Introduzione a cura di Simone Vavalà
Report a cura di Chiara Franchi, Lorenzo “Satana” Ottolenghi, Simone Vavalà
Anche quest’anno la redazione di Metalitalia.com si è recata in forze in quel di Jaroměř, per offrirvi un report quanto più esaustivo sul Brutal Assault. Un festival che conferma di avere, forse, un solo difetto, ossia la collocazione nel calendario: non è infatti sempre facile incastrare vacanze e un’impegnativa trasferta di quattro giorni a metà agosto, ma sicuramente ne vale la pena. La scelta musicale è di altissimo livello e, a scapito dei grandi nomi che chiudono, per esempio, l’Hellfest, qui ogni anno è possibile assistere a esibizioni speciali di band che, magari, non bazzicano quasi i circuiti tradizionali, con un noto occhio di riguardo per l’estremo. L’offerta di cibo, anche vegano, come di alcool, è amplissima, economica e veloce, e il personale decisamente gentile. Quando poi, come accaduto il secondo e il terzo giorno, il maltempo si accanisce sull’area – il venerdì nella forma di una vera e propria bufera – l’unica conseguenza è lo slittamento di mezz’ora dei concerti, per la gioia degli astanti… almeno i più energici e combattivi, che resistono alle temperature a picco e agli scrosci d’acqua. Rinnoviamo quindi il nostro invito ai lettori a unirsi alla già consistente compagine di italiani che ogni anno si recano qui, e partiamo con i concerti!
MERCOLEDI’ 9 AGOSTO
THE LURKING FEAR
Primo tour per la all-star band svedese The Lurking Fear, quintetto capitanato dall’inossidabile Tomas ‘Tompa’ Lindberg. La formazione (di tutto rispetto) ha l’aria e il sound di un progetto messo in piedi più con l’intento di divertirsi e fare buona musica, che come vero e proprio completamento artistico dei suoi componenti. Col suo death metal ruvido, quasi imbrattato di thrash, il quintetto regala quaranta minuti di onesto godimento, senza troppe pretese, ma avvalorato da un’indiscutibile professionalità. La setlist è ovviamente limitata ad alcuni highlight del gradevole debut album “Out Of The Voiceless Grave” e, come ci si può aspettare da una lineup di questa caratura, l’esecuzione è massiccia, confortata dalla consumata perizia dei musicisti e dall’inconfondibile screaming del buon Lindberg. Un piacevole show di ‘riscaldamento’ per il nostro arrivo al Brutal Assault 2017, offerto da una band che probabilmente può essere meglio apprezzata indoor, in una location più intima e raccolta.
(Chiara Franchi)
FLESHGOD APOCALYPSE
Doveroso dedicare un po’ del nostro tempo ad una delle realtà italiane in maggiore ascesa sulla scena internazionale; tanto più che l’ultima volta in cui abbiamo avuto occasione di vedere live i Fleshgod Apocalypse, la band umbra aveva dovuto destreggiarsi tra diversi blackout e numerosi problemi tecnici. Il maestoso backdrop con l’artwork del recente “King”, i costumi sfarzosi e le orchestrazioni cinematografiche preparano occhi e orecchi alla galoppata dei nostri, che entrano in scena sulle note della “Marche Royale”. Lo show parte col botto, certo, ma il botto finisce per sovrastare lo show. Le basi fagocitano gli strumenti, la batteria ultratriggerata aumenta il senso di finzione (nonostante l’ineccepibile Francesco Paoli), la sovrabbondanza sonora fa risultare fiacche le pur buone voci maschili, togliendo magia alla performance. Nota di merito per la soprano Veronica Bordacchini, capace di coniugare esecuzioni magistrali ad una presenza misteriosa che regala un quid scenografico in più. Non dubitiamo dell’impatto di questa esibizione, ma al tempo stesso non riusciamo a scrollarci di dosso un senso di freddezza e di ‘plastica’ che, forse per una mera questione di gusto personale, ha fatto sì che questa pur valida prova non abbia fatto centro nel nostro cuore.
