10/08/2016 - BRUTAL ASSAULT 2016 @ Jaromer - Jaromer (Repubblica Ceca)

Pubblicato il 15/09/2016 da

Introduzione a cura di Giuseppe Caterino
Report a cura di Giuseppe Caterino, Lorenzo “Satana” Ottolenghi, Bianca Secchieri, Simone Vavalà
Fotografie a cura di Olga Kuzmenko (copyright) apparse originariamente su MyGlobalMind.com

Jaromer, ridente paesino che conta circa dodicimila anime nel nord della Repubblica Ceca e a circa trecento chilometri da Cracovia, Polonia, e che si distacca in un’area chiamata Josefov: una piazza pulita e gradevole, una chiesa annichilente e una fortezza militare del diciottesimo secolo che cinge tra le sue mura, tra le altre cose, un festival che per una settimana trasforma la tranquilla area urbana in un viavai di metallari, divenendo crocevia di rocker di diverse età e nazionalità che si mischiano alla placida popolazione: van, tende, chioschi, negozietti trasformati in bar, locali presi d’assalto e un sacco di capelloni che girano per le strade, come scritto, non sembrano scalfire minimamente la quotidianità degli abitanti di questa zona della Boemia dell’est, che anzi sembrano divertiti e incuriositi dall’orda di lungocriniti con magliette dai nomi spesso e volentieri impronunciabili. Certo, il Brutal Assault è giunto alla ventunesima edizione e viene ospitato a Josefov da un po’, come gli organizzatori tendono – con giusto orgoglio– ad evidenziare anche in una delle zone relax del festival adibita a memoria storica, e oramai è a tutti gli effetti un festival che sa far parlare di sé in Europa; punto d’incrocio tra la grandezza di ben più affollate kermesse (Hellfest, Wacken) e una scanzonata quasi intimità da festa un po’ più piccola e dimessa, vagamente più circoscritta (per quanto le diecimila presenze siano state abbondantemente superate, con picchi nelle serate  che vedevano protagonisti Behemoth e Gojira). Ed è proprio qui che gli organizzatori dovrebbero focalizzare maggiormente la propria attenzione, ovvero sul fatto di essere pronti ad accogliere masse che – presumibilmente – andranno ad aumentare ancora. Complice l’introduzione per il primo anno del braccialetto ‘cashless’ e un’affluenza forse non prevista tutta assieme – come lo stesso staff dichiarava qualche giorno fa, con encomiabile onestà, tramite la propria pagina Facebook – qualche disservizio c’è stato: nella prima giornata di festival un numero enorme di persone (tra cui chi scrive) è stato costretto a perdere un bel numero di esibizioni per via di un’interminabile coda (dell’ordine delle tre-quattro ore) sotto la pioggia per cambiare il biglietto, coda dovuta anche al maltempo che ha fatto saltare le connessioni internet, ci spiegano ora. Non ci è stato molto chiaro, però, perché quando ben altre due casse si sono liberate, si sia preferito mantenere la coda e non farla defluire più velocemente. Simili accadimenti per le docce adibite per chi usufruiva dei camping (gratuite per gli ospiti del VIP camping e a pagamento per i tantissimi che si erano accampati nel boschetto adiacente le mura): negli orari tranquilli si sfiorava l’ora e mezza di fila, il che suggerirebbe, per un festival di tale affluenza, un maggior numero di impianti (effettivamente ventotto docce sembrano un po’ pochette), e anche qualche punto in più per ricaricare il braccialetto non avrebbe guastato. E lo stesso potremmo dire per le aree del merchandising ufficiale. Tutte considerazioni che possono lasciare il tempo che trovano a fronte di ottime intuizioni, quali schermi e impianti in moltissime zone per non perdere i concerti anche volendo stare al fresco degli interni della fortezza, le godibilissime aree relax, il sacrario di Lemmy, i punti ristoro (invero sempre snelli e con scelta pressoché illimitata grazie anche alla ‘Vegan Road’) e l’atmosfera tutto sommato rilassata e divertita. Ciononostante, utile potrebbe essere ragionare su piccole accortezze, ma siamo certi che i padrini del Brutal Assault siano già al lavoro su questo. Toltici i sassolini dalle scarpe, dicevamo, il festival è stato un successo, baciato per la maggiore da un bel tempo (pioggia e fango solo nel corso del primo giorno), una pressoché totale sensazione di festa, gente allegra e una sequela imponente di proposte musicali, dai gruppi storici chiamati a confermare le proprie capacità alla scoperta di act underground che hanno saputo stupire. A corredo, riteniamo che anche l’apparato tecnico abbia funzionato bene: sui due main stage i suoni erano quasi sempre ottimali (ovviamente la differenza di qualità variava anche a seconda della posizione dalla quale si ascoltava) e il maxi schermo permetteva di godersi le esibizioni anche quando non si aveva voglia a tutti costi di stare fronte palco, con l’aggiunta di quella meravigliosa area naturale soprastante il festival da cui potersi godere i concerti dall’alto. Il Brutal Assault si è confermato dunque una grande esperienza e con uno staff pronto a ‘mettere una pezza’ sui piccoli deficit. Attendiamo con impazienza l’anno prossimo (con alcuni nomi già confermati: Emperor, Ulcerate, Eluveitie…) ed intanto godetevi il report di Metalitalia.com per questo 2016! Per ovvi motivi non tutte le esibizioni sono state coperte (più quelle del primo giorno, come già scritto perse durante la fila), ma nell’ambito delle possibilità umane ecco cosa è stato questo ventunesimo Assalto Brutale!

 

Brutal-Assault-Festival-2016-Lineup

BRUTAL ASSAULT 16 1
BRUTAL ASSAULT 16 4
brutal assault 16 4
brutal assault 2016 6 Brutal assault 2016
brutal assault162
brutal assault20161

10 AGOSTO

NEUROSIS

La prima band che riusciamo ad incontrare, fradici, infreddoliti e non senza un certo fastidio per aver perso nomi del calibro di Vektor, Gruesome, Tribulation e i nostrani Sadist, sono nientemeno che i Neurosis, uno di quei nomi che incute un muto rispetto anche solo a nominarlo, tanta è la storia che si portano appresso gli statunitensi, a loro modo condottieri di un post-metal che veniva suonato quando ancora non si diceva post-metal. Saliti sul palco senza dire una parola, e così sarà per tutta l’esibizione – che non conoscerà un calo o uno stop, i Neurosis, giunti al trentesimo anno di carriera, sperimentali e annichilenti come ci si aspetta da un nome del genere, giocano con le sensazioni e miscelano suoni che insieme alla pioggia cadono sulle nostre anime inermi, soggiogandoci di fronte alle spettrali escursioni sonore di brani come “Lost” o “Bending Light” o micidiali andirivieni pseudo melodici di un pezzo spettrale come “Stones From The Sky”. Quel tipo di concerto per cui si smette di conversare col vicino e si resta come i gatti di fronte ai fanali delle auto: impietriti.
(Giuseppe Caterino)

CONAN

A giudicare dalla calca formatasi all’interno del Metal Stage (palco più defilato e coperto, nonché più piccolo, rispetto ai due main stage) i britannici Conan, alfieri del dal loro battezzato ‘Caveman Battle Doom’, continuano, sull’onda dell’ottimo “Revengeance”, ad acquistare ammiratori e/o semplici curiosi che però non lasciano l’area del concerto prima della fine della gig. Gli inglesi propongono un set ovviamente ridotto e sapientemente mischiano le canzoni traendole in parti pressoché uguali non solo dall’ultimo lavoro, bensì anche dai precedenti “Blood Eagle” e “Monnos”. Suonano come degli invasati, i Conan, e complici dei suoni potenti e un’audience calda e partecipativa, uniti al tempo uggioso che si intravede dalle aperture ai margini della struttura, riescono ad elaborare una lugubre performance che spacca le ossa, diretti come macchine e palesemente padroni del palco. Non per niente tra i nomi più fatti nell’ultimo periodo, i ragazzi incappucciati sembrano crescere di volta in volta, reduci anche da alcune esibizioni piuttosto importanti, ed escono tra meritati applausi.
(Giuseppe Caterino)

MASTODON

I Mastodon sono uno di quei gruppi che si ritrovano a vivere sotto l’ombra stessa della grandiosità delle proprie composizioni: difficile bissare lavori come “Blood Mountain” e soprattutto “Crack The Skye”, e pertanto, intelligentemente, inutile tentare di risultare stucchevoli autocitandosi a vita, bensì cercare nuove strade e amalgamare il proprio stile all’interno di correnti anche, se vogliamo, di più facile lettura (discorso che non differisce da quanto si potrebbe dire dell’ultimo Gojira). Consci del valore delle proprie release, comunque, i quattro americani fan di Game Of Thrones regalano al pubblico del Brutal Assault una performance che va a toccare diversi nervi della propria folta discografia, all’interno di un concerto divertito e sudato che pesca tanto da “Once More ‘Round The Sun” (una vibrante “The Motherload” ha svettato tanto quanto “High Road”) che da “Leviathan”. Qualche sussulto in particolare con classiche opener come “Oblivion” o “The Wolfe Is Loose”, con quegli intermezzi da accompagnare le chitarre con la voce, e il concerto dei Mastodon è scivolato via che non sembrava nemmeno essere incominciato, con come finale la doppietta “Divinations” e “Blood And Thunder”. Un po’ best of, un po’ divertissement, andiamo via tutti decisamente soddisfatti da quanto abbiamo appena visto. Un plauso al dresscode di Brent Hinds, metà via tra un Elvis e un Jimmy Page molto più barbuto e tatuato.
(Giuseppe Caterino)

BRUTAL ASSAULT MASTODON
brutal assault mastodon 1
Brutal assault mastodon
brutal assault mastodon 2

