Report a cura di Josh De Mita
Foto di Annita Fanizza
Immaginate di essere il fondatore della band heavy metal più influente al mondo sulla cresta dell’onda da oltre quarant’anni, uno dei protagonisti più influenti del mondo delle quattro corde. Immaginate di girare in lungo e in largo per tutto il globo, toccare tutti i continenti, essere protagonista di tour estenuanti per mesi, concerti sold-out, folle oceaniche. Al rientro a casa avreste probabilmente voglia di rilassarvi e ricaricare le pile in vista del tour successivo, appagati dai successi del precedente. Se così fosse, non vi chiamereste Steve Harris. Nel 2012 il leone dell’East End londinese decide di formare la sua ‘side-band’ con la quale suonare in piccoli club e teatri, a margine dei tour con gli Iron Maiden, per pura passione verso la musica, riscoprire e riassaporare il piacere di un contatto più diretto con il pubblico e poter sperimentare un genere diverso dalla sua band principale. Ed è così che nascono i British Lion.
Nel cuore pulsante di uno dei quartieri più iconici di Londra, Camden Town, in un freddo e (a tratti) piovoso sabato di inizio dicembre decidiamo di andare ad ascoltare proprio loro, i British Lion, presso lo storico The Underworld.
Non c’è obbligo di green pass nel Regno Unito, è tutto a discrezione dell’organizzazione. In questo caso non verrà richiesto (come invece accade in altri locali), il locale ha adottato una politica di capienza ridotta al 80%, invito ad indossare la mascherina, sistemi di aerazione. L’apertura porte avviene puntuale alle 18,30, e ci apprestiamo a goderci la serata.
L’atmosfera è rilassata e piacevole, il pubblico è eterogeneo, con l’asticella rivolta più verso gli over 30-35. Non era prevista nessuna band di apertura, e invece a sorpresa, poche ore prima, è stato annunciato che gli AirForce avrebbero fatto da apripista. La band è composta da Chop Pitman alla chitarra, Tony Hatton al basso, Flavio Lino alla voce e Doug Sampson (ex membro degli Iron Maiden verso la fine degli anni ’70) alla batteria. Il quartetto scalda il pubblico presente con un power metal super classico, tipico di chi ha vissuto appieno la nascita della New Wave of British Heavy Metal: sonorità e riff in odore di Saxon e Maiden di metà anni ’80 (specialmente nei suoni di chitarra), supportati dalla voce potente del cantante portoghese. La band non ha nulla di pretenzioso o originale, ma tutto sommato il loro show è stato piacevole e divertente; come si dice nel Regno Unito, “they did the job”. Gli AirForce finiscono la loro performance ed i tecnici iniziano ad approntare il palco per gli headliner, con gli ultimi ritocchi alla batteria, un rapido monitor-check di tutti gli strumenti mentre l’atmosfera si fa sempre più calda e l’attesa cresce.
Parte un intro registrato, tra il lirico e l’epico (sulla falsa riga dell’inizio del concerto degli Iron Maiden a Rock in Rio 2001) i membri dei British Lion compaiono sul palco, ancora pochi secondi e si parte con “This Is My God” traccia di apertura del primo album omonimo dei British Lion. Il pezzo si struttura attorno a sonorità hard rock cadenzate, con un’alternanza tra strofe e ritornelli piuttosto classica, bridge in cui viene dato spazio agli assoli di basso, grazie ai quali possiamo apprezzare il caratteristico suono dal marchio di fabbrica profondo e ferroso. Si passa senza pause a “City of Fallen Angels”, brano di apertura del secondo album “The Burning”, a nostro avviso più maturo rispetto a quello di debutto. La band appare più coesa ed i brani prendono una direzione precisa; il pezzo in questione ha un andamento più rock (potremmo quasi dire ‘alternative’) con una classica ritmica tirata, se non fosse per l’intermezzo che si appoggia su una sonorità più cupa (ci ricorda molto alcune sonorità dall’album “A Matter of Life and Death” dei Maiden), in cui si percepisce molto bene lo zampino di Harris.
Simon Dawson alla batteria è solido e preciso, non si limita all’indispensabile, e mantiene il motore sempre sui giri giusti. Grahame Leslie, chitarra, anche lui solido, fa il suo dovere senza fronzoli, fornendo un suono robusto e adeguato al resto della formazione; risulta abbastanza elementare negli assoli, ma stavolta la scuola di pensiero “poche note ma buone” risulta particolarmente azzeccata. David Hawkins, altra chitarra, appare sicuramente più virtuoso del suo collega: ha un gran bel tocco, pulizia tecnica e precisione. Richard Taylor è un ottimo cantante, dal vivo riesce ad essere più incisivo ed espressivo che in studio. Ha dalla sua molti detrattori, probabilmente perché molte persone hanno una aspettativa distorta su di lui, magari prendendo come termine di paragone Bruce Dickinson, ma questo non ha senso per due semplici motivi: primo, Bruce è chiaramente di un altro livello. Secondo: questa è un’altra band e Richard calza a pennello in questa situazione.
Il concerto prosegue fluido nell’entusiasmo del pubblico tirato spesso in causa da Richard, come ad esempio in “Father Lucifer”, altro brano tendente all’ hard rock nel quale però Steve Harris si esibisce nella classica ‘cavalcata’ che lo ha reso celebre, così come in “The Burning”. Lo stesso cantante, presentando il brano “Spitfire” (a nostro avviso il più maideniano, forse proprio per un chiaro richiamo a “The Clansman”) racconta la breve storia di come lui sia cresciuto nei primi anni della sua vita a “poche fermate di metropolitana da qui” e pur avendo vissuto la maggior parte della sua vita in Suffolk “si senta sempre un po’ londinese”. Da menzionare “The Chosen Ones”, tratto dal primo album, nelle cui sonorità classic rock c’è più di qualche riferimento alle band preferite da Harris (UFO, Thin Lizzy); il brano porta con sé un messaggio dalla parte degli outsider della nostra società, siano essi emarginati o bullizzati: “We are the chosen ones of the night / So young to be left all alone in the fight / But you’ll never see us cry / ‘Cause we’re never going to die / And they’ll never break us down / ‘Cause we are the chosen ones”.
Da menzionare “Land of Perfect People”, un richiamo al rock arioso degli anni ’80, in stile Whitesnake dell’epoca, con un ritornello molto catchy. Tra “Bible Black”, “Lightning”, “Us Against The World” e “Last Chance” a seguire, il concerto si conclude con “World Without Heaven” e “Eyes Of The Young”, altro brano puramente rock, dalle sonorità aperte e briose. Abbiamo volutamente lasciato le ultime considerazioni al protagonista principale della serata: non facciamo mistero nel dire che più del 90% del pubblico presente era lì principalmente per lui, ma d’altro canto non capita tutti i giorni di poter essere a contatto così ravvicinato con una leggenda vivente. Steve Harris non si è risparmiato durante tutta la performance per un solo istante, camminando da una parte all’altra del palco (seppur piccolo), interagendo col pubblico, guardandolo dritto negli occhi, dando via anima, passione e sudore alla veneranda età dei suoi sessantacinque anni, come a dire “non fatelo per la gloria o i soldi, fatelo perché vi piace farlo”. Una lezione di vita, stile e musica.
Setlist:
This Is My God
City of Fallen Angels
Judas
Father Lucifer
The Burning
Lost Worlds
Spit Fire
The Chosen Ones
Land of the Perfect People
Legend
Bible Black
Lightning
Us Against the World
Last Chance
A World Without Heaven
Eyes of the Young