(Chiara Franchi)
COUGH
Se avete avuto una brutta giornata, vi sconsigliamo vivamente di concluderla con un concerto dei Cough. Non perché andreste a casa delusi, ma perché la band di Richmond riesce fin troppo bene a trascinare il suo ascoltatore sui fondali del disagio con le sue abissali, pesantissime vibrazioni doom. Lenti e inesorabili come l’avvicinarsi della Fine, i quattro virginiani regalano una performance che né la luce piena, né il caldo torrido riescono a rendere meno plumbea. Il cantato lancinante di Parker Chandler, nascosto da una fitta coltre di capelli, ci accompagna nei meandri di una setlist che riempie tre quarti d’ora con una manciata di titoli e una cascata di dissonanze, facendoci sprofondare nota dopo nota in un torpore ipnotico. La ristretta location dell’Oriental Stage non inficia il risultato: il palco, incastonato tra le mura della fortezza, sovrasta un pubblico numerosissimo, che si lascia mansuetamente rigurgitare addosso, uno dopo l’altro, i torrenziali statement di nichilismo e devastazione spirituale dei Cough. Una performance che rende giustizia e, anzi, aggiunge valore alla prova in studio, motivando oltre ogni ragionevole dubbio l’entusiasmo attorno a questa band.
(Chiara Franchi)
GORGUTS
Il pomeriggio è afoso quando i Gorguts salgono sul Main Stage “Sea Shepherd”. I Deathser canadesi partono subito diretti con “From Wisdom To Haste” per poi regalarci la combo tratta dal magistrale album “Obsucra”, composta dalla title-track, “Nostalgia” e “The Carnal State”. Luc Lemay e soci macinano riff e scale sul palco, come una vera macchina da guerra; i virtuosismi ci sono ma sono relegati a mezzo per esprimere violenza sonora sugli astanti. Tutto sembrerebbe funzionare per il meglio, ma qualche problema ai suoni (almeno per quanto abbiamo potuto sentire dalle prime file) penalizza non poco la band di Montreal. Il pubblico, però, sembra non dare troppa importanza a questa lacuna e partecipa con trasporto all’esibizione dei Gorguts. Si torna a “From Wisdom To Hate” con “Inverted” per poi chiudere (scelta forse non felicissima) con “An Ocean Of Wisdom” e “Forgotten Arrows” dall’ultimo full-length “Colored Sands”. Alla fine, forse per il caldo o per il sound non perfetto, anche la band perde qualche colpo e sbaglia qualcosa, ma lo show resta, nel complesso, di buon livello. Forse ci saremmo aspettati qualcosina in più, ma non possiamo lamentarci
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
ROOT
Avendo avuto occasione di assistere già in passato a un’esibizione dei Root, non è proprio con entusiasmo che abbiamo preso posto sotto palco questo pomeriggio; ma noblesse oblige, complici il loro stato di culto, la sporadicità delle esibizioni all’estero e il fatto che giocassero in casa, ci è sembrato doveroso riprovarci. E parlare di delusione è eufemistico: il loro show è per buoni quaranta minuti noioso, spompato, musicalmente vecchio, come del resto già le uscite più recenti in studio sembrano trasmettere. E, in aggiunta a questo, l’eterno leader Big Boss ha la presenza scenica e il carisma di Frate Metallo; le sue mossette superano abbondantemente la soglia del ridicolo, e quando per tre pezzi si siede su uno sgabello, a declamare senza alcuna intonazione i testi leggendoli, siamo ai limiti della sopportazione. Peccato perché la band pare invece in buona forma, ma costretta nel ruolo di giovani turnisti al servizio degli stanchi deliri di un occultista in età da pensione. Risollevano appena appena le sorti le conclusive “Píseň pro Satana” e “666” tratte dal seminale “Zjevení”, suonate con trasporto, maggior energia e – soprattutto – Big Boss in secondo piano. Ma la sensazione che giungano fuori tempo massimo è troppo forte.
(Simone Vavalà)
MADBALL
Anche quest’anno l’appuntamento con l’hardcore newyorchese di alto livello è garantito, in quel del Brutal Assault, e a dirla tutta l’esibizione dei Madball si staglia col senno di poi tra le più trascinanti dell’intero festival. Trent’anni di attività sotot il segno della pura adrenalina segnano ottimamente la via, e Freddy Cricien &co. offrono uno show senza sbavature, con tutto il campionario del cas: ringraziamenti alla scena, a metà delle band presenti, un richiamo agli Agnostic Front – band “madre” e in cui del resto canta il fratello del frontman e una furia di rara potenza, nonostante ammettano timidamente di amare il metal senza esserne dei paladini. Tranne Hoya Roc, il gigantesco e gigione bassista, che non salta una pausa tra una canzone e l’altra per chiedere ai presenti della marijuana, ma quando si tratta di suonare guida la sezione ritmica in maniera roboante. Tra gli highlight, brani come “Can’t Stop Won’t Stop” e una versione accelerata di “Down By Law”, ma l’intera ora dei quattro è stata un’occasione ininterrotta per saltare (e pogare) sotto palco.