ABBATH

Il tempo di ordinare una birretta – il cui prezzo è assolutamente imbattibile – e siamo in mezzo alla calca per aspettare il sig. Immortal in persona, quell’Abbath di cui si può dire tutto e il contrario di tutto, incrocio perfetto fra incarnazione artistica e (auto)ironia, sempre in bilico tra celebrazione e scherno. Chi scrive aveva visto l’ultima volta il sig. Olve Eikemo in un deludentissimo concerto d’apertura del tour, a Londra, dove tra probabile ebbrezza e incapacità a tenere il palco, molta gente abbandonò la performance prima della sua conclusione: tanta è quindi l’attesa intorno allo show del norvegese, accompagnato come sempre da un esuberante King Ov Hell al basso e all’incitamento continuo delle prime file. Una marcia trionfale accompagna l’entrata della band, che attacca con una furiosa “To War!”, seguita a ruota da “Winterbane”. E già qui non possiamo che notare la forma più che dignitosa dell’ensemble: Abbath è in serata e pur giocando a fare il mattatore quale in effetti è, non perde un colpo; ci stupisce peraltro moltissimo la performance del misterioso batterista che si cela sotto la maschera di Creature: una macchina da guerra che tiene il tempo con una ferocia e una precisione che ha dell’incredibile, e così sarà per tutta la durata del live. Si prosegue con gli Immortal, “My Kingdom Cold” e “Nebular Ravens Winter” vengono accolte con estremo entusiasmo (soprattutto la prima) e, tra un siparietto e l’altro (francamente esilaranti e causa di un leit–motiv che durerà per tutta la festa, di cui parleremo alla fine del trafiletto), si prosegue imperterriti tra qualche posa plastica e soprattutto tanti Immortal: subito dopo “Warriors”, tratta dal progetto I, infatti, arriva una “Solarfall” suonata davvero come si deve e accolta con un boato, e poi, una dietro l’altra, ecco “Tyrants”, la sempre eccezionale “One By One” e “All Shall Fall” a chiusura di un signor concerto. E’ un piacere incontrare Abbath in tale forma e, nella speranza che duri, non possiamo che dirci soddisfatti. Resta un piccolo aneddoto: giocando come di consueto con la presentazione del gruppo (e di sé stesso), il Nostro si è prodigato in un ‘Brrr…utal Assault! We aare… I aaaam… Abbath!’ con il nome urlato in un acuto francamente esilarante. Questo ha portato il termine ‘Abbath’ ad essere nominato per tutta la durata del festival da decine di persone con una certa ilarità, nonché essere servito da sveglia comune per tutti i fortunati (come il sottoscritto) che alloggiavano in una tenda nel bosco, dove questo ‘Abbath’ (la parola, non l’artista) ha riecheggiato per intere notti.
(Giuseppe Caterino)

BRUTAL ASSAULT ABBATH
brutal assault abbath 1
brutal assault abbath 2
brutal assault abbath

THAW

E’ intorno a mezzanotte e mezza che l’aria inizia a farsi fredda, le ossa cominciano a risentire dell’umidità acquisita durante il giorno e una strana nebbia fa capolino nella fangosa area subito fuori il Metal Stage. Capiamo però immediatamente che non di nebbia si tratta, bensì del palco dei Thaw, polacchi dediti ad un black metal contaminato di noise e sludge e che innesta nel proprio suono decine di contaminazioni sonore che prendono le distanze dal sottogenere padre, creando così un muro sonoro decifrabile solo con un ascolto attento. Il fumo dal palco ha invaso tutto lo spazio possibile, andando, come detto, a disperdersi nell’aria fuori dallo stage, mentre la band attacca con la propria proposta che prevede, oltre che una coltre sonora degna di band come Oranssi Pazuzu o i nostrani Sunpocrisy, un gioco di luci che unito alla nebbia artificiale praticamente non permette di vedere quello che accade sul palco, andando ad aumentare così l’alone di mistero che aleggia sui cinque ragazzi dal volto coperto. La musica dei Thaw prende a piene mani da un black-ambient che sa ricordare anche qualcosa di Burzum e, benché in alcuni punti vi sia la sensazione di un qualcosa che manchi, il combo si distingue per una buona padronanza di palco e della strumentazione, con alcune parti in pulito che suonano molto bene. Un’esibizione riuscita, in cui tiro e potenza non sono mancati nemmeno per un istante e che ci ha lasciato storditi tanta è stata la forza scatenata dalla band. Assolutamente da prendere in considerazione.
(Giuseppe Caterino)

SLAGMAUR

L’ultimo live della prima giornata del Brutal Assault vede protagonisti gli Slagmaur, combo norvegese dedito ad un black metal ammantato di un’aura di sedicente avantgarde; i quattro si presentano sul palco con il proprio abbigliamento da battaglia: una faccia da maiale alla chitarra, un medico della peste di veneziana memoria con libro incollato alla mano alla voce e un nazi-zombie all’altra chitarra, per un amalgama che vuole essere ambizioso, sì, andando ad inserire orchestrazioni e scarnificando il concetto stesso di arrangiamento, ma risultando, alla fine, niente più che un pretenzioso guazzabuglio. Si capisce perfettamente dove gli Slagmaur vogliono andare a parare e se è vero che su disco la proposta cacofonica, disorientante e minimale nella creazione di una ‘non-musica’, una recalcitrazione all’incontrario del concetto stesso di intrattenimento e ricerca, può avere un suo appeal, dal vivo, complici forse stanchezza e freddo, fa sì che la band risulti assolutamente inconcludente e noiosa, in alcuni punti quasi inconsciamente divertente, benché il caso sia di quelli in cui non si ride ‘con’ ma ‘di’. Più di qualcuno abbandona in corso d’opera l’esibizione dei norvegesi, che si dimostra assolutamente non degna di memoria.
(Giuseppe Caterino)

11 AGOSTO

HEAVING EARTH

E’ soltanto mezzogiorno quando ci aggiriamo dalle parti del Main Stage, più curiosi che altro, in questa giornata dal tempo incerto e dal bill più gustoso che mai. Decidiamo quindi di mangiare qualcosa nella Vegan Road e di goderci i cechi Heaving Earth, che a dispetto del Sole e dell’orario, forse per il fatto di giocare in casa, raccolgono sotto il palco un numero di persone assolutamente invidiabile per un’esibizione di mezzogiorno. Noi, con loro, restiamo felicemente sorpresi dalla proposta senza mezze misure dei deathster: death metal vecchia scuola, senza orpelli o aiuti da parte di chissà quale trovata scenica, dritti come un carro armato e assolutamente convinti al di sopra del palco. Forte di un album pachidermico come “Denouncing The Holy Throne”, dell’anno scorso, la prestazione tecnica della band è encomiabile, senza contare l’assenza di filtri nella batteria e la nonchalance con cui vengono diffusi blast-beat e riff inverosimili sull’incitante pubblico. Ottimo inizio, benché altre band abbiano già iniziato a scaldare la giornata sin dalle dieci di mattina.
(Giuseppe Caterino)

PLINI

Il concerto del virtuoso chitarrista si inserisce subito dopo la mattanza sonora degli Heaving Earth con un incastro che di primo acchito sembra un po’ strano, ma che raccoglie sin da subito le simpatie e il supporto di un pubblico folto quanto il precedente. Niente headbanging e niente wall of death, per un momento di ascolto quasi corale della proposta musicale di una band composta da musicisti eccezionali (tra cui qualcuno che suonerà ancora, militando nelle file degli Intervals) e che riesce, cosa sempre gradita all’interno del progressive, a dimostrare bravura senza per forza ostentare le proprie capacità in maniera spocchiosa e manieristica. Non manca qualche momento un po’ allungato, sempre nei canoni di genere comunque, e qualche strizzata d’occhio un po’ ruffiana (‘è il primo festival propriamente metal a cui partecipiamo,’ dice, ‘e di certo non mi aspettavo così tanta gente che apprezzasse questo tipo di musica’), ma tutto sommato, considerata anche la giovane età dell’australiano (è nato nel 1992!), possiamo perdonare qualche leggerezza del genere e goderci momenti trasognati che si bagnano nello djent, passano attraverso il jazz e sfociano in un progressive rock moderno e fresco (che la bella “Moonflower” o la diretta “Paper Moon”, con cui viene chiuso lo show, siano un esempio su tutti). Probabilmente una proposta che funziona meglio nel raccoglimento di un club, ma anche così la band entusiasma gli astanti, felici di rimanere su questo tipo di sonorità grazie anche all’esibizione degli Animals As Leaders, prevista sempre in giornata, ma pronti a rituffarsi subito in un’onda di suoni più consoni.
(Giuseppe Caterino)

ANTIGAMA

E’ infatti il momento degli Antigama, polacchi grindcorer che si fregiano di un embleatico ‘alternative’ prima nella descrizione del genere, che non inquadriamo molto bene. Dopo un’intro parlata in chiave elettronica, quello che deflagra sul palco è una bomba di grind alla bella maniera di una volta, che seppur velata di suoni potenti e in qualche modo moderni, rimanda alla mente i grandi padri del genere, Napalm Death su tutti (pur senza l’animalesca carica sovversiva che è propria degli inglesi) e qualche cosa dei The Dillinger Escape Plan. La proposta è convincente e la gran massa di spettatori sotto il palco è lì a confermarlo, benché le idee del combo non sembrino brillare per varietà e, dopo diversi minuti, la proposta inizia a suonare un po’ retorica e fine a se stessa. Curioso, comunque, confrontarsi con altri presenti, per i quali invece è stata la prima metà quella un po’ meno brillante rispetto alla seconda. Misteri e bellezze della musica, diremmo.
(Giuseppe Caterino)

