08/08/2018 - BRUTAL ASSAULT 2018 – 1° giorno @ Jaromer - Jaromer (Repubblica Ceca)

Pubblicato il 10/09/2018 da

Introduzione a cura di Chiara Franchi
Report a cura di Chiara Franchi, Giovanni Mascherpa e Simone Vavalà
Fotografie di Emanuela Giurano

Here we come again, Jaroměř. La redazione di Metalitalia.com non poteva resistere alla nuova chiamata del Brutal Assault, che anche per l’edizione 2018 offre al suo pubblico un bill appetitoso come pochi. Il trend del festival si spiega più facilmente indicando cosa non c’è: power, heavy, epic, arena metal. Parecchio estremo, quindi, ma  non mancano, come ogni anno, nomi interessantissimi del doom, dell’alternative, del folk, dell’elettronica, in un giusto equilibrio tra moniker blasonati e perle più o meno nascoste della scena.
Il Brutal Assault non è, però, solo ottima musica. La quattro giorni di Jaroměř si distingue infatti anche per l’organizzazione impeccabile, che garantisce divertimento in piena tranquillità (e senza code, grazie ai pagamenti cashless) tra cibo squisito, birra fresca, aree relax, mostre d’arte e bancarelle per lo shopping più vario, con gli ulteriori plus dello scenario – la suggestiva fortezza di Josefov – e di un prezzo praticamente imbattibile.
Rispetto all’anno scorso l’affluenza ci è sembrata leggermente più alta, ma l’atmosfera non è cambiata. Il caldo massacrante dei primi due giorni, fortunatamente mitigato da una pioggia notturna tra il 9 e il 10 agosto, non ha intaccato l’entusiasmo dei circa quindicimila presenti, che fino a tarda ora hanno popolato il parterre dei vari palchi, i cunicoli che attraversano le mura, i prati e, naturalmente, i bar. Grande successo anche per il warm up party dell’8 agosto, coronato da un carichissimo show degli inossidabili Suicidal Tendencies. E per chi non fosse stanco dopo oltre cinquanta ore di musica, la sera del 12 la festa continua a Praga con l’afterparty, che vede in scena Nocturnus, Misþyrming, Full Of Hell, Eskhaton e Anomalie.
Ci sarebbe moltissimo altro da raccontare sull’esperienza Brutal Assault: quella fauna umana che si vede solo ai festival, la fauna non umana che si è vista a questo festival in particolare (pecore), il pittoresco campeggio lungo la sterrata che porta alla fortezza, la surreale nuova area a metà tra il cantiere aperto e l’esibizione di scultura contemporanea. Ma ci siamo già dilungati anche troppo. Largo alla musica, quindi.
Buona lettura!

 

OBSCURE SPHINX (set Jagermeister Stage)
Inauguriamo il nostro primo, canicolare pomeriggio al Brutal Assault con l’esibizione degli Obscure Sphinx, promettente formazione doom-sludge capitanata dalla magnetica Zofia ‘Wielebna’ Fras. La band ci dà il benvenuto col suo sound nebbioso e viscerale che, strizzando l’occhio all’elettronica e all’ambient, si conferma come una proposta interessante per chi ama le declinazioni più contemporanee del genere. Come Caro Tanghe, Fras è a nostro parere una presenza femminile in grado di fare veramente la differenza: non solo per la sua bellezza e bravura, ma anche per la sua capacità di comunicare col suo screaming un sentire più estrogenino che testosteronico, riuscendo a sposare efficacemente grazia e aggressività. Il set riassume in tre torrenziali brani (uno per ogni full length) l’intera discografia della band. Un buon concerto, ma ancora più interessante è stato, a nostro avviso, il secondo set dei polacchi, dal taglio completamente diverso, del quale parleremo in seguito.
(Chiara Franchi)

