Report a cura di Claudio Giuliani
Piano piano, edizione dopo edizione, il Brutal Assault festival sta scalando posizioni nella classifica dei migliori festival europei. Quest’anno si svolgeva la dodicesima edizione della manifestazione e il bill era assolutamente di primo piano. Se dal punto di vista organizzativo non riesce a essere competitivo con i più grandi e blasonati festival tedeschi, ecco che se si dà uno sguardo dal tabellone dei gruppi musicali viene veramente voglia di parteciparvi. Quest’anno il festival ha cambiato location traslocando in un piccolo paese, Jaromer, situato a 130 km a nord di Praga in una vecchia fortezza militare abbandonata circondata da un ruscello e da qualche prato. Sono stati circa diecimila i fan a popolare la zona e a distruggersi sistematicamente ogni sera, complice anche il prezzo della birra, veramente popolare (una 0,50 era venduta a 1 euro). Stand alimentari e negozi di dischi e magliette hanno fatto da contorno ai due palchi dove si sono alternate oltre 70 band dalla mattina presto fino a tarda notte. Detto dell’organizzazione che poteva (e doveva) essere migliore (bagni solo chimici, poca acqua per lavarsi e docce praticamente inesistenti), il festival dal punto di vista musicale è stato un successo. Il bill era incentrato prettamente sul death metal, è così che le esibizioni di Suffocation, Malevolent Creation, Dismember e Dying Fetus sono state fra le migliori, così come anche quella dei Satyricon e dei Soulfly (quando facevano pezzi non propri). Ottima anche la possibilità di vedere band grindcore all’opera (grandi gli Heamorrhage e i Leng Tch’e), a completare la varietà dell’offerta anche qualche band black metal (Gorgoroth e DHG), thrash (grandiosi gli Onslaught) e hardcore (i Madball che hanno fatto muovere praticamente tutti).
LENG TCH’E
I belgi hanno dato inizio alle danze del brutal death metal. Si sono esibiti nella prima giornata del festival, dominata dal death metal a velocità folli. Il loro grindcore, mutato a dire il vero in un death metal di stampo brutale da quando è uscito “Marasmus”, ultima fatica della band, ha avuto un ottimo impatto sull’audience. Canzoni come “Lucid Denial”, oppure “The Fist Of Leng Tche” sono state devastanti. Da “Marasmus” album uscito quest’anno, sono state estratte anche “1-800-apathy” e “Obsession defined”. La band belga è una delle migliori nel campo death grind, e dal vivo conferma senza alcun dubbio le grandi capacità ascoltabili sui suoi album. “White Noise”, sempre estratta da Marasmus, ha dimostrato come oltre a suonare veloci i belgi sono capaci anche di rallentare (a tratti) rimanendo sempre pesanti. Della formazione ha colpito il batterista della band, un autentico “moccioso”, capace di picchiare però come un forsennato. La pioggia non ha demoralizzato i fan che sono usciti dalle tende per assistere al concerto fregandosene della poltiglia di fango di cui era composto il pit. Gran concerto.
ABORTED
Gli Aborted si possono considerare i cugini maggiori dei Leng Tch’e. Di certo anche se recentemente hanno subito dei cambi di lineup importanti, la loro prestazione in sede live è stata impeccabile. Nulla da dire infatti sui 40 minuti di death metal brutale che sfiora il grindcore proposto dai belgi. La scaletta è stata varia e anche i pezzi eseguiti dal nuovo album hanno goduto di ottima resa, anche se pezzi come “The Dead Wreckoning” e “The saw & the carnage done” hanno chiaramente una marcia in più. Anche loro avevano un batterista praticamente bambino dietro le pelli. Anche questo picchiava forte. Belgiolandia, terra di batteristi?