OBSCURA

Addobbato il palco con tutta la cura che ci si aspetterebbe per degli headliner, gli Obscura irrompono sulle note di “Ten Sepirot”, estrapolata dall’ultimo “Akròasis”, che farà la voce grossa nella scaletta dei tedeschi e che ha improntato lo stile della band su una maggior ricerca progressiva tentando comunque di non avere cali di tensione dal punto di vista espressivo e d’impatto. Resta il fatto che un grande problema sembra gravare sulla performance degli Obscura: gli Obscura stessi. Difatti, l’esibizione risulta assolutamente incolore, volta come sembra ad una pura mostra delle proprie abilità come musicisti e ad un senso di patinata noia che pervade l’intero set, anche quando si torna all’ottimo “Cosmogenesis” con “The Anticosmic Overload”. Non sembrano pensarla come noi gli irriducibili fan della band, a fronte palco ad incitare i propri beniamini, ma il sapore che resta dopo lo show è di una prestazione di maniera, plasticosa e noiosetta, a dispetto della spavalderia con la quale i teutonici calcano il palco e sembrano far felici i propri fan. Come già detto, si resta sempre stupiti e sorpresi di fronte all’opinabilità nella ricezione delle proposte musicali.
(Giuseppe Caterino)

ANIMALS AS LEADERS

Come accennato sopra, non sono nemmeno le tre del pomeriggio che si torna ad ascoltare virtuosismi e sperimentazioni in chiave progressiva sul palco nel quale un’oretta prima stava finendo il massacro sonoro ad opera degli Antigama. Le chitarre a sette e otto corde che campeggiano sul palco lasciano presagire un altro momento in cui la risposta può essere buona o meno buona, a seconda dell’attitudine mostrata dalla band, che invece si presenta in gran spolvero e con un marcato senso del gusto a fare da contralto ad un apparato tecnico sbalorditivo. Concerto che ci siamo goduti al fresco e seduti, sorseggiando una buona birra scura (una delle alternative più gradite all’interno del festival, quando un po’ saturi della classica bionda), e che ha visto un gruppo estremamente a proprio agio nello sciorinare partiture e incastri mai scontati e – a maggior gloria di tutti noi – mai spocchiosi o arroganti, anzi, con diverse sbandate verso sonorità propriamente metal e un tangibile divertimento sul palco. Applausi meritati, dunque, e un ottimo debutto sul palco del Brutal Assault per gli Animals As Leaders.
(Giuseppe Caterino)

ABORTED

Gli Aborted sono una band impressionante, c’è poco da discutere. Si parte subito con “Divine Impediment”, seguita dalla massacrante “Cadaverous Collection”; proprio su questo pezzo restiamo allibiti dal drumming di Ken Bedene che fa ricredere chiunque possa pensare che il batterista della band belga si avvalga in studio di qualche tipo di aiuto. La sezione ritmica, per l’occasione, è completata dal “nostro” Stefano Franceschini che sostituisce dal vivo JB Van Der Wal. Le chitarre di Mendel e Ian intrecciano riff velocissimi, al limite dell’umano e la voce di ‘Svencho’ completa il quadro sonoro. I deathster cercano di coprire quanto più possibile il repertorio dei loro dischi, concedendo solo due pezzi dall’ultimo “Retrogore” e, nonostante il pubblico sia numeroso ma non ancora oceanico, un buon moshpit accompagna quasi tutta l’esibizione della band. Come per altri concerti, purtroppo, il sound è ben lontano dall’essere all’altezza dell’evento e questo penalizza non poco un gruppo come gli Aborted che meriterebbe la giusta resa sonora, vista anche l’abilità e la pulizia con cui i fiamminghi suonano. Ma non abbiamo davanti dei novellini e così il gruppo sopperisce ai suoni approssimativi con una violenza che non concede un attimo di respiro, dalla massacrante “Coffin Upon Coffin” (su cui si scatena un pit infernale) alla conclusiva “The Saw And The Carnage Done”. Concerto ottimo e band in grandissima forma.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

BRUTAL ASSAULT 16 ABORTED
brutal assault aborted 1
brutal assault aborted
brutal assault aborted 2

 THE BLACK DAHLIA MURDER

Abbiamo già avuto modo di apprezzare le gesta degli americani TBDM all’interno di una sala concerti, dove eravamo rimasti ben impressionati dalla carica sovversiva dell’esibizione che conrastava con l’aria da bravi ragazzi perfettamente normali che aleggia attorno alla band, e così è stato anche per questa esibizione al Brutal Assault. Spaziando fra diverse pubblicazioni, i Nostri fanno quello che gli riesce meglio: creano scompiglio, giocano e scherzano con il pubblico e l’attimo dopo sono indiavolati sui loro strumenti mentre Trevor Strnad corre su e giù seminudo (in almeno un’occasione toglieremo il ‘semi’, quando il panciuto cantante ha ritenuto di dover mostrare a tutti le proprie terga), reclama wall of death e circle pit e, completamente sudato, non risparmia nemmeno una stilla di energia. La risposta del pubblico è entusiasta e come sempre il death melodico a metà strada tra la Scandinavia e la Florida dei ragazzi di Detroit crea un misto di divertimento e ammirazione, tra una “Absymal” ed una “Deathmask Divina” lanciate ai trecento all’ora. Il Sole oramai picchia alto e vedere della gente ‘darsi’ così tanto su un palco rovente è sempre un gran piacere.
(Giuseppe Caterino)

BRUTAL ASSAULT BDM
brutal assault bdm 1
brutal assault bdm

IHSAHN

L’esibizione di Ihsahn era per chi scrive tra quelle contrassegnate come ‘da non perdere’, non tanto perché si ami alla follia il progetto (non è così) quanto per l’indiscutibile valore del contributo dato dal polistrumentista norvegese alla scena estrema, inizialmente tra le file dei Thou Shalt Suffer e poi come creatore dei leggendari Emperor. Ma se non c’è – prevedibilmente – spazio per un passato seppur glorioso, nemmeno gli albori di questa avventura solista vengono presi in considerazione: il set è infatti quasi interamente composto da estratti dell’ultimo uscito “Arktis.”, uniche eccezioni “Pulse” e “Frozen Lakes On Mars” (rispettivamente tratti da “Das Seelenbrechen” e “After” ) e nessun accenno all’ottimo debutto, “The Adversary”. Sul palco – ora che i Leprous non sono più supporter ufficiali di Ihsahn in sede live –  troviamo: alla batteria Tobias Ørnes Andersen (già in forze agli Shining norvegesi), Robin Ognedal e Nicolay Tangen Svennǽs, rispettivamente alla chitarra e alle tastiere. La personalità di Ihsahn è evidente anche in un contesto di scenografia completamente spoglia: niente costumi di scena, zero orpelli, minimalismo visivo in contrasto con il progressive extreme metal avanguardistico proposto. Quello a cui assistiamo è uno show tecnicamente ineccepibile o quasi, ma piuttosto freddo in termini di capacità di coinvolgimento. La proposta di Ihsahn  non è facile nè immediata, ed è forse in un certo senso poco adatta ad un contesto quale un festival open air, ma la resa dei nuovi brani è comunque positiva e in veste live le parti elettroniche e sperimentali risultano meno evidenti che su disco. Sul brano di chiusura – “Celestial Violence” – Einar Solberg (cognato di Ihsahn e cantante e tastierista dei Leprous, anch’essi nel bill del festival) sale sul palco per un’ospitata, ma il momento più emozionante è sicuramente l’annuncio del ritorno alla prossima edizione del Brutal Assault con gli Emperor, per il ventennale di “Anthems To The Welkin At Dusk”.
(Bianca Secchieri)

BRUTAL ASSAULT IHSHAN
brutal assault ihshan 1
brutal assault ishan 3
brutal assault ishasn

IMMOLATION

Gli Immolation si presentano sul palco in tre, “orfani” di Bill Taylor, e la mancanza di una chitarra, purtroppo, pesa non poco sul muro sonoro della death metal band di New York. Ciononostante, Ross Dolan e soci fanno del loro meglio, ricordandoci che sono passati venticinque anni dal loro devastante debutto “Dawn Of Possession” (e la title-track, “Despondent Souls” e “Immolation” riescono a ricordarci la portata epocale di questo disco). Undici pezzi eseguiti senza pietà, davanti ad un pubblico che, visto l’orario “importante” (dalle 19:00 alle 20:00), è ormai più che numoso, ma che risentono sia dei cronici problemi al sound (leggermente migliorato rispetto a quello della mattina e del primo pomeriggio, ma ancora troppo impastato, con la voce troppo alta e l’unica chitarra troppo bassa), sia della mancanza di Taylor. Prendendo con freddezza l’evento, non possiamo certo dire che sia stato un concerto memorabile, ma se consideriamo i problemi appena citati (sopratutto cosa può voler dire per una band come gli Immolation suonare con una chitarra sola), allora non possiamo che inchinarci davanti al professionismo del gruppo che riesce, comunque, a portare a casa un concerto dignitoso, aiutato anche da un pubblico partecipe e da un Ross Dolan decisamente in forma. Occasione mancata, forse, ma possiamo consolarci col fatto che gli Immolation non sono certo una band avara di apparizioni live. Ci sarà modo di rivederli al completo.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

