Introduzione a cura di Claudio Giuliani
Live report a cura di Claudio Giuliani e Claudio Luciani
FLESHGOD APOCALYPSE
I Fleshgod Apocalypse si presentano sul palco “acchittati” di tutto punto, smoking nero (ovviamente finto) in tono con le loro velleità da musica classica e faccia sporcata di nero, in puro stile “eredi del caos”, fuoriusciti da qualche inferno non particolarmente ospitale. Il loro concerto si articola nel modo che ci è noto: pezzi eseguiti con furia e perizia tecnica investono i presenti che gradiscono, nonostante il suono non sia dei migliori (problema che ha riguardato anche le esibizioni successive, in particolare per quanto riguarda i Keep of Kalessin). Al solito la presenza scenica è uno dei punti di forza di questo gruppo, anche se Tommaso Riccardi (voce e chitarra) talvolta si lascia trasportare dalla foga della performance e spende qualche parola di troppo. Peccati veniali, comunque. I pezzi proposti provengono principalmente dall’unico full length finora pubblicato, “Oracles”, con in particolare risalto la song “Requiem In SI Minore”, con cui sono soliti chiudere le loro esibizioni; sugli scudi anche “Through Our Scars” e la cover di “Blinded By Fear” (ormai appuntamento fisso ai loro concerti), pezzi entrambi provenienti dall’EP “Mafia”.
Claudio Luciani
CARNIFEX
Uno spot per il fumo, attivo o passivo che si preferisca. Da quando infatti la normativa vigente vieta di fumare nei locali pubblici, soddisfare il vizio delle bionde durante un concerto costringe spesso a fughe di massa collettive fra un cambio di palco e l’altro. Non è stato così per i Carnifex, combo dedito al metalcore, che ha consentito ai presenti di fumare in pieno relax, consci del fatto che non ci si stava perdendo niente di che. Anche chi, come il sottoscritto, non è dedito al fumo ha sicuramente trovato un compagno da supportare durante la sigaretta, tale era il fastidio alle urla sguaiate del gruppo in questione. Sciatti, senza né arte né parte, fastidiosi al limite dell’insopportabile. Questi sono stati i Carnifex per poco meno di mezz’ora, un tempo molto più lungo dove i presenti, tranne degli esaltati che hanno cercato di muoversi sotto al palco, hanno smanettato tutti con il telefonino in attesa del gruppo successivo.
Claudio Giuliani
KEEP OF KALESSIN
Sono una sorta di Europe del black metal i Keep Of Kalessin, combo che negli anni d’oro del black metal si era guadagnato una solida reputazione, frutto di album tirati e molto diabolici. Dopo lo split, la band guidata dal chitarrista Obsidian C. è tornata a guadagnarsi una nuova reputazione virando la rotta dal black dell’epoca, nudo e crudo e senza orpelli vari, a quello di oggi, debitore infinito alla melodia anche nelle linee vocali. Il gruppo, va detto, funziona. Il batterista conosce un solo tempo, quello del picchiare selvaggiamente aborrendo la tecnica, il cantante grugnisce alternando cori melodici e anche le canzoni fanno il proprio dovere. Il difetto è che sono eccessivamente lunghe. Reiterare lo stesso riff per oltre sei minuti, se non ti chiami Bolt Thrower, rischia di stancare. È questo l’effetto del gruppo che ha proposto numerosi brani dall’ultima fatica quali “Dragon Iconography”, l’acclamatissima “The Dragontower” oltre a roba più vecchia del repertorio. L’impressione generale è che, con un riffing più corto, le stesse composizioni susciterebbero maggiore attenzione da parte del pubblico che, inevitabilmente, a metà canzone comincia a guardarsi attorno.
Claudio Giuliani
DYING FETUS
Violenza in tutte le sue forme: questo suscita l’esibizione del gruppo americano, un gruppo che per la potenza che riesce a sprigionare dal vivo sembra che suoni in trenta invece che in tre. Suoni potenti, chitarra singola compressa e tagliente come una mannaia, e brani del repertorio che vivono e vivranno a lungo negli amanti del death metal americano… come si fa a non avere successo? Esiste un solo omicidio giustificabile ed è quello dei Dying Fetus, che con questa song aprono il concerto. In questo momento tutti i fan rispondono all’appello e affollano il locale. Bastano un paio di canzoni, fra cui la nuovissima “Sheperd’s Commandment”, per creare l’atmosfera giusta: temperatura che sale vertiginosamente, sudore locale dispensato tramite capelli unti o petti unti nel grande pogo al di sotto del palco. Ci si dimena, per non dire ci si mena, vista la mania americana di scuotersi sotto il pit, durante tutte le canzoni degli americani. Kevin Tally è il fenomeno che conosciamo e il suo ritorno in pianta stabile nel gruppo permette di accelerare addirittura i brani, che pensavamo già velocissimi di per loro. Su “Descend Into Depravity”, title-track dell’ultima fatica in studio, si sono toccate punte di velocità mai udite prima. Buona anche la scelta delle canzoni, molto varia, che ha attinto da “Destroy The Opposition” (“Pissing In The Mainstream”, “Praise The Lord”) così come da “Stop At Nothing”, con la granitica “One Shot One Kill”, dotata di un riffing micidiale. Il suono è avvolgente, sembra arrivare da tutte le pareti del locale tale è la profondità e l’altezza delle note, né mancano brani vecchi nella setlist dei Nostri, che non concedono bis ma ci lasciano con l’accoppiata micidiale e carica di note formata da “Pissing In The Mainstream” e da quell’inno che è “Kill Your Mother Rape Your Dog”. Roba su cui esaltarsi ma non da prendere alla lettera.
Scaletta:
Justifiable Homicide
Intentional Manslaughter
Sheperd’s Commandment
Homicidal Retribution
Vengeance Unleashed
Descend Into Depravity
One Shot One Kill
Eviscerated Offspring
Your Treachery Will Die With You
Grotesque Impalement
Praise The Lord (Opium Of The Masses)
Pissing/Kill Your Mother-Rape Your Dog
Claudio Giuliani