ARMORED SAINT
Il Sole persiste nel picchiare implacabile sulle nostre teste, quando sullo Jagermeister Stage sventola la bandiera del Santo per antonomasia. Prima apparizione su suolo ceco per la banda di John Bush, una delle pochissime compagini in orbita metal classico dell’intero festival. Ci si stringe attorno al palco per mettersi all’ombra e sfuggire in parte alla calura, mentre gli Armored Saint si installano sul loro luogo di lavoro preferito. “March Of The Saint” risente di volumi non ottimali e di un Bush non ancora al massimo della potenza, ma le possibilità che ci si trovi di fronte ad un concerto solo ‘standard’ scendono a zero già con l’attacco fulminante di “Long Before I Die”. Sarà il sangue latino di buona parte della line-up, la genuina simpatia che i cinque diffondono, la gioia di suonare assieme fottendosene di qualsiasi cosa non abbia a che fare con la musica, ma i losangelini danno sempre l’idea di divertirsi un mondo e di plasmare note e ritmi a completo piacimento. Con queste premesse, non possono che uscirsene con uno show da ricordare. Di prassi, per loro. All’altezza di “Chemical Euphoria” il pit è in subbuglio, Bush ormai è a regime e non si fa premure nell’avvicinarsi alle prime file, addirittura salendo in spalla a un ragazzo della security, facendosi trasportare a ridosso delle transenne a stringere mani adoranti. Vista la particolare occasione, il gruppo propone democraticamente un pezzo da ogni album, in rigoroso ordine cronologico. Le trame nervose di “Reign Of Fire” accentuano l’ebollizione nell’aria; “Left Hook From Right Field” assesta colpi da KO come il video che l’aveva presentata ai tempi dell’uscita di “La Raza”; “Win Hands Down” ricorda quanto possa essere inebriante, fresco, glorioso l’heavy metal suonato ai giorni nostri, con una carica che nulla ha di vintage. Finiti gli album, per chiudere si ritorna al principio, con quel pizzico di rock’n’roll iniettato in “Can U Deliver”, midtempo su cui Bush può slanciare una voce che, a cinquantacinque anni suonati, non ha per ora intenzione di abbandonarlo. Adesso, conto alla rovescia per novembre e lo show dedicato a “Symbol Of Salvation”.
(Giovanni Mascherpa)

777 BABALON
Scelta lungimirante degli organizzatori, non solo da quest’anno, è quella di avere un palco al chiuso, il K.A.L., con posti a sedere – divani e poltrone prese da sottoscala abbandonati e rigattieri, e la cosa ci piace – dedicato a sonorità sperimentali, industrial, noise, ambient, elettronica, che possa fungere da camera di decompressione rispetto al diluvio che avviene sugli altri stage, e come occasione per conoscere e comprendere suoni che lambiscono e influenzano molto del metal estremo odierno. Accanto a un interessante manipolo di smanettoni, impegnati a girare manopole su strani marchingegni produttori di suoni disturbanti e alienanti, c’è anche chi utilizza strumentistica più tradizionale, deragliando bellamente fra astrattismo e ignobile nichilismo. I 777 Babalon, incappucciati e in una line-up ‘classica’ – chitarra, basso, batteria e voce – se ne escono con una prestazione fra le più difficili da ‘consumare’, mettendosi nei primi minuti a sfidare i Sunn O))), mandando in loop rumori urticanti, litanie drone corpose e grevi, che sanno spossare a sufficienza grazie a un peculiare miscuglio di tedio e ricercatezza. Quando ci si è abituati all’andamento lascivamente doom-noise, ecco partire una selvaggia e lunghissima scarica black metal, inondata di feedback e sporcizia in arrivo da ogni dove. Un coacervo di grida e sfregi chitarristici che prende tanto dalla destrutturazione della scena transalpina, quanto dal taglio hardcore sfrenato dell’Inghilterra da cui provengono (stile Dragged Into Sunlight-Anaal Nathrakh). Finito questo secondo, agghiacciante, spezzone, si ripiomba nell’agonia. Scompaiono le partiture strettamente metal, gli strumenti gemono di crespe ondulazioni nel nulla, un incespicare tetro che fa ripiombare nuovamente in territori vaghi, ombrosi; brulle lande di dolore, un commiato tremendo, che lascia una pressante voglia di sapere di più di questa misteriosa, bastarda entità.
(Giovanni Mascherpa)