EXODUS

Non troppo tempo fa, al sottoscritto, è capitato di leggere un articolo sugli Anthrax, in cui venivano definiti, grossomodo, “l’affidabile band che occupa lo slot delle 18.00 ai festival”. Ecco, traslate di due ore l’orario, ma giusto perché siamo in Repubblica Ceca, e sarebbe già sufficiente questa frase come live report degli Exodus; niente di nuovo, niente di trascendentale, ma uno spettacolo garantito e piacevole. Steve Souza, impeccabile, è come sempre in grado di trascinare il pubblico alla grande e il resto della formazione non è da meno. Come sempre, nota d’onore per Gary Holt, uno dei migliori chitarristi thrash sulla piazza, che risulta molto più a suo agio con la sua band principale che non come sostituto di Hanneman negli Slayer, a dirla tutta; in poco meno di un’ora vengono messi sul piatto brani che ripercorrono pressoché l’intera carriera dei californiani, e quale scontato dolce l’inno “Bonded By Blood”, seguito da “Toxic Waltz” e “Strike Of The Beast”. Puro macello, puro divertimento: niente di più, ma soprattutto niente di meno, si diceva. Ah, le certezze del metal!
(Simone Vavalà)

brutal assault exodus 1
brutal assault exodus 2
brutal assault exodus

GOJIRA

Da quant’è che i fratelli Duplantier stanno vivendo il loro momento d’oro? Da un po’ di tempo a questa parte infatti, i Gojira sono uno di quei nomi che si fa fatica a non associare tra le cose migliori in ambito metal, e perciò tanto ci si aspetta quando i francesi salgono sul palco, intorno alle nove di sera. “Toxic Garbage Island”, seguita dall’ottima “L’Enfant Sauvage”, fanno presagire che la scaletta ricalcherà, con ovvi rimaneggiamenti, quella del tour in corso e che ha toccato anche l’Italia (su queste pagine sono stati trattati ben due concerti) e ci presentano una band in forma smagliante: vagamente oscurati da un gioco di luci, i musicisti, senza troppi orpelli, si immergono in ciò che sanno fare meglio, ovvero uno show sentito e pregno di sensitività e un ché di impalpabile positività (del resto tutti sappiamo dell’impegno ambientalista all’interno delle tematiche della band). Vero mattatore della serata è il preciso, potente e fantasioso Mario Duplantier, che dietro le pelli batte come un fabbro e riesce ad emanare carisma senza fare chissà cosa; il concerto, che come previsto attira un largo numero di persone, scivola attraverso brani dai diversi dischi dei kaiju transalpini, che dal nuovo discusso “Magma” portano “Silvera”, “Stranded” e “Only Pain”. I brani nuovi, che chi scrive non ha particolarmente amato su disco, fanno comunque una figura più che dignitosa (“Stranded”, in particolare, nel contesto funziona egregiamente) all’interno della scaletta, benché si respiri quel senso di ascolto a più ampio raggio che già su supporto ottico ci aveva fatto un po’ alzare il sopracciglio. Ciononostante l’esibizione è da big e il successo raccolto da ragazzi è più che meritato. Un plauso inoltre ai suoni che, almeno da dove ci trovavamo noi, sono stati ineccepibili. Tra le conferme più piacevoli del festival.
(Giuseppe Caterino)

BRUTAL ASSAULT GOJIRA
bruta assault 3
brutal assault gojira 1
brutal assault gojira 2

MINISTRY
“I hate all you mother fuckers…
Peasants
All you mother fuckers
Hail to His Majesty”
È sufficiente l’intro di “Hail To His Majesty” per dare l’idea del sabba sonoro e dell’approccio della band di Al Jourgensen. Visual psichedelici con al centro il mastermind della folle band, improbabili battaglie a colpi di fiamme dalla bocca e meteoriti tra Donald Trump e Hillary Clinton, e poi il solito armageddon visivo che li contraddistingue; l’approccio musicale, chiaramente, è all’altezza e superato il riscaldamento iniziale con “Punch In The Face” (un nome, un programma), l’assalto sonoro spazza via tutto e tutti. La band, ormai rimaneggiata come un Consiglio d’Amministraizone, è impeccabile, ma pur sempre adombrata dalla presenza scenica del folle ALieno, a cui basta un’alzata di sopracciglio – con relativi ventisette piercing – per trascinare gli astanti. Un paio di estratti da “Rio Grande Blood”, album che dal vivo rende sempre alla grandissima, qualche altro pezzo dalla discografia più recente e una sequenza finale da lacrime, che prevede tra le altre “N.W.O”, “Thieves” e “Stigmata”. Al solito, l’Apocalisse è servita: acufeni garantiti, un pogo piuttosto selvaggio e la splendida sensazione che il lato più marcio degli anni Novanta non sia mai sparito. Enormi.
(Simone Vavalà)

BRUTAL ASSAULT MINISTRY

brutal assault ministry 2
brutal assault ministry
brutal assault mnistry3

DARK TRANQUILLITY

Sono passate le dieci di sera e una certa arietta è tornata ad abbattersi su Jaromer creando un freschetto che necessita di un veloce cambio di blusa e ben si fa accompagnare da un’altra birretta, nella via che separa i main stage con il Metal Stage dove, quando arriviamo, i Dark Tranquillity hanno già cominciato il proprio set. La band, che sarà co-headliner dei Sodom al Metalitalia.com Festival 2016, sembra in forma ineccepibile. Se è vero che di primissimo acchito non ci convince l’amalgama di suoni e la scaletta non sembra tra le più entusiasmanti, una volta infilatici all’interno del pit le cose cambiano e non poco. Mikael Stanne, dall’alto della sua esperienza, ha carisma da vendere e non ne risparmia una goccia che sia una, così come la band suona compatta e dedita allo spettacolo che risponde sotto l’ibrido del death melodico di scuola scandinava, del quale questi signori sono tra i capostipiti, e quel modern death che ha seguito l’uscita di “Projector” e tanto è riuscito ad evolvere in quello che i DT oggi sono. “The Wonders At Your Feet” tratta dal controverso “Haven” fa la sua figura, “The Science Of Noise”, da “Construct”, si fa ascoltare da tutti i presenti e diverse mani si alzano al cielo, la meravigliosa “Therein” viene accolta con un boato (il che fa pensare a quanto fu bistrattato da molti “Projector” all’epoca della sua uscita).  Non sono state tratte alcune tracce, però, da quelli che sono ufficialmente considerati i capolavori della band, scelta precisa da parte degli svedesi e che, se da una parte può far storcere un po’ il naso a molti fan di quelli che erano i tempi di “The Gallery”, “The Mind’s I” o “Skydancer”, dall’altra la classe con cui il gruppo ha saputo rielaborare brani come “Final Resistance” o “Misery’s Crown” ha bilanciato la mancanza di una “Punish My Heaven” o di una “Edenspring”, a scelta. Al netto delle scelte di scaletta, concerto eccezionale, senza cali da parte degli strumentisti o di Stanne stesso alla voce, ammirati dai tantissimi presenti che arrivavano fin fuori del tendone del Metal Stage.
(Giuseppe Caterino)

PERTURBATOR

Giunti all’undicesima ora di musica non stop e osservati (in tutta onestà senza grandissima attenzione) i Parkway Drive, che comunque sembrano aver fatto il loro dovere, uno stacco quale quello proposto da Perturbator ci sta tutto; ed infatti molti sono quelli accorsi sotto lo Jagermeister Stage a ballare il dark synth ottantiano proposto dal dj francese (anche se, a onor del vero, il termine ‘dj’ non rende giustizia, in quanto il Nostro lavora effettivamente live con campionatori, sintetizzatori e un sacco di altri costosi giocattoli). Fa sorridere pensare a quanto il pubblico metal abbia allargato i propri orizzonti (una proposta appena più complessa dei Depeche Mode e un misto pop/dark anni ’80 ad un Gods Of Metal di dieci, quindici anni fa…come sarebbe stato accolto?) e, sebbene qualche sguardo interrogativo da parte di qualche ‘true’ metaller già posizionatosi per lo show dei 1349 non sia esattamente accomodante, un gran numero di persone balla alla meno peggio davanti a questo momento divertente e di comunque ragguardevole musica elettronica, a dispetto di freddo, stanchezza ed eventuale ostentazione di ‘true faith’ da parte di qualcuno. La sensazione è quella di trovarsi a metà strada tra “Miami Vice” e “Drive”, e ben venga.
(Giuseppe Caterino)

1349

Apprezzando particolarmente il contrasto, dopo la doccia di synth pop/dark ad opera di Perturbator ci accingiamo ad addentrarci nell’inferno in terra che i 1349 hanno preparato per noi. Per non farsi mancare nulla, i Nostri salgono sul palco introdotti da un gioco di fuochi e da delle eloquenti croci rovesciate sparse per il palco, alché i malefici norvegesi partono senza giri di parole sotto l’egida del loro black metal oltranzista e vecchia scuola, implacabile e che non lascia scampo. La musica dei 1349 è minimalista ma efficace e il folto pubblico è lì a dimostrarlo; e sebbene la compagine nordica non accenni ad un secondo di stanchezza o indecisione, vuoi i suoni che questa volta tendono un po’ a calare, vuoi una certa spossatezza che proprio bene non si sposa con la proposta tutt’altro che varia della band, ad un certo punto del concerto la convinzione sembra venir meno e l’esibizione stessa sembra pian piano scemare in uno spettacolo serrato ma meno convinto di quando era cominciato. Con piacere notiamo che, pure all’orario che si è ormai fatto, quasi le due di notte, la folla è ancora folta e incita il caos creato dal gruppo.
(Giuseppe Caterino)