BELPHEGOR
Ad una certa età è difficile farsi impressionare da pentacoli, croci rovesciate e sangue finto. I Belphegor, che pure in passato hanno fatto qualcosa di discreto dal punto di vista musicale, hanno fornito una prestazione abbastanza ridicola. I suoni innanzitutto non erano buoni. E quindi se in studio il loro black metal brutale è abbastanza possente e cattivo, dal vivo, complice la luce del sole che “rovina” l’atmosfera a qualsiasi band black metal, è stato sciatto. In passato dal vivo avevano fornito prove migliori (testimone chi scrive), al Brutal Assault hanno fatto veramente pena.
DISMEMBER
Quando si dice la classe non è acqua. Se i roadies mentre preparano il palco appendono drappi di Motorhead, Judas Priest e Iron Maiden, sulle casse del palco già capisci che suonerà una band seria. Gli svedesi, orfani dello storico drummer Fred Estby, hanno suonato come al solito divertendosi sul palco, divertendo così i fan che li hanno acclamati durante tutta la loro esibizione. Decisamente perfetti, sia nelle canzoni storiche “Skin Her Alive”, “Casket Garden”, sia nelle ultime dove ci sono chiare influenze maideniane. Grande prova della band e 45 minuti di concerto volati via in fretta.
SUFFOCATION
Hanno spaccato. Che altro ci sarebbe da dire? Che la band americana è tornata a calcare i palchi di mezzo mondo perché necessitava di soldi? E chi se ne importa? Di certo il quintetto è tornato a deliziarci, come poche altre band al mondo, con il suo brutal death metal super tecnico, che dal vivo gode di suoni mostruosi e con delle canzoni assolutamente pietre miliari del genere. La scaletta è stata pressochè perfetta, includendo tutti i classici della band. Una dopo l’altre, con la stessa, perfetta perizia tecnica, sono state eseguite “Infecting the Crypts”, “Despise The Sun”, “Breeding The Spawn”, le vecchie “Pierced From Within”, “Effigy Of The Forgotten” e le più recenti “Soul To Deny” e l e velocissime “Abomination Reborn” e “Blind Torture Kill” tratte dall’ultimo, omonimo album. Impressionante la potenza scatenata dalla band che non ha sbagliato una singola nota. Assolutamente compatti, affiatati, precisi, taglienti e potenti. Questi sono i Suffocation dal vivo. Un ora di death metal brutale di altissima qualità con il bridge finale di “Lieve of inveracity” che assurge a punto più alto del concerto, non c’era testa che non facesse su e giù. Mostruosi e perfetti, nient’altro da dire.
DARK TRANQUILLITY
Esibizione controversa per la band svedese che oramai non spiccherà più il salto di qualità effettuato dai “cugini” In Flames. Qualcosa è andato storto. Il cantante non ha più la voce di una volta, le scusanti ci sono (l’operazione subita) ma di certo la band non è la stessa di prima. Meglio nei pezzi nuovi, (“Terminus”, “Blind At Heart”, “The Lesser Faith” e “Nothing To No One” ) che nei pezzi vecchi, fra l’altro pochissimi. Dispiace dire che “Punish My Heaven”, una fra le canzoni più belle scritte dalla band, è stata praticamente storpiata. Scaletta incentrata sugli ultimi album, l’assenza di alcuni pezzi storici (“Of Chaos And Eternal Night” e “Lethe”) grida vendetta. Mediocri.
DHG
Folli. I norvegesi si sono distinti dal resto del bill per la particolarità della loro proposta. Alcuni problemi tecnici hanno costretto la band a ridurre la durata dello show che comunque è stato un concentrato di canzoni folli, sparate ad alta velocità e con i consueti campionamenti. La band è salita sul palco con il consueto look assurdo e improbabile, ma sicuramente originale. Arroganti e saccenti, i norvegesi hanno iniziato subito a macinare note su note sempre a tutta velocità salvo qualche episodio. Dall’album di ritorno, “Supervillain Outcast”, sono state eseguite la velocissima “Vendetta Assassin”, la lenta ma claustrofobica “Apokalypticism”, “The Snuff Dreams Are Made Of” che ha visto il singer impegnato in un coro dalla voce pulita nel finale della canzone e anche “Foe X Foe”, song lenta ma dotata di un buon ritmo. C’è stato spazio per l’esecuzione di qualche song dal periodo black metal puro della band mentre dall’ottimo album “666 International” non è stata estratta neanche una canzone. Peccato perchè alcune di esse (chi ha detto “Ion Storm”?) avrebbero meritato l’esecuzione. Comunque, apocalittici.