THE BLACK DAHLIA MURDER
Per i ritardatari tra noi il Brutal Assault inizia solamente con la band americana, e bisogna ammettere che, come sempre, dal vivo sanno donare la giusta dose di adrenalina per far partire alla grande una lunga kermesse. Trevor Strnad si conferma un frontman d’eccezione, perfettamente supportato dai compagni di viaggio: storici o meno che siano, visti i continui rimpiazzi a cui la band è stata soggetta, va detto che nulla cambia nell’impatto complessivo. Così come la scelta di concentrare la proposta di questa sera sul recente e ottimo “Nightbringers” non trova certo la nostra contrarietà; c’è comunque spazio anche per momenti più nostalgici, con “Contagion” in grande spolvero dal primo album e la title-track del seguente “Miasma” a trascinare il pubblico in un discreto moshpit. La sensazione è che i The Black Dahlia Murder siano ormai, a tutti gli effetti, la band che se non ha propriamente soppiantato gli At The Gates come riferimento in ambito death melodico, sicuramente rappresenta la perfetta risposta a stelle e strisce a Tompa & Co., e non a caso occupano uno slot di tutto rispetto nel bill del festival.
(Simone Vavalà)

 

SHANTIDAS
Torniamo volentieri al K.A.L. e questa volta no, di metal e affini non si parla per nulla. Shantidas è un solo uomo, più precisamente il chitarrista di quei discreti squinternati degli Aluk Todolo. Si presenta dietro una larga tavola riccamente imbandita, due giradischi alle estremità, aventi sulla sommità luci roteanti, nel mezzo un intrico di fili e congegni utili a regalare suoni non convenzionali. Elettronica, ambient, una singolare rivisitazione di sonorità dark, si scagliano sull’uditorio, invero abbastanza appisolato in molti suoi elementi. La creazione di rumore bianco per il semplice gusto di creare sconcerto, sbigottimento, sorpresa sembrano essere la linea guida dell’operato di Shantidas, che alterna martellamenti groovy a strazianti pulsioni sperimentali, dando l’idea di rifuggire schemi ordinati e strutture anche solo vagamente comprensibili. I movimenti dei fari alle spalle, assieme alle giravolte di quelli sopra i giradischi, sono parte integrante e fondamentale del concerto, che ha i suoi momenti più coloriti negli attentati a colpi di coltello compiuti contro gli inermi vinili. Fendenti assestati come se si stesse compiendo chissà quale rito di purificazione, con il potere di sprigionare suoni ancora più dolorosi di quelli già sorbiti. Non pago di aver dilaniato gli oggetti vinilici, ecco che sui giradischi vengono gettati oggetti a ripetizione. Si diffonde una cascata di suoni secchi dal sapore industriale, inteso come quelli di una fabbrica in piena attività, un contesto deumanizzato evocato con efficacia, seppure disordinatamente, dal musicista transalpino. Alcuni momenti convincono, altri sembrano dispersivi, probabilmente su disco faticheremmo ad arrivare in fondo all’ascolto. Dal vivo la performance ha un suo disgustoso potere ammaliante, pertanto rimaniamo in osservazione fino al termine, pur ammettendo di aver capito solo in minima parte quanto Shantidas volesse comunicare.
(Giovanni Mascherpa)

HELMET
Nemmeno il tempo di rifiatare, bensì solo quello di spostarci di poche decine di metri al secondo palco principale, ed ecco che tocca a Page Hamilton e ai suoi turnisti; purtroppo, per l’ennesima volta negli ultimi anni, si conferma infatti la sensazione di una band completamente slegata, dove tutti fanno il loro mestiere con dignità, ma il ruolo di padre-padrone non basta più al quasi atono Page per sopperire alle evidenti mancanze. In primis creative: nonostante il concerto sia mediamente sotto tono, infatti, quando partono classici dei tempi d’oro (in primis “Unsung”, bruciata dopo appena un paio di pezzi), la differenza potenziale si sente eccome; purtroppo, esclusi cinque brani complessivi da “Meantime” e “Betty”, gli Helmet ci sciorinano con convinzione tantissimi estratti dal loro nuovo corso, dove gli stop’n’go sono diventati puro e noioso mestiere – e come detto non avere nemmeno più un’ugola di carta vetrata a disposizione rende ancora più molle il risultato complessivo. Da rivedere? Forse nemmeno più, ahimè.
(Simone Vavalà)

 