12 AGOSTO

IRON REAGAN

E’ con gli Iron Reagan che incominciamo – alla grandissima, è il caso di dirlo – il nostro terzo giorno di festival. Sono più o meno le due di un assolato e caldo pomeriggio e la band è già sul palco a sciorinare forsennate schegge di thrash core sotto il comando di uno scatenato Tony Foresta, che incita, urla, si muove e non trova pace se non quando, dietro sua indicazione, si formano wall of death e poghi senza sosta. Benché il Sole oggi sia davvero cocente, nessuno si tira indietro e si creano delle mischie d’altri tempi, e quello che si nota sempre in questo tipo di situazioni sono i sorrisi di tutti, il divertimento di chi sta sopra e sotto il palco e l’ininterrotto crowd surfing. La band di Richmond è in forma e la prestazione musicale è quella delle grandi occasioni, benché gli Iron Reagan non lesinino certo le proprie forze nemmeno nel più piccolo dei club. Brani come “Miserable Failure”, “Mini Lights” o la stessa, divertita, “A Skull Full Of Maggots” dei Cannibal Corpse vengono accolte con tangibile entusiasmo, e il pubblico impazzito che urla con la band “Four More Years” è lì a testimoniare l’affetto dei metallari europei per questa formazione che tanto ricorda altre grandi epoche del thrash-core americano (Nuclear Assault su tutti). A modo loro, fenomenali.
(Giuseppe Caterino)

GRAVE

Per alcuni disgiuidi tecnico-organizzativi, i Grave vengono spostati da uno dei due palchi principali (il Metalshop) al tendone che ospita il Metalgate Stage. Questo cambiamento comporta, ovviamente, il fatto che la location è troppo piccola per i fan dei paladini del death metal old-school svedese, ma garantisce, a chi riesce ad assistere al concerto, una performance che (forse grazie allo spazio chiuso) può vantare dei suoni all’altezza di un gruppo come i Grave. I deathster di Stoccolma privilegiano materiale dal debut “Into The Grave” e dall’ultimo “Out Of Respect For The Dead”. Lo show si apre proprio come la carriera discografica della band, con “Deformed” ed è subito chiaro che gli svedesi sfrutteranno al massimo il tempo loro concesso. La band è in gran forma e, come sempre, suona in maniera impeccabile dall’inizio alla fine: la combo iniziale è devastante: oltre la già citata “Deformed”, il gruppo attacca senza sosta con “Christi(ns)anity” e “Out Of Respect For The Dead”. Lo stile è quello del più classico death svedese (Entombed e Dismember, per intenderci) e Ola, Tobias e Mika, schierati davanti al pubblico, fanno un lavoro strepitoso, arrangiandosi come possono in una situazione non certo ideale e regalandoci un concerto stratosferico. E’ proprio davanti a queste difficoltà che si nota la devozione di una band che non si perde d’animo e suona per i suoi fan senza risparmiare nulla (a differenza di qualcun’ altro che, con gli stessi problemi dei Grave, ha deciso di potersi permettere uno show sciatto ed un atteggiamento poco rispettoso nei confronti dei fan).
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

VOIVOD

Come per altre band presenti al festival, non siamo certo di fronte a un gruppo raro da vedere live, ma la curiosità e il piacere sono sempre alti, in attesa dei Voivod. Quest’oggi i canadesi, purtroppo, convincono solo a metà: sicuramente mettono molta energia e si divertono, come sempre, ma l’intensità non è quella solita e, pur senza stecche o errori marchiani, la sensazione che qualcosa non sia girato alla perfezione è forte. In particolare, a giudizio di chi vi scrive, è stata decisamente sotto tono l’esibizione di Snake. Parliamo comunque di una buona esibizione, che i Nostri – introdotti da “One Of These Days” dei Pink Floyd – aprono con “Ripping Headaches” dal mitico “Rrröööaaarrr”, dopodiché offrono ben due pezzi da “Dimension Hatröss”, qualche concessione a pezzi più recenti (compresa la recente e gradevole “Post Society”), prima del finale con l’arciclassica e ultratrascinante “Voivod”, che comunque ci riappacifica completamente con Away e soci a colpi di headbanging e cori a tremila voci. Alla prossima, e dimenticheremo questo vago amaro in bocca.
(Simone Vavalà)

TEXTURES

La cosa che colpisce in un concerto come quello dei Textures è la componente di groove che trasuda da ogni nota che viene sparata dal palco del Brutal senza andare a scapito della professionalità che permea l’esibizione. Infatti, gli olandesi suonano con una perizia tale che la proposta live sembra ricalcare le registrazioni studio, eppure non lesinano nemmeno un’oncia della propria energia, riuscendo a creare una situazione live assolutamente rimarcabile. Non sbagliano un colpo, e si divertono, i Textures: Daniel De Jongh anima lo show con le movenze di un leader consumato e il pubblico si lascia trasportare in questa calda giornata dalle perizie sonore che, come detto, vengono riportate con estrema precisione; e brani come “New Horizons” o “Awake” dal vivo lasciano inebetiti di fronte ad una prova pressoché perfetta e salutata con applausi a scena aperta dai presenti al Metalshop Stage.
(Giuseppe Caterino)

BLUES FOR THE RED SUN

La band ceca ha all’attivo appena quattro pezzi, per quanto di una durata complessiva che farebbe impallidire intere discografie grind, ma senza alcun timore sale sul palco del Brutal Assault con grande energia e riesce a destare parecchio interesse. Sicuramente favoriti dal fatto di giocare in casa, i sei musicisti mettono in scena un rituale drone/sludge decisamente interessante, ricco di effetti e sovrapposizioni, che riporta alla mente qua e là le atmosfere più classiche del genere (parliamo quindi di marciume made in Lousiana), ma che vede preponderanti le divagazioni e i feedback, a equa distanza tra le cavalcate lisergiche degli Sleep e derive post à la Deafheaven. Sul finale, a dirla tutta, la dilatazione di quello che apparentemente era un solo brano risulta un po’ ripetitiva, complice il ricorso a meri effetti sui pedali in pieno stile shoegaze; ma, nel complesso, una buona esibizione: per quanto ci riguarda, il desiderio di rivederli, magari nel contesto di un club, è stato destato.
(Simone Vavalà)

SEPTICFLESH

Alle cinque del pomeriggio scocca l’ora dei Septic Flesh (o Septicflesh, come preferite): maestosi, cupi, opulenti, visionari ed ipnotici. Con tre quarti d’ora a disposizione, Spiros e soci decidono di concentrare la setlist sugli ultimi tre dischi; si parte con “War In Heaven” (estratta dall’ultimo “Titan”) e i suoni sono buoni, anche se spesso le basi di cui si avvalgono i Septicflesh dal vivo sono un po’ basse; purtroppo la natura stessa della band greca tende, se non a penalizzare, a diversificare l’esperienza sonora live da quella su disco; ma questo è un tratto caratteristico del gruppo e, quindi, possiamo goderci lo show che, sappiamo, privilegerà l’impatto e l’immediatezza. La band dipinge scenari inquietanti e, a tratti, opprimenti con le orchestrazioni che svolgono un duplice ruolo: da raggio di Sole nella tenebra densa creata dai greci ad esacerbata puntualizzazione dell’incubo musicale di pezzi come “Communion” e “Pyramid God”. La seconda metà del concerto è un vero e proprio viaggio nelle atmosfere violente e oscuramente oniriche dei Septicflesh con, in successione, “The Vampire From Nazareth”, “Lovecraft’s Death” e “Anubis”. Un trittico che chiama il pubblico, partecipe ed estasiato, a moshpit sfrenati, stemperati dal gelido terrore osannato da Spiros. Si chiude con la maestosa “Prometheus”, un inno all’individuo che pone fine ad un concerto spettacolare, costruito sul sound unico che è ormai marchio di fabbrica di una delle band più evocative in circolazione.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

BRUTAL SEPTICFLESH
brutal assault septicflesh 2
brutal assault septicflesh 3
brutal assault septicflesh

NOD NOD

Il bello dei festival è che ,oltre a permetterci di assistere ai concerti di gruppi che amiamo e conosciamo, ci dà l’opportunità di assistere ad esibizioni di nomi magari fuori dal nostro raggio e più facilmente raggiungibili quando suonano in patria. E’ il caso di questi Nod Nod dalla Boemia del sud, oggetto musicale non facilmente identificabile, un misto di post metal e noise con qualche spruzzata di sludge, una voce femminile che oltre che seguire i dettami di genere sembra ricalcare le impronte di una Björk di largo respiro. Intimisti e perfettamente a loro agio in un palco un po’ più raccolto come quello del Metal Stage (benché intuiamo facilmente che la loro dimensione perfetta sia il club), i Nod Nod sembrano suonare all’interno di una lunga jam session, condita di sprazzi di sonorità inaspettate che aleggiano sulle composizioni e che impreziosiscono brani ora trasognanti ora incupiti, tra escursioni post rock e reminiscenze alla Sonic Youth. Un’ottima esibizione ed un plauso all’organizzazione per averli invitati.
(Giuseppe Caterino)

IN THE WOODS…

Gli In The Woods… sono tra quelle band che chi scrive ascolta dai tempi del liceo e che mai avrebbe pensato di riuscire a vedere dal vivo, ed è per questo che arriviamo al Metalgate Stage con un certo anticipo rispetto all’orario dell’esibizione, guadagnandoci – peraltro senza troppi sforzi – un posto in seconda fila sotto il palco. L’attesa però si fa sempre più lunga, dato che il line check della band si prolunga parecchio, a discapito del set che alla fine risulterà di soli quattro brani. Quando finalmente lo spettacolo ha inizio, i problemi di mix non sono ancora completamente risolti, e a farne le spese è soprattutto la voce; nonostante questo e nonostante una presenza scenica non proprio travolgente (complice un allestimento scarno, limitato ad alcuni banner, e l’ora pomeridiana), ascoltare “Yearning The Seed Of A New Dimension” è comunque emozionante ed inaspettato. Mr. Fog (ex Old Forest, tra gli altri), unica new entry della formazione post reunion, è decisamente a suo agio sui vecchi pezzi nonostante i piccoli problemi tecnici iniziali e convince sia nello scream che nel cantato pulito. Non si può dire altrettanto bene dell’intero gruppo – inteso come amalgama di tutti i musicisti – che sconta la lunga assenza dai palchi risultando un po’ impacciato e arrugginito. Il tempo è tiranno, soprattutto nei grandi festival, e manca quello per potersi scaldare adeguatamente: “Heart Of The Ages” riceve comunque un benvenuto fragoroso dal pubblico attento e coinvolto. C’è tempo per soli altri due pezzi, ovvero la lunga e articolata “299 796 km/s”,  tratta dallo sperimentale “Omnio”, e l’unico estratto dall’ultimo disco, “Blue Oceans Rise (Like A War)”, che risulta convincente e all’altezza del materiale più datato. E’ un vero peccato che, complici le lungaggini tecniche sopracitate, il viaggio tra l’antico black metal pagano e le aperture avantgarde più recenti sia stato interrotto bruscamente e troppo in fretta. Da rivedere possibilmente in un contesto più intimo e raccolto.
(Bianca Secchieri)