CATARACT
Gli svizzeri hanno dimostrato di valere molto di più dal vivo che in studio. Nei loro 40 minuti a loro disposizione infatti hanno scosso i fan che hanno gradito il thrash metal con influenze metalcore dei nostri. Hanno suonano nel primo pomeriggio e hanno coinvolto il pubblico che ha assistito al loro concerto dapprima in maniera incuriosità e poi successivamente in maniera coinvolta visto che la musica della band piaceva eccome. Tra i pezzi meglio riusciti sicuramente quelli estratti dai due ultimi album della band, “Denial Of Life” da “Kingdom”, pezzo con un refrain centrale lento ma pesantissimo e “Nothing Left”, song molto cadenzata all’inizio ma che poi gode di break molto veloci. Gran concerto per una band migliorata tanto nel corso degli anni.
MALEVOLENT CREATION
Una delle migliori band del festival. Un’esibizione lanciata a velocità folli, con una scaletta incentrata sui pezzi vecchi della band, pezzi che hanno fatto la storia del death metal. La band a stelle e strisce è uscita quest’anno sul mercato con un nuovo album, edito da poco. L’occasione è stata ghiotta per presentare in anteprima “Deliver My Enemy”, canzone che diverrà uno dei classici della band, dotata com’è di un alternanza di ritmi davvero devastante. Il ritorno di Brett Hoffman, risolti i suoi guai con la giustizia americana, restituisce una delle migliori voci death metal americane alla sezione ritmica di una band che non ha commesso grossi passi falsi in carriera. Un concerto davvero vibrante e senza attimi di melodia alcuna. Chiusura con il classico della band: “Malevolent Creation”. Devastanti.
MADBALL
Cosa ci fa una band hardcore in un bill così brutale come quello del festival? Che domande: fanno saltellare i fan! Gli americani, presentatisi al grido di “there’s no death metal, black metal, heavy metal, punk metal, hardcore metal, we are all of the same family”, sono stati autori di un concerto molto coinvolgente nonostante la proposta musicale della band si discostasse pesantemente dal resto delle band che componevano il bill. Il pubblico inizialmente timido, di è scaldato man mano che i newyorkesi proponevano il loro hardcore. Il groove delle loro composizioni (si pensi a “Revolt”) ha avuto un buon impatto al pari dei brani più veloci (come “No Escape”). Salutati con un ovazione, la band (che il prossimo anno festeggia i vent’anni di attività) ha offerto un buon momento di stacco in vista del resto delle band della giornata, tutte di stampo brutale.
PAIN
Accolti con molte aspettative, i Pain del leader degli Hypocrisy Peter Tagtgren hanno consentito alla folla del Brutal Assault di ascoltare un po’ di melodie, a dispetto della brutalità musicali, prassi consolidata in un festival che si chiama appunto Brutal Assault. Nota negativa del concerto: lo svedese è parso senza voce. Di sicuro è parso molto migliore nello screaming (veramente efficace che ha fatto tornare a tutti la voglia di Hypocrisy) piuttosto che nelle parti pulite. Se in studio il risultato è ottimo, dal vivo non si può barare.Dall’ultimo album, “Psalm Of Extinction” sono state eseguite fra le altre “Zombie Slam” e “Nailed To The Ground”.