CANNIBAL CORPSE
Descrivere un concerto dei Cannibal Corpse è ormai quasi superfluo; nell’attesa della salita sul palco della band la sensazione è analoga a quella che si prova nel guardare un gran premio di Formula 1 con una scuderia perfetta dal punto di vista meccanico e dei piloti, in cui solo un incidente può cambiare il risultato finale… che invece giunge scontato e perfetto. Non ci sono sbavature di sorta, e infatti il pubblico assiste ammaliato all’esibizione dei cinque di Buffalo; la sezione ritmica di Webster e Mazurkiewicz (che suona questa sera a piedi nudi, per inciso) è come sempre una gloriosa macchina da guerra, su cui si innestano meravigliosamente i riff al fulmicotone di O’Brien e Barrett – quest’ultimo con un’inedita bandana che gli dona un look da hippie anni Settanta. La scaletta tocca pressoché ogni lavoro, compresa una commovente (si fa per dire) “Skull Full Of Maggots”, dedicata per l’occasione al compianto Brett Hoffmann dei Malevolent Creation. Altri momenti clou vengono offerti su “I Cum Blood”, prima della quale George Fisher lancia un contest di headbanging di cui si dichiara giustamente vincitore dopo un minuto di rotazione a velocità forsennata del suo collo taurino, e su “Stripped, Raped And Strangled”, che vede l’ospitata di Trevor Strnad alla voce. Gran finale quasi di ordinanza affidato a “Hammer Smashed Face” e potremmo quasi chiudere qui la serata, anche se di band succulente ne mancano ancora diverse.
(Simone Vavalà)

GOJIRA
Flawless, as usual. Fine del report.
Scherzi a parte, c’è davvero poco da dire sul concerto dei Gojira, che ormai si collocano di prepotenza tra i migliori act in circolazione. Davanti ad una delle platee più affollate di tutto il festival, la combo francese ha riconfermato la propria indiscussa superiorità tecnica e, soprattutto, la capacità di emozionare che la contraddistingue. La band è ormai giunta al termine del ciclo di “Magma”, uscito nel 2016, e per le ultime date si sta presentando con uno show spettacolare, corredato di pyro, nuovi visual e balene gonfiabili che hanno entusiasmato come bambini gli spettatori delle prime file. Rispetto alle altre calate europee di questo tour, i Gojira hanno proposto una scaletta leggermente diversa, nella quale ha trovato spazio qualche chicca per i fan della prima ora (come “Love”). Unico, piccolo neo resta la voce di Joe Duplantier, anche in questa sede un po’ affaticata. Che ci sia da aspettarsi più cantato pulito nel prossimo album?
(Chiara Franchi)

 

PARADISE LOST
‘Are you happy?’, chiede Nick Holmes dal Metalshop Stage, non senza una punta di black humor. Difficile rispondere, perché sì, siamo felici di vedere in azione i Paradise Lost, ma certo non si può dire che i loro pezzi siano un manifesto della joie de vivre. I Nostri si esibiscono in un mare di luce viola, colore che oltre ad addirsi particolarmente bene al loro mood fa pendant con l’artwork di “Medusa”, loro ultima prova sulla lunga distanza. “Medusa” non è tuttavia il piatto forte della setlist di stasera, che ripercorre in maniera abbastanza omogenea quasi tutta la carriera dei pionieri britannici del gothic doom: una scaletta piacevole, sicuramente gradita ai vecchi fan ma ottima anche per avvicinare al lavoro della band chi non lo conosce. Speriamo comunque che chi sentiva stasera i PL per la prima volta abbia deciso di mettere su un disco una volta a casa, non tanto per le stonature di Holmes (che, per intenderci, si contavano sulle dita di due, anche tre mani), quanto perché il sound piatto e poco dinamico non ha reso piena giustizia all’intensità del songwriting – citiamo solo la conclusiva “Say Just Words”, in cui l’effetto ‘karaoke’ ha probabilmente toccato uno dei suoi picchi. Una performance senza infamia e senza lode, ma che nel complesso, nonostante sia l’una di notte e il peso di una giornata torrida si faccia sentire, trascorre veloce.
(Chiara Franchi)

 