CORONER

Tra le band in grande spolvero del Brutal Assault, a parere di chi vi scrive, vanno sicuramente annoverati i Coroner. Dal loro ritorno sulle scene alcuni anni orsono attendiamo ancora con ansia un nuovo album di inediti, ma i classici che ci vomitano addosso dal palco sono comunque più che sufficienti a renderci felici; dieci brani che ripercorrono tutta la loro carriera, compreso il finale affidato al primissimo singolo “Die By My Hand” (quasi trent’anni di vita, e non sentirli), eseguiti in maniera magniloquente. L’unico membro fondatore rimasto, ossia Marky Edelmann, ha lasciato la band da un paio d’anni, ma i suoi storici compari non lo fanno rimpiangere; Ron Royce è glaciale al basso e il suo cantato roco ci trapana la spina dorsale alla grande, mentre le intricate e quasi impossibili trame di chitarra di Tommy T. Baron ci lasciano in più di un momento a bocca aperta; ottimo il lavoro di supporto del nuovo batterista Diego Rapacchietti, un vero metronomo, mentre desta curiosità la presenza di un quarto membro ai campioni: dal punto di vista musicale abbiamo avuto la sensazione che poco aggiungesse al complesso del suono, in compenso un commercialista pressoché fermo sul palco dei Coroner fa sempre la sua bella e surreale figura. Speriamo di rivederli presto dal vivo e incrociamo le dita per nuovi brani.
(Simone Vavalà)

MOONSPELL

E’ il momento dei due main event del venerdì e si inizia coi Moonspell. Diciamo subito che abbiamo avuto un assaggio della setlist old school che i portoghesi stanno preparando: si parte con due pezzi dall’ultimo “Extinct”, la title-track e “Breathe (Until We Are No More)”, e con “Night Eternal” (dall’omonimo album). Poi ci si tuffa nel passato (con l’eccezione di “The Last Of Us”, forse posizionata un po’ fuori contesto nella setlist della serata). Fernando ci ricorda che si celebrano i vent’anni di “Irreligious” e, proprio da questo disco, i Moonspell estrarranno ben cinque pezzi (più tre dall’epocale “Wolfheart”) riportandoci indietro nel tempo. Si inizia con l’immancabile “Opium”: la band è in forma strepitosa e, finalmente, i suoni sono all’altezza. Fernando, come sempre, domina la scena, Aires suona in headbanging continuo, quasi fosse posseduto dal ricordo di Ares (scusate il gioco di parole), così come Ricardo, meno defilato del solito. Segue “Awake!”, la già citata “The Last Of Us” (dove ci saremmo attesi “For A Taste Of Eternity”), poi “Ruin & Misery” (pezzo che i Moonspell eseguono live molto raramente, almeno negli ultimi anni) ed il capolavoro “Mephisto”. La band ha cambiato pelle più volte durante la sua carriera, ma sentire questi pezzi non può che creare un po’ di nostalgia per gli esordi più vicini al black metal. Come se la formazione lusitana intuisse questo pensiero, ecco un piccolo cambio all’allestimento del palco e Fernando, ammantato, che annuncia “Vampiria”. E’ la parentesi dedicata a “Wolfheart”, così ecco a seguire il folk di “Ataegina” e la violenza primordiale di “Alma Mater”, che scatena nel numerosissimo pubblco moshpit sfrenati ed un enorme sing along. Le atmosfere sul palco sono sulfuree, i Moonspell sanno di averci ammaliato per quasi un’ora ma manca ancora il sigillo finale: “Full Moon Madness” (ancora da “Irreligious”). A parte qualche chicca, molti pezzi classici non sono propriamente una novità nella setlist del gruppo, ma ciò che ci è sembrato differente è l’arrangiamento decisamente più diretto e violento, che non ha potuto non accrescere l’attesa e le aspettative per la data di ottobre al Live di Trezzo. Concerto strepitoso.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

BRUTAL ASSAULT MOONSPELL

brutal assault moonspell 2
brutal asault moonspell 3
brtal assault moonspell 1

SATYRICON

‘This is armageddon!’. Così si apre uno degli eventi clou dell’edizione 2016 del Brutal Assault: i Satyricon giunti a proporre per intero l’epocale “Nemesis Divina” che, come moltissimi altri grandi dischi, quest’anno vede compiersi il ventesimo anno dall’uscita. Diciamo subito che Satyr e Frost, furbescamente, rivedono leggermente la scaletta, così la strumentale “Trascendental Requiem Of Slaves” prende il posto di “Mother North”; i Satyricon suonano senza pausa fino a “Immortality Passion”, poi è il momento della prima pausa e le prime file reclamano i due pezzi da novanta che i Nostri non hanno ancora eseguito…ma Satyr zittisce tutti con un perentorio ‘when I talk, I talk’. L’evento non ha reso il leader della band affabile e mister Wongraven ci tiene a sottolinearlo: non è una celebrazione di un disco, vent’anni sono solo un numero e non significano nulla; il vero motivo della celebrazione è il numero di persone che si sono avvicinate al black metal tramite questo disco e che la band si sente in dovere di omaggiare, suonandolo per intero dal vivo. Vero o no che sia (diciamo che di dischi black metal seminali prima di “Nemesis Divina” ce ne sono stati parecchi), perdoniamo facilmente a Satyr il suo strabordante ego, in virtù della performance clamorosa che ci sta regalando. Si ricomincia, ed ecco, in successione, le agognate “Nemesis Divina”  e “Mother North”. L’opera è compiuta ed assistere dal vivo ad un disco monumentale eseguito nella sua interezza non lascia certo indifferenti, anzi. I Satyricon riescono nell’impresa non da poco di far percepire l’unicità dell’evento, senza auto-celebrarsi, come se fosse del tutto naturale riproporre un caposaldo di un intero genere. Ma la glaciale presenza di Satyr e Frost è parte integrante (ed intrigante) dei Satyricon che, a dispetto di quanto alcuni potrebbero pensare, sono una live band eccezionale. Ma non è finita: c’è ancora tempo, quindi ecco un po’ di pezzi nuovi (quelli che, forse, si adattano di più ad un concerto) ed il pubblico gradisce, ha ancora voglia di scatenarsi; così, dopo l’interlocutoria “Black Crow On A Tombstone”, l’esplosione di violenza è per il trittico “The Pentagram Burns”, “Fuel For Hatred” e “K.I.N.G”. Poi, così come hanno iniziato, senza troppi fronzoli, i Satyricon salutano il pubblico e lasciano il palco. Ennesima performance di altissimo livello per una band che, ormai, ci fa sembrare naturale la capacità con cui riversa dal vivo la stessa gelida violenza che incide su disco.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

SIGH

L’occasione di vedere il folle combo giapponese in Europa è troppo rara e ghiotta per non rinunciare, ahimé, a parte del set dei Satyricon, e così eccoci al cospetto dell’Oriental, il palco più peculiare del Brutal Assault: solo quattro esibizioni in tre giorni in un cortile interno e chiuso della fortezza che fa da scenario al festival, ma per fortuna nessun intoppo e palco facilmente raggiungibile. L’entrata in scena di Mirai Kawashima e della sua degna consorte Dr. Mikannibal, con mantello e cappuccio, riporta alla mente scene medievali e, insieme, il miglior Takeshi Kitano. L’apertura è affidata alla storica “A Victory Of Dakini” e nel corso del set altri due pezzi vengono estratti dal mirabile esordio “Scorn Defeat”; ed è facile capire cosa vi avesse trovato Euronymous per volerli sulla propria etichetta: folli, maligni, oscuri. I Sigh sono un mondo musicale completamente a sé stante. Musiclamente, complice anche un’evoluzione sonora peculiare, i vari membri sembrano muoversi su coordinate del tutto separate: mentre il leader potrebbe serenamente celebrare i suoi salmi insieme ai Candlemass, la schizoide seconda voce si dedica a un growl da brividi, alternato a un occasionale sassofono degno dei Naked City, oltre a riversarsi cera bollente sul corpo e in gola. E intanto la sezione ritmica incide nel marmo basi ossessive e violentissime, su cui la ciliegina sulla torta sono le trine di chitarra del recente acquisto You Oshima, calato in un buco nero all’intersezione tra shredding, ritmiche AOR (!!) e metal classico di scuola inglese. Aggiungete, oltre ai succitati siparietti sadomaso di Mikannibal, candelabri, fiammate, bacchette magiche con cui il leader sembra guidare il resto della sua folle orchestra: ecco, avrete toccato una minima percentuale di questo assurdo, e splendido, spettacolo.
(Simone Vavalà)