SOULFLY
Tutta la folla si è radunata sotto al palco A, che stava per Acride, per vedere all’opera Max Cavalera, leader dei brasiliani che sono stati gli headliner dell’intero festival. Che dire. Le canzoni dei Soulfly le conosciamo tutti, canzonette, sufficienti a farti ballare un po’. Poi ascolti le note di “Roots Bloody Roots” e la gente va in visibilio. Poi ascolti Cavalera alle prese con “Refuse/Resist”, sempre dei Sepultura, e la gente si scatena come mai prima. Successivamente riconosci “Wasting Away” dei Nailbom e ti accorgi che la canzone spacca, e se poi chiudi con “Inner Self” (a parere di chi scrive il momento più alto del festival) fra la folla in estasi, allora forse hai capito che i Soulfly non hanno ragione di esistere. Tifiamo tutti reunion.
HAEMORRHAGE
Fantastici. Gli spagnoli, veterani del grindcore più sporco e malsano, sono stati autori di un gran concerto, perfetto sotto ogni punto di vista. Innanzitutto il look: il cantante era completamente insanguinato mentre il chitarrista era vestito da medico con tanto di mascherina e camice, rigorosamente verde. Musicalmente hanno fornito una prova all’insegna del grindcore marcio, con suoni veramente low-fi e tempi molto sparati. Il cantante poi è stato fantastico. Dotato di un inglese a dir poco maccheronico in sede di presentazione delle canzoni (praticamente come quello di un bimbo alle elementari), diventava devastante quando alla sua vocina tenera si sostituiva un growl veramente profondo e ignorante. Tante le canzoni eseguite, la scaletta si è addirittura allungata poichè nel palco affianco non erano pronti. Ecco quindi che fra le canzoni non previste in scaletta è saltata fuori una “I’m A Pathologist” che col suo minuto o poco più di grindcore è risultata il pezzo migliore del concerto.
SAYYADINA
La band è famosa per annoverare alla sei corde l’ex chitarrista dei Nasum. Con queste premesse, e sparsasi la voce fra la folla, si capisce perchè c’è molta gente pronta ad ascoltare la band svedese nonostante sia ancora ora di pranzo, il caldo sia abbastanza pesante e molta gente è ancora intontita dall’alcol della sera precedente e giace simil morente nelle tende. Il concerto ha inizio e bastano poche note della band per capire che si è fatta la scelta giusta a stare lì. Mezz’ora o poco più di grindcore sparato a velocità folli per la band svedese, un terzetto che tiene il palco alla grande con grande cattiveria. Il batterista (con un drumkit molto scarno) è monomarcia, conosce una sola velocità: a mille. I due cantanti (uno chitarrista, l’altro bassista) si alternano alla voce con due tonalità differenti ma sempre su tempi folli e velocissimi. Fra le canzoni migliori assolutamente da segnalare “Redefined”, 30 secondi o poco più di grindcore sparato a mille ma anche “Stolen Identity”, prima traccia estratta dal loro ultimo album, “Morning The Unknown” uscito quest’anno. Se vi capita dategli una chance, non vi deluderanno.
DIE APOKALYPTISCHEN REITER
Folcloristici. Autori di un ottimo spettacolo, i tedeschi hanno ammaliato i presenti con delle trovate davvero fuori dall’ordinario. Come non definire così il fatto di aver scelto dei fan (dopo aver messo una fan in gabbia insieme al tastierista) per farli lanciare dal palco sopra due gommoni per fargli fare crowd surfing fino al mixer. Viaggio di andata e ritorno che, per la cronaca, non è andato alla grande. Musicalmente niente da dire, tanta melodia e tanta poesia nelle canzoni dei tedeschi. “Riders On The Storm” è stata una delle canzoni più belle della loro scaletta che alternava pezzi melodici e molto “romantici” a pezzi più brutali. Il frontman si trovava a proprio agio in tutti i pezzi, ed è stato autore della classica prova molto teatrale. Molto bella anche “Friede Sei Mit Dir”, ma anche “Reitermaniacs”, pezzo veramente bello dal vivo estratto da “Samurai” (al pari di “Eruption”) e “We Will Never Die”. Questi tedeschi ci mettono veramente il cuore dal vivo, e hanno quindi strameritato le ovazioni dei fan. Grandiosi.