LVMEN
In concomitanza a Cannibal Corpse ed Evergreen Terrace, chi si andrebbe ad appollaiare vicino all’Oriental per incontrare i misconosciuti post-corer cechi Lvmen? La domanda ha per risposta un’assai ampia levata di mani in quel di Josefov. Con oltre vent’anni di carriera alle spalle, il collettivo di Praga pare avere una sua rilevanza nell’underground locale, altrimenti non si spiegherebbe il congruo pubblico che arriva ad assistere a questa speciale esibizione. La band va infatti a suonare dall’inizio alla fine l’ultimo album “Mitgefangen Mitgehangen”, uscito nel 2017. I musicisti si sono preparati con cura, allestendo un’esperienza uditiva e visuale di sicuro impatto, guardando a un modo di proporsi e raccontarsi tipico di entità come i Neurosis o gli Ufomammut: ciò che viene suonato e i filmati sullo sfondo si completano e si stimolano nel fornire molteplici chiavi di lettura emotive e sensoriali, creando un flusso immaginifico variegato e non banale. Gli obbligatori richiami al post-metal scattante e ispido dei The Ocean dei primi anni di carriera si stria di post-rock e ripescaggi di suono hardcore evoluto novantiano. Di lì a poco suoneranno gli Helmet e curiosamente l’asciuttezza livida di molti riff e la schietta bastardaggine dei ritmi riporta a quel modo di veicolare rabbia e disagio, almeno quando l’indole punk prende il sopravvento e la concitazione impazza. La presenza delle tastiere tradisce comunque le velleità atmosferiche dei Lvmen, che prendono forza e convinzione dalle loro stesse composizioni, contorte e drammatiche, che sembrano acquistare vigore e significato proprio per il modo in cui si susseguono l’una all’altra. Una torbida negatività si fa strada, il messaggio non è chiarissimo, alla band non piace aprirsi completamente, preferisce lasciare molte cose non dette e perdersi in uno strisciante labirintismo: l’esecuzione precisa e appassionata sa di gruppo di valore, spigoloso e di ardua lettura, sicuramente non privo di fascino e idee inusuali. Un bella scoperta.

(Giovanni Mascherpa)

TORMENTOR
È una sorpresa a dir poco gradita questa esibizione della mitica band con cui fece il suo esordio Attila, al punto da guadagnarsi (come noto) l’ammirazione e la convocazione di Euronymous per cantare sull’album di esordio dei Mayhem. Una sorpresa sotto diversi punti di vista, sia perché parliamo di una band che non si esibiva assieme dalla fine degli anni Novanta, sia perché erano molti i timori su come il vero fascino dei Tormentor potesse risiedere sulla sola patina del tempo. Bastano invece pochi minuti per spazzare via ogni dubbio; introdotti dall’evocativa “Ave Satani” (colonna sonora de Il Presagio) i cinque membri storici – più una sfortunata ragazza alle tastiere, che pare destinata a dare giusto un po’ di atmosfera e a essere sacrificata a Satana a fine concerto – si mostrano subito affiatati e in forma strepitosa. Lasciato fortunatamente alle spalle l’infelice “Recipe Ferrum!”, la loro lunga esibizione si basa sui due storici demo rilasciati a fine anni Ottanta, ossia “The 7th Day Of The Doom” e “Anno Domini”, che vengono riproposti pressoché integralmente. Scopriamo che gli accenti latini non sono il forte di Attila, che sottolinea più volte il nome della band e del secondo demo come Tormentòr e Anno Domìni, ma sottolineiamo questa facezia giusto per citare una qualsivoglia sbavatura: pezzi come le due “Tormentor”, “Elisabeth Bathory” o “Trance” confermano dal vivo di essere stati assolutamente proto-black metal, se non forse brani assolutamente riconoscibili come tra i primi, veri parti del genere; sono giusto gli assoli dal gusto thrash a lasciare ancora in un meraviglioso limbo la classificazione. E, su tutto, spicca la solita eccelsa malignità di Attila: addosso a lui il mantello con cui si presenta appare tutt’altro come ridicolo, le due enormi croci rovesciate che alterna al collo nel corso del concerto evocano cimiteri e tombe scoperchiate, e come sempre gli bastano poche espressioni facciali per trascinarci all’Inferno. Come se non bastasse, la libertà concessa dal fatto di essere qui con la ‘sua’ band (rispetto ai succitati Mayhem o ai Sunn O))) ) gli permette anche una varietà espressiva mai scontata e mai sopra le linee, dalla teatralità maligna ma strepitosa. Ci avviamo così soddisfatti verso casa, convinti (e non verremo smentiti troppo) di aver già assistito a uno degli highlight dell’intero festival.
(Simone Vavalà)

 

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