TAAKE

Che fortuna poter assistere a concerti come quello dei Taake: il fumo di scena ha già riempito abbondantemente palco e area del Metalgate Stage, zeppo di fan di Hoest che attendono l’entrata della band per godersi la quasi oretta del black metal glaciale e così venato di epicità che ne connota ogni nota che contraddistingue la band: la prestazione è curata sotto ogni minimo dettaglio, il gruppo macina brani come una macchina impazzita ma sapientemente tenuta a bada dalla presenza di Hoest, vero e proprio accentratore di attenzioni, incapace di rimanere nello stesso punto per più di un pugno di secondi, scheggia impazzita che balza da un punto all’altro del palco urlando i propri lancinanti incubi. I fan sono giustamente stipati per potersi godere ogni momento di questa esibizione estrema ed atmosferica, e fa il suo anche la falce di una persona travestita da Sorella Morte, che campeggia tra le prime file durante la performance. Esibizione ineccepibile e tra le più riuscite dell’intero festival.
(Giuseppe Caterino)

DARK FUNERAL

E’ da poco passata l’una di notte quando torniamo verso i main stage (lo Jagermeister per la precisione) ad assistere allo show dei blackster svedesi, da poco autori di un ritorno sulle scene decisamente convincente come “Where Shadows Forever Reign”. E’ appunto l’opener dell’ultimo uscito in casa Dark Funeral ad aprire le danze, “Unchain My Soul”, subito seguita da “The Arrival Of Satan’s Empire”. La band suona con convinzione, ma purtroppo l’impressione è che i suoni non siano assolutamente ottimali, pertanto l’esibizione sembra un tantino fiacca. Non aiuta inoltre il fatto che, durante l’imponente “The Secret Of The Black Arts”, il pur bravo Heljarmadr abbia come un calo di voce che lo fa quasi apparire in qualche modo intimorito di fronte al glorioso passato della band della quale è frontman, e la cosa in qualche modo affliggerà tutto il resto della performance degli svedesi, che proseguono comunque imperterriti tra fuochi di scena e cattiveria sonora, estrapolando altri tre brani dall’ultima uscita (tra cui la cadenzata “As I Ascend” e la malefica “Nail Them To The Cross”). La pioggia che scende fastidiosa su Jaromer comunque non sembra fiaccare i molti fan della band che in massa occupano il fronte del palco. Comunque sia, l’esibizione dei Dark Funeral è a nostro avviso da rivedere.
(Giuseppe Caterino)

13 AGOSTO

LOST SOCIETY
Se vi trovate in disparte per bere una birra avendo deciso di guardare i Lost Society con calma, da seduti, e poi l’esibizione di questi è talmente esplosiva da costringervi ad affrontare l’alto Sole delle 13.00 in mezzo alla platea incitando questi giovani finlandesi che sembrano usciti dalla macchina del tempo (rigorosamente 1986), qualcosa di molto buono deve esserci. Inviperiti e trasudanti attitudine thrash da ogni poro, tra magliette dei Sepultura e pantaloncini corti tagliati di jeans, questi quattro scavezzacollo hanno tiro da vendere e non intendono fare sconti. Il pubblico capisce, apprezza ed incita questo act giovane e con tanta strada ancora davanti, mentre non resistiamo all’imperativo headbanging e ci godiamo un concerto che sembra essere uscito da altri tempi, con tanto di drum solo che più ottantiano non si può. Attitudine, canzoni che dal vivo funzionano egregiamente e padronanza dei propri strumenti: promossi.
(Giuseppe Caterino)

STUCK MOJO

Con un nuovo cantante e un nuovo bassista appena giunti in sella, la curiosità di rivedere dopo anni il combo capitanato da Rich Ward è elevata; e per fortuna l’esito è più che godibile. Per quanto siano lontani i fasti dei tempi di “Snappin’ Necks” o “Rising”, la band georgiana si dimostra in grande forma, divide equamente la scaletta tra pezzi nuovi e classici, divertendo e trascinando il pubblico nonostante l’orario non proprio favorevole; il giovanissimo Robby J. non fa rimpiangere il mitico Bonz, si agita e fa headbaning con trascinante entusiasmo, lasciando il ruolo di vero frontman, inevitabilmente, al fondatore Ward; che si spreca in battute e siparietti, dimostrando di non aver minimamente perso l’attitudine hardcore che da sempre caratterizza gli Stuck Mojo. Va detto, a onor del vero, che il pezzo “Charles Bronson”, contenuto nell’ultimo album e introdotto da un panegirico verso gli eroi che decidono di difendere la giustizia in proprio raffredda un po’ gli animi dei presenti, ma il gran finale affidato alla doppietta “Rising” e “Not Promised Tomorrow” chiude alla grande un’esibizione intensa, e oltre a generare un mosh pit infuocato vede l’ospitata di Roger Miret degli Agnostic Front alla voce.
(Simone Vavalà)

OMNIUM GATHERUM

Gli Omnium Gatherum si presentano con una setlist che esclude completamente i primi tre dischi, quelli forse dal sound più malinconico, e – dal rimanente repertorio – sembrano scegliere solo i pezzi più diretti, forse più adatti a fare presa facilmente dal vivo, ma che danno una fotografia non troppo fedele del sound della band. Forse Markus Vanhala (unico membro fondatore rimasto) non vuole proporre qualcosa che assomigli troppo agli Insomnium (band in cui milita da circa cinque anni), ma per i fan di vecchia data del gruppo (come chi vi scrive) questo concerto non è esattamente ciò che ci si aspetterebbe dalla band finlandese. Intendiamoci: gli Omium Gatherum offrono un ottimo show, suonando molto bene, capitanati da uno Jukka Pelkonen che si rivela un gran frontman, capace di coinvolgere il pubblico anche quando una buona parte del concerto è concentrata sull’ultimo “Grey Heavens” (non certo il disco migliore della band, anzi forse il meno riuscito). Molti degli astanti, però, sembrano gradire (almeno questa è l’impressione dalle primissime file) tanto da regalare alla band un moshpit continuo ed un paio di circle pit dalla discreta violenza. Certo: tutto sta in quello che ci si aspetta da una band e da come si percepisce la musica proposta da questa. Chi scrive aveva visto dal vivo i finlandesi solo una volta (nel 2011 in Germania) e l’impressione è stata completamente differente.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

MOONSORROW

Il folk-black dei finlandesi Moonsorrow non è, per così dire, ciò che ci si aspetta dalla tipica band dedita a questo genere. Nonostante l’uso di molti strumenti tradizionali ed il riffing dalle melodie decisamente folk, i Moonsorrow sembrano in tutto e per tutto una black metal band. Non c’è la festaiola allegria tipica di questo genere musicale, ma più una cupa maestosità che ricorda (con i dovuti distinguo) i Bathory del periodo viking o i Windir. Meno di un’ora viene concessa ai finlandesi, ma in questo tempo la band riesce a concentrare tutte le sfaccettature della sua musica: l’oscurità. la violenza, l’epicità e, sopratutto, la vena evocativa. Si parte con “Jumalten Aika” (title-track dell’ultimo splendido disco) e “Suden Tunti”. I pezzi della band sono lunghi, elaborati e non facili da assimilare, eppure il pubblico partecipa, accorre numeroso. Si fa un salto nel passato con “Ukkosenjumalan Poika” direttamente dal debut dei Moonsorrow, per poi tornare all’ultimo disco coi sedici minuti di “Ihmisen Aika” e si termina con un altro salto indietro di quindici anni con “Sankaritarina”. Nonostante una proposta che può risultare “spiazzante” per i fan del folk metal ed i testi rigorosamente in lingua madre e dalla lungezza spesso superiore ai dieci minuti, i Moonsorrow riescono a coinvolgere il pubblico ed a suonare in modo impeccabile ed affascinante. Ottimo concerto.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

BRUTAL ASSAULT MOONSORROW
brutal assault moonsorrow 2
brutal assault moonsorrow
brutal assaultmoonsorro3

AGNOSTIC FRONT

New York HardCore alla massima potenza, e fanculo al resto del mondo. Che altro dire della band di Vinnie Stigma e Roger Miret? Veri miti, ma da buoni eroi working class si presentano sul palco assieme ai loro compagni di esibizione senza nessuna posa o sbruffoneria, desiderosi solo di tirare calci e pugni, con un’intensità non solo figurata. Aprono le danze (o meglio, lo stomp) con “The Eliminator”, dal mitico “Cause For Alarm”, e percorrono bene o male l’intera loro carriera divertendosi, tra passetti, faccette e pugni tesi in perfetta tradizione; oltre a brevissimi intermezzi parlati, in cui però la carica di scontro e invettiva politica di un tempo lascia più che altro spazio a incitare i presenti. I canonici cinquanta minuti previsti per tutte le band (poco di più per gli headliner) bastano per far sudare sia la band che il numeroso pubblico assiepato a scalciare sotto il palco, fino allo splendido finale con la trascinante cover di “Blitzkrieg Bop”; che oltre a portare sul palco la crew, diversi musicisti di altre band e un paio di playmate (o almeno l’aspetto e la finezza rientravano nel canone)  fa cantare tutti gli astanti con grandi sorrisi. Ignoranti e insieme imprescindibili.
(Simone Vavalà)

BEHEMOTH

Poche band, negli ultimi anni, stanno assurgendo al rango di “campioni” del metal estremo come i Behemoth; e se la loro evoluzione musicale da un black metal puro a un’originale commistione con death tecnico e brutale sta dando frutti su disco, in sede live decisamente non fanno prigionieri; per chi vi scrive era la terza esibizione in poco più di sei mesi, se quindi avete assistito alla loro calata italica, ve lo premettiamo: nessuna novità in tema di scenografia, quanto alla scaletta vede l’esecuzione di “The Satanist” per intero, con tre bis dai lavori più vecchi. E, Signore e Signori, che dire? Tra bracieri in fiamme, simboli esoterici e abbigliamento da druidi post-atomici, Nergal e compagni fanno sempre il loro grande effetto; già le note iniziali di “Blow Your Trumpets Gabriel” bastano a mandare in estasi il pubblico, che complice la vicinanza geografica li fa praticamente sentire a casa. Migliaia di voci si uniscono ad Adam, vero e proprio maestro di cerimonie, perfettamente supportato dalla ieratica presenza di Seth e Orion al fianco e alle asce, e dal martellare sempre più sugli scudi di Inferno: maestoso, furioso, meritevole di un posto nell’olimpo dei batteristi estremi. Dicevamo gli estratti finali dai precedenti album, con la chiusura affidata alla splendida “Chant For Eschaton 2000”, direttamente dai solchi di “Satanica”: quasi un segnale che il più remoto passato black in toto non gli appartiene più. Grande esibizione, al solito e nessuna pecca da rilevare, tranne forse un volume non proprio all’altezza; ma non è ovviamente una colpa imputabile alla band.
(Simone Vavalà)