KEEP OF KALESSIN
La band ha vissuto il suo momento di gloria l’anno scorso dopo il ritorno con il buon album “Armada”. La loro prova al festival è stata incentrata prevalentemente su questo album. Infatti oltre a “Crown Of Rings”, pezzo migliore di “Armada” diventato un classico delle loro prove dal vivo, sono state estratte dall’album del 2006 anche la titletrack “Armada”, e “The Black Uncharted”. Molto bella anche “Reclaim” dall’album precedente. Di certo le loro canzoni dopo un po’ stufano, troppo lunghe e ripetitive. La band ha perso quell’alone mistico che aveva nei primi due album, virando verso lidi melodici e quindi più commerciali. Se molti erano al bar a bere birra invece che sotto al palco non c’era da averne meraviglia.
IMMOLATION
E’ oramai calata l’oscurità, è il terzo giorno di festival e mancano poche band prima della conclusione. Il finale è da spellarsi le mani. A iniziare le ultime ore del Brutal Assault sono gli americani Immolation, un pezzo di storia del death metal brutale americano. L’occasione è buona per assaporare dal vivo le tracce estratte da “Shadows In The Light”, loro nuova fatica uscita da pochi mesi. Proprio da quest’ultimo vengono eseguite fra le altre “Hate’s Plague” e “World Agony”. La resa è assolutamente ineccepibile. I suoni cupi della band sono spettacolari e consentono di apprezzare le dissonanze presenti nei loro pezzi. Non mancano i pezzi estratti sia da “Harnessing Ruin” (“Swarm Of Terror” letteralmente strappa applausi) e da “Unholy Cult” (l’omonima canzone che è uno dei pezzi più belli della loro discografia). La tecnica sopraffina dei musicisti (un plauso speciale al batterista di cui si parla sempre poco), che è presente in una lineup ineccepibile, sposata con una qualità eccelsa delle canzoni si produce in un concerto veramente spettacolare. Come potrebbe essere diversamente?
VADER
Una band che nel corso degli anni è migliorata tantissimo. Un gruppoche ha sempre lavorato alacremente, album dopo album, girando il mondopraticamente da sempre quando ancora era difficile negli anni d’oro deldeath metal vivere di sola musica, e che ora quindi raccoglie imeritati frutti. Peter, leader della band, si è ingraziato il pubblicoessendo stato l’unico (eccezion fatta per le band locali) a scaldare laplatea parlando la lingua madre. Dopo un intro lunga e orchestrale (chea dire il vero c’entra poco e niente con il death metal dei nostri) ipolacchi hanno giocato praticamente in casa e quindi, galvanizzati,sono partiti subito all’attacco con “Shadowsfear”, song d’apertura delloro ultimo album, “Impression In Blood”. Song velocissima e piena diassoli che vengono equamente divisi fra Peter e Mauser, colonne dellaband. Dallo stesso album viene proposta anche “Helleluyah!!! (God IsDead)”, assolutamente devastante. La loro discografia è sterminata, fraalbum, live e minicd sono tantissime le song, tutte di buona fattura,che potrebbero essere suonate dal vivo. I polacchi però non possonoesimersi dal suonare alcune chicche della loro personale storiamusicale. E’ cosi che quando partono le note di “Carnal”, la folla siscatena e il pit diventa arroventato. Stessa sorte per la vecchissima”Silent Empire”, uno dei punti migliori del concerto. I Vader, unagaranzia dal vivo.
