In un periodo in cui una reunion non si nega a nessuno, anche quando la richiesta da parte del pubblico è modesta o quando c’è effettivamente poco da rivisitare e celebrare, è sacrosanto che il ritorno di una formazione seminale come i Botch faccia più scalpore di quello di molti altri.
Il ritorno degli statunitensi deve essere giustamente celebrato, poiché non si tratta semplicemente del rientro sulle scene di un nome per nostalgici o di una chicca per pochi cultori, ma della rinascita di una band che ha lasciato un segno importante nello sviluppo del metalcore e di molta altra musica pesante poi diventata popolare nel corso di questo millennio. L’approccio tecnico, progressivo e deviato dei Botch ha fatto scuola, anche se a scoppio ritardato: basta ascoltare una buona fetta di ciò che oggi viene definito math, progressive o persino djent… tante di queste soluzioni trovano la loro origine in opere come “American Nervoso” o “We Are The Romans”.
Pur non ottenendo i consensi immediati di colleghi come ad esempio i The Dillinger Escape Plan – con cui condivisero un ormai leggendario tour europeo nel sempre più lontano 2000 – l’impatto e importanza dei Botch su molto di ciò che ascoltiamo oggi sono insomma indiscutibili: non stupisce quindi che il loro ritorno dal vivo stia venendo salutato ovunque come un vero e proprio evento.
Certo, quando sono stati annunciati i primi appuntamenti, la speranza era quella di potere vedere il gruppo anche in Italia, ma evidentemente è stata adottata una politica diversa a livello di booking, optando per poche date con il maggior profitto possibile. Le elevate richieste economiche dell’agente hanno dunque creato una certa difficoltà, rendendo possibile solo per alcuni paesi ospitare un concerto del quartetto.
E così, con grande eccitazione e anticipazione, i Botch hanno varcato l’Atlantico per offrire agli appassionati europei una manciata di rare occasioni di rivivere la potenza e l’energia della loro musica dal vivo.
Giunti a Londra per una delle ultime tappe di questo breve itinerario, gli statunitensi si presentano con un paio di support band che in realtà sembrano faticare un pochino a conquistare un pubblico che per ora tende ancora a stare nei pressi del bar, o addirittura fuori dal locale, per sfruttare al massimo le varie opportunità offerte dal sempre più turistico quartiere di Camden Town.
Il punk sfrontato dei britannici BAD BREEDING e il sound più denso e strutturato dei GREAT FALLS, in cui convivono una classica anima post-metal di scuola Neurot Recordings e delle scorie noise rock, non riscuotono dunque più di tanto clamore nei rispettivi brevi set, anche per via di suoni molto impastati (purtroppo una costante di molti show nell’Electric Ballroom).
Tutti o quasi sono insomma qui solo per i BOTCH, i quali, vent’anni fa, avrebbero solo potuto sognare un responso del pubblico come quello in serbo per loro questa sera.
Il cambio di palco è rapido e l’arrivo della band sul palco è quasi inaspettato: non si fa in tempo a pregustare e a farsi prendere dall’entusiasmo che il quartetto è già nel pieno dell’esecuzione dell’attesissima “To Our Friends in the Great White North” (per fortuna con una resa sonora decisamente migliore rispetto a quella degli opener). Nonostante l’avanzare dell’età e i chili presi nel corso degli anni, i musicisti si presentano vivaci e preparatissimi nel tenere il palco, trasmettendo subito un’energia che mette a tacere qualsiasi dubbio sul fatto che il tempo abbia minato la loro vecchia verve.
I riff discordanti di Dave Knudson (magistrale in un pezzo colmo di saliscendi umorali come “Transitions From Persona to Object”) e il drumming vorticoso di Tim Latona sferzano il pubblico con la stessa ferocia di vent’anni fa, ma è il buon Ben Verellen, con la sua voce potente e carica di trasporto ed emozione, a dimostrare più di tutti che il trascorrere degli anni non ha scalfito la capacità sua e di tutta la band di trasmettere angoscia e intensità.
La platea, affamata soprattutto dei pezzi ormai iconici di un album come “We Are The Romans”, accoglie con immenso entusiasmo ogni traccia proveniente da questo lavoro, il quale, dopo tutti questi anni, è finalmente compreso e giustamente celebrato per la sua influenza. Certo, non si assiste a chissà quale scena di violenza – la musica dei Botch resta pur sempre molto elaborata, se non persino astratta in certi casi – ma l’eccitazione e la foga da parte degli astanti sono palesi. In particolare, “C. Thomas Howell as the ‘Soul Man'” fa esplodere il pubblico in un turbine di emozioni, mentre la nervosissima “Saint Matthew Returns to the Womb” lascia tutti senza fiato con la sua fusione di potenza sonora e complessità strutturale.
La setlist, piena di classici amati dai fan e qualche perla più nascosta estratta dall’EP “An Anthology of Dead Ends”, è un viaggio frenetico ed emozionante attraverso la carriera dei Botch: ogni brano porta con sé ricordi e sentimenti di nostalgia per un’epoca passata, ma anche una rinnovata sensazione di gratitudine per poter vivere questo momento.
Si può a tutti gli effetti parlare di una celebrazione di un repertorio che, anche se magari in maniera subliminale, continua a definire e ispirare generazioni di appassionati di heavy metal e hardcore. Non si sa quanto Verellen e compagni ne siano consapevoli, perché il loro modo di porsi sul palco è estremamente concreto e umile, oltre al fatto che i Nostri hanno già abbondantemente messo le mani avanti, sostenendo che queste saranno le loro ultime apparizioni live da queste parti; in ogni caso, dal punto di vista del pubblico, quella di questa sera è un’esibizione trionfale, che dimostra come non mai quanto la musica dei Botch abbia le qualità per far sentire il proprio impatto ancora per molti anni a venire.