BRUTAL ASSAULT BEHEMETO
brutal assault behemoth 2
brutal assault behemoth
brutal assault behemoth5
brutal assaut behemoth4

DESTRUCTION

Non è facile essere tra i padri fondatori di un genere importante come il thrash tedesco e dover continuamente sottostare alla propria nomea, e questo i Destruction lo sanno bene; essere all’altezza del proprio nome può essere sfiancante e non sempre fattibile, e quella del Brutal Assault è una data che lo conferma. Sebbene Schmier sia in una forma che gli permette di tenere il palco come trent’anni fa e non fa mancare assolutamente nulla ai suoi fan, lo stesso non si può dire per la band nel suo complesso. La sensazione è che le sonorità dei teutonici non abbiano saputo mantenere il passo coi tempi, e sebbene una “Under Attack” sia stata comunque accolta con entusiasmo così come pezzi da novanta quali “Curse The Gods”, “Mad Butcher” (con siparietto col macellaio che insegue una piuttosto generosa pulzella – che verrà poi sacrificata con “The Butcher Strikes Back”) o la conclusiva “Bestial Invasion”, la riuscita è sempre sembrata sotto tono, per non parlare del bassissimo volume della chitarra (e con una certa malizia ci viene da pensare che la cosa non sia del tutto non voluta, a voler coprire qualche giro che magari non riesce più come un tempo), e ci rendiamo conto per come è stato suonato anche un brano iconico come “Thrash Attack”, se non lo avessimo conosciuto, non ci avrebbe fatto né caldo né freddo. Purtroppo i tempi cambiano, ma rispetto a molte altre band i cui componenti probabilmente non erano ancora nati quando “Infernal Overkill” veniva pubblicato, il confronto non ha retto. Peccato.
(Giuseppe Caterino)

BRUTAL ASSAULT DESTRUCTION
bruta assault destruction1
brutal assault destruction
brutal assault destruction3

MGŁA

Non c’è dubbio che gli ultimi due anni, almeno per quanto riguarda il black metal, hanno visto la definitiva consacrazione dei Mgła. I blackster polacchi, dalla loro prima uscita discografica nel 2005, hanno visto l’entrusiasmo crescere intorno a loro, con apprezzamento crescente da critica e pubblico. Come da copione M e Darkside sono accompagnati da altri due musicisti, come loro incappucciati e col volto completamente coperto. Come su disco, anche dal vivo la potenza sonora dei Mgła annichilisce il pubblico e la band che diventa anonima, tra l’aspetto ed il fumo che invade il palco. Tutto è minimale, eppure riempie completamente frequenze ed onde cerebrali: un setup minimo, pochi effetti ma ottimamente studiati che rendono ben distinto il lavoro delle due chitarre (componente fondamentale del sound dei polacchi e che era mancata all’Hellfest, dove avevano un po’ deluso le aspettative); la sezione ritmica è perfetta, quasi un metronomo, e la voce corrode e urta come una valanga. Ma, in tutta questa esplosione di violenza musicale, I blackster di Cracovia sono immobili, l’interazione col pubblico è totalmente assente in una gelida misantropia che si palesa anche nei pezzi, uniti tra loro o da un sustain sul termine di un pezzo o da un Larsen che si trasforma nel riff del pezzo successive. Una sola pausa in tutto il concerto, per cambiare accordatura ed i Mgła continuano imperterriti, senza un attimo di tregua. La devozione della band è tutta rivolta alla propria musica ed il pubblico è violentemente costretto ad assecondare l’approccio misantropo e nichilista del gruppo. Il concerto si chiude come l’ultimo disco della band, con “Exercise In Futility VI”, non un saluto al pubblico, non un cenno, solo il nulla ed i Mgła rientrano nella nebbia da cui sono usciti. Spettacolo unico, esperienza quasi trascendentale e dimostrazione definitive che la musica e solo la musica è ciò che deve essere al centro di una band (su disco o dal vivo), arrivando al parossismo di eliminare anche l’identità stessa di chi suona.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

BRUTAL ASSAULT MGLA
brutal assault mgla 1
brutal assault mgla
brutal assault mgla2

UFOMAMMUT

Inutile nascondere il senso di orgoglio nel vedere chiudere un festival estero a una band italiana, ma al di là del campanilismo va detto che la scelta dell’organizzazione è stata decisamente azzeccata; dopo un trittico di violenza variamente declinata (Behemoth, Destruction e Mgla) la proposta dei Nostri si rivela perfetta per un finale, almeno sui palchi principali, di grande atmosfera; la psichedelia rarefatta e ossessiva coinvolge parecchio pubblico, e Urlo, Poia e Vita investono energie e sudore in maniera mirabile. Curiosa la scelta di eseguire per intero l’ultimo “Ecate” come set principale, ma, come si suol dire, in ogni caso si va sul sicuro: il marchio di fabbrica delle ritmiche tribali e delle loro splendide divagazioni di feedback e droni è ben presente, e sicuramente lascerà un ottimo ricordo a chi, magari, li ha visti per la prima volta per pura curiosità. E per i fan più sfegatati non mancano poi “Hellcore” dal capolavoro “Lucifer Songs” e il finale affidato all’ormai classica “God”. Unica pecca, non imputabile al trio di Tortona, l’assenza degli affascinanti visual di Malleus, ma – almeno a memoria del sottoscritto – in tutta la kermesse solo i Ministry hanno avuto dalla loro il supporto di proiezioni, a favore di esibizioni relativamente scarne.
(Simone Vavalà)

VENOM INC.

Possiamo forse nascondere che c’era un po’ di sacro terrore nel vedere i Venom Inc.? Due terzi dei componenti di uno dei gruppi più fondamentali di sempre chiamati all’impresa di portare avanti un nome tanto storico praticamente quattro decenni dopo il debutto può essere un ruolo impietoso, e dopo aver visto i Destruction in un contesto simile avevamo più che altro curiosità, senza aspettarci chissà cosa. La soropresa ha un volto, che è quello inferocito di Mantas, mentre il senso stesso dell’essere smentiti passa per un concerto spaccaossa come quello che i Venom Inc. ci hanno riservato: scaletta da best of, suoni altissimi e grinta da vendere per una prestazione da far impallidire decine di band che da questi signori hanno imparato a suonare. “Welcome To Hell” apre le danze e senza sosta (a parte qualche proclama spaccone di Mantas e Abaddon) si susseguono brani come “Angel Dust”, “Sons Of Satan”, “Black Metal”, cantata anche dai tecnici mixer dello stipato Metalgate Stage, “Countess Bathory”, “In League With Satan”. La band è in una forma che ha dell’inverosimile, e non vogliamo dimenticare la buona prestazione alla voce di Demolition Man, che competa la line-up “Prime Evil”,  dell’89. Insomma, non può che farci un immenso piacere constatare che la fiamma nera, per fortuna, brucia ancora.
(Giuseppe Caterino)

DARKENED NOCTURN SLAUGHTERCULT

Il Brutal Assault si accinge a sparare le ultime cartucce per questa sua ventunesima edizione, e l’ultima esibizione dei main stage (il Metalshop per l’esattezza) è ad opera dei tedeschi Darkened Nocturn Slaughtercult, guidati dalla lungocrinita e biondissima Onielar. Non ci si lasci incantare dalla tunica bianca e dal fatto che la voce sia affidata (con la chitarra) ad una donzella, il black metal dei tedeschi è quanto di più oltranzista possa esserci, e la voce è tutt’altro che l’innesto lirico da black sinfonico che potremmo pensare. Il concerto dei tedeschi attira, nonostante l’orario (sono circa l’na e venti), un numero di persone tale da praticamente riempire la platea, e con buona motivazione: la carica della band è ineccepibile, e i Nostri sono autori di un’esibizione fenomenale grazie al loro black che non presta concessioni ad alcuna vena melodica eppure riesce ad essere piuttosto vario nel riffing e potentissimo nella resa. Una buona parte lo fa lo spettacolo grandguignolesco di Onielar, che come nella migliore delle tradizioni beve sangue da un calice imbrattandosi la bianca veste e come un pallido fantasma regna eterea in mezzo a croci rovesciate e pentacoli, fiamme e musicisti inferociti. Un bel set in qualche modo inaspettato che  tra fiammate dalla copertura dei palchi e dalle mura che cingono l’area principale suggella così una magnifica edizione di questo festival.
(Giuseppe Caterino)

0 commenti
I commenti esprimono il punto di vista e le opinioni del proprio autore e non quelle dei membri dello staff di Metalitalia.com e dei moderatori eccetto i commenti inseriti dagli stessi. L'utente concorda di non inviare messaggi abusivi, osceni, diffamatori, di odio, minatori, sessuali o che possano in altro modo violare qualunque legge applicabile. Inserendo messaggi di questo tipo l'utente verrà immediatamente e permanentemente escluso. L'utente concorda che i moderatori di Metalitalia.com hanno il diritto di rimuovere, modificare, o chiudere argomenti qualora si ritenga necessario. La Redazione di Metalitalia.com invita ad un uso costruttivo dei commenti.