SATYRICON
Sicuramente la band più attesa dopo, se non assieme ai Soulfly. C’era ressa per il loro concerto. Satyr era in gran forma e il concerto è iniziato come meglio non poteva: con “Hvite Krists Død”. Poesia pura. Si sono succedute poi canzoni dal nuovo album, “Now, Diabolical”, “K.I.N.G”, “The Pentagram Burns” e “A New Enemy”. Di alcune di queste canzoni (ad esempio “A New Enemy”) non se ne sentiva davvero il bisogno. Ci si è limitati ad ammirare il drumming di Frost, davvero uno dei migliori del genere. Si è proseguito con “With Ravenous Hunger” e “Fuel For Hatred” da “Volcano”, prima di “Du Som Hater Gud” e della conclusiva “Mother North” entrambe estratte dal capolavoro “Nemesis Divina”. Peccato per l’assenza di brani da “Rebel Extravaganza”, la band però è stata assolutamente perfetta.
DYING FETUS
Era circa mezzanotte, quando i Satyricon finivano si di suonare e sul palco affianco salivano sul palco i Dying Fetus. La gente era stanca morta, esausta, stramazzata al suolo in preda all’alcool e alla stanchezza dopo tre giorni di metallo estremo e brutale. Ma a salire sul palco erano dei maestri del death americano come i Fetus, e quindi la gente raccoglieva le ultime energie per bere le ultime birre scatenando un pogo micidiale nel pit. Come da previsione la loro prova è stata devastante. I fan hanno acclamato ad alta voce autentiche hit della band. I classici, quelli che ci si aspetta ogni volta da loro, sono stati riproposti. Ecco quindi che “Kill Your Mother, Rape Your Dog” ,“Opium Of The Masses” e “Pissing In The Mainstream” ma anche le più recenti “One Shot One Kill” e “Fate Of The Condemned” dal nuovo album “War Of Attrition” sono proposte una di seguito all’altra. I numerosi cambi di lineup (fra cui anche alla voce) non hanno intaccato la strapotenza della band in sede live, anche al brutal assault i Dying Fetus hanno dominato. Fra le cinque migliori band del festival.
ONSLAUGHT
Bang your head! Thrash metal allo stato puro quello dei veterani inglesi Onslaught, tornati sulle scene con il buon album “Killing Peace”. Con un po di ritardo gli inglesi, che hanno avuto il loro momento di gloria a metà degli anni ’80 con due ottimi album, sono saliti sul palco con un solo intento: scatenare una guerriglia nel pit. Molta gente non li conosceva, considerato anche che il thrash metal non è il genere preferito del sottobosco metal nell’est europa. Ma sono bastate poche canzoni per capire che il groove e i ritmi sostenuti e incessanti della band riuscivano a scatenare un pogo sfrenato nel pit. Dispiace che la migliore canzone dell’album, ovvero “Shock And Awe”, pezzo migliore del loro album di ritorno uscito quest’anno ovvero “Killing Peace”, non sia stata eseguita (setlist tagliata per vial del ritardo) ma tutti gli altri pezzi, specie quelli storici (“Seeds of hate” e “Power from hell”) sono stati un’autentica manna per i fan che avevano solo voglia di dimenarsi oltremodo nel pit facendo headbanging. Gran concerto e pit davvero devastante!
RED HARVEST
A notte fonda, dopo oltre 12 ore di death, grind, black e hardcore metal la gente è molto stanca. A chiudere l’edizione dodici del Brutal Assault festival sono i norvegesi Red Harvest, che come detto, nonostante la stanchezza, trovano ancora tanta gente pronta ad ascoltare il loro industrial metal. I nostri, hanno goduto di volumi assurdi, altissimi, da far fischiare le orecchie per giorni. La loro musica non è di quelle che ti invoglia a scatenarti nel pit (da queste parti vanno molto di moda le band veloci) però la potenza sprigionata dagli scandinavi è stata tanta. Episodi più belli del concerto sicuramente “Antidote” e “Hole In Me”. Il loro lento ma pesante incedere con tinte apocalittiche ha avuto un ottimo risultato sulla folla che ha dimostrato di gradire anche se abituata a tutt’altro tipo di sonorità. Una band originale che merita di essere vista dal vivo.