarre e basso in un magma rantolante e maleodorante ha il potere di creare marcescenza in pochi istanti, risuonando come una violazione di ogni canone estetico, in favore dello scempio e della distorsione di ogni nota in una viscida bava nerastra, gridante smania di olocausti e nuclearizzazioni. La carica mefitica viene esaltata da uno splendido lavoro del fonico (a proposito, suoni perfetti per tutti i gruppi, davvero un lavoro eccellente quello compiuto dietro il mixer), che fa risaltare la prepotenza schiacciante delle ritmiche doom e le dolorose accelerazioni con panoramica ad ampio raggio sull’Apocalisse. L’atrocità di un suono tanto chiuso, divorante se stesso come una bestia feroce in pieno shock emotivo e totalmente priva di senno, si amplia a dismisura per le durate monstre di ogni singolo brano. L’ulteriore sfacelo causato dalla voce, non definibile come cantato ma come pura tortura, e l’abilità del batterista di introdurre tempi dispari e pattern anomali in questa carneficina elevano la performance dei Nostri allo stato dell’arte sepolcrale, non solo a quella di ruspante macelleria. Coniugando la rozzezza blasfema di Blasphemy e Proclamation e le turbe mentali di Abyssal e Irkallian Oracle – a cui, è bene ricordarlo, i Vassafor sono anteriori – i metaller dell’altro emisfero sfracellano e gettano il sale sul Colony. Un’invasione barbarica avrebbe fatto meno male.
ASCENSION
Cambia lo scenario sul palco, cambiano gli interpreti, entriamo in un labirinto fisico e mentale di difficile comprensione. L’arredamento dello stage già porta con sé alcuni segnali piuttosto chiari: via la cassapanca con teschio e candele, dentro fondali disturbanti dove sono rappresentati bambini con una corda legata a un piede e il corpo in una posa innaturale. Rappresentazioni d’innaturale inclemenza verso l’infanzia, che turbano e spingono a chiedersi quale possa essere il significato recondito di immagini tanto terribili. In mezzo ad esse, figure geometriche inerenti all’occultismo. Brividi. Poi arrivano i musicisti, e il senso di disagio aumenta. La bassista e i due chitarristi hanno il volto e il collo interamente pittati di nero: solo un triangolo rovesciato in fronte rompe l’uniformità cromatica. Poco dopo l’inizio del concerto, ecco comparire il frontman, vestito con abiti di colore chiaro, sbrindellato come una mummia uscita dal sarcofago e truccato di bianco in volto. Un fantasma. L’apparenza, ovviamente, costituisce solo una minima parte di una performance ubriacante, frenetica, intricata eppure immediatamente esplicativa dei talenti a disposizione dei cinque. Le propaggini drone di “The Dead Of The World” sono travolte da progressioni deraglianti, la crudeltà viene dispensata in modi eccentrici e a loro modo eleganti; la melodia si nasconde in ogni riff, in ogni coltellata, nei marziali tempi medi che interrompono sporadicamente l’armageddon chitarristico. Dissonanze, cavalcate serratissime e trascendenti, un cantato imbizzarrito e teatrale ci sbaragliano senza darci modo di assimilare quanto stiamo udendo. Si tratta solo di subire, essere fatti in mille pezzi e poi sparsi per la galassia. Notevole la gestione delle dinamiche operata dal gruppo, che nelle parti più meditate potrebbe suonare come i Cult Of Luna, se decidessero improvvisamente di darsi al black metal più enfatico ed articolato. Delirio e coesione, innalzamento dell’anima ai più alti livelli di conoscenza e becera distruzione, negli Ascension convivono in un’armonia convulsa e miracolosa. Il frontman asseconda gli spostamenti di umori dei pezzi muovendosi epiletticamente, ma come seguendo un disegno preordinato, mentre i compagni restano pressoché immobili. Suoni spettacolari aggiungono quel tocco di carnalità che dal vivo gruppi più “costruiti” come i tedeschi devono possedere per ammaliare anche i neofiti: peccato soltanto che, tolte le prime due file, molti dei presenti si siedano o gironzolino un po’ distratti. Poco male, per chi apprezza il black metal evoluto sentire “The Silence Of Abel”, “Deathless Light” o l’imperiosa chiusura di “Mortui Mundi” è stata un’esperienza oltremodo appagante.
BOLZER
E Bolzer sia! Eccolo qua, il duo più ricercato d’Europa, ultimo esemplare di grido di una specie che non morrà mai: quella degli extreme metaller che non si accontentano di omaggiare i maestri, che non si piegano alla logica del “tanto è già stato detto tutto” e vanno, esplorano, oltre le Colonne d’Ercole della mente, oltre le porte della conoscenza che ancora deve essere svelata. Un cambio palco piuttosto lungo ce li consegna nella loro scarna presenza scenica allo scoccare della mezzanotte, minuto più, minuto meno. Il giorno volge al termine e ne inizia uno nuovo: metaforicamente parlando, i due svizzeri si pongono proprio a cavallo di passato, presente e futuro, ostentando nella propria indecifrabile musicalità un sacro rispetto per la tradizione e un’altrettanto integerrima intraprendenza e slancio verso il domani. Chi scrive ha avuto il privilegio di assistere a uno show dei Nostri due volte nel corso del 2014, e nonostante l’altissimo livello di quelle due performance, al Kill-Town Death Fest e all’Eindhoven Metal Meeting, ci si sente di osservare che al Colony questi musicisti sono riusciti a essere ancora più impressionanti. Non una differenza sensazionale, si intende, ma hanno lasciato capire che anche per fuoriclasse come loro c’è sempre modo di perfezionarsi, di affinare qualcosa, di meravigliare. Una grande mano gliela danno i suoni, chiari, potenti e ad ampio spettro: è un attimo soffocare la variopinta esecuzione di KzR, invece stasera la sua originale chitarra a dieci corde si trova nelle condizioni ideali per operare. E mentre HzR si destreggia fra pattern furibondi, che saltellano tra death/black primitivo e progressivo con pari efficacia e toccano il climax in tempi medi modello “legionari in marcia”, il cantante/chitarrista con le fattezze di un dio vichingo ci apre le porte a mondi mitici e arcani. Dimensioni zeppe di eroi, malefici, disgrazie, costellazioni che nascono e muoiono incessantemente, forze spaventose che si scontrano, si sterminano tra di loro e poi creano nuove civiltà di esaltante potenza e intelligenza. Una musica essenziale e insieme colossale quella dei Bolzer, sospinta a vette di delirio unico dai vocalizzi puliti di KzR, ululati apparentemente incoerenti, così vitali e impulsivi che sembrano provenire da un vero licantropo antropomorfo. Il pubblico, abbastanza sulle sue con le band precedenti, si lascia finalmente andare e ci sono anche alcuni accenni di pogo davanti allo stage. Grida di giubilo accolgono le prime note di “Steppes”, “Zeus Seducer Of Hearts”, il gigantesco arazzo sonoro di “The Great Unifier”. Prima che tre quarti d’ora di pura musica, senza alcun vezzo di intrattenimento, si chiudano con il riff epocale di “C.M.E.”, ripreso più volte all’interno del brano in un’allitterazione di scultorea bellezza. Torniamo alle nostre case stanchi, ma a dir poco soddisfatti…