(Simone Vavalà)
MACABRE
Ci avviamo sotto il tendone del Metal Gate e una discreta folla accoglie uno dei gruppi più malati e inquietanti che vi capiterà mai di vedere dal vivo: gli americani Macabre. Si parte con “Zodiac” e si continuerà con materiale preso prevalentemente da “Dahmer” e “Sinister Slaughter”; la band si presenta in perfetta tenuta “redneck” e Lance “Corporate Death” Lencioni è un evidente tributo a Ed Gein. Il mix di grindcore e suoni death metal che fece dei Macabre una band ispiratrice della nascita dello stesso death metal, colpisce come un pugno in faccia e i tre di Downers Grove macinano un pezzo dietro l’altro con Lencioni che introduce ogni song, raccontandone la storia e gli aneddoti cui è ispirata: i serial killer, ispirazione e ossessione del gruppo, vengono chiamati per nome, così Dahmer è semplicemente “Jeffrey”, come se si parlasse di un amico o di un conoscente comune. La stessa band è inquietante: gli sguardi di Corporate Death e Nefarious fanno paura, tanto appaiono folli e prossimi a commettere gli efferati crimini di cui cantano. Il massacro sonoro si conclude con l’invito dei Macabre a fumare erba con loro nel backstage (invito che, visti i personaggi, pensiamo pochi abbiano accolto). Resta la forza stravolgente di un trio che, dal 1984 a oggi, non ha mai cambiato formazione, confermando un affiatamento che è ben visibile sul palco.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
HELHEIM
Gli Helheim, specie negli ultimi anni, non sono certo una band facile da vedere dal vivo. Centellinando i proprio show a tre o quattro all’anno, trovarli ad un festival -seppure con una setlist breve come sempre avviene in questi casi- è un’occasione unica che non ci lasciamo scappare. Il Viking Metal della band norvegese è, da sempre, più che altro un Black Metal atmosferico, anche se non privo di sfuriate, con testi ancorati alla tradizione nordica. Il nocciolo della formazione è identico fin dalle origini, a parte la seconda chitarra di Reichborn che, ormai, è in formazione da quasi dieci anni e l’affiatamento sul palco è più che evidente: H’grimnir è un gran frontman e riesce a calamitare l’attenzione del pubblico: pezzi come “Ymr” o “Synir Af Heidindomr” svelano tutto il potenziale del gruppo e hanno un’ ottima resa live, a dispetto di strutture non proprio immediate e semplici; coadiuvati da un telo su cui vengono proiettate alcune suggestive immagini, gli Helheim ci trasportano in un mondo antico e ricco di evocazioni, con un concerto a tratti ipnotico e trasognante, senza lasciare da parte i momenti più gelidi e violenti (“Raunijar” su tutte). Uno show impeccabile che rende giustizia a una band e a un genere, dimostrando che, spesso (sopratutto dal vivo) non sono necessarie grandi scenografie per trasmettere le sensazioni tipiche del Black Metal.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
DILLINGER ESCAPE PLAN
Ultima occasione (forse) per vedere in azione i The Dillinger Escape Plan. Come noto, infatti, la band ha annunciato l’intenzione di appendere gli strumenti al chiodo anche se, da parte nostra, qualche euro su una reunion non troppo lontana nel tempo siamo pronti a scommetterlo. Il tour d’addio della folle combo statunitense vede la band in bilico tra l’esigenza di offrire ai fan una gratificante doccia di hit e quella di promuovere l’atto finale della propria discografia, “Dissociation”, uscito a fine 2016. Comprensibile, quindi, la scelta della setlist, che pesca in modo equilibrato tra passato e recentissimo presente. Comprensibile anche la scelta di aprire con “Prancer”: non crediamo sia del tutto casuale che il lyric video del brano inizi con una definizione di cosa sia il canto del cigno, descritto come “una frase metaforica per un ultimo atto, sforzo o performance tenuto prima della morte o del ritiro dalle scene”. Lo show scorre a velocità supersonica in un lago di essenziali luci blu, in cui l’inarrestabile macchina da guerra chiamata The Dillinger Escape Plan non ha bisogno d’altro se non della propria bravura e della propria psicosi per tenere altissimo il livello d’attenzione. Psicosi meramente musicale: gli indiscussi protagonisti della scena, il palestratissimo Greg Puciato e un Ben Weinman dagli occhi particolarmente sgranati, non sembrano più aver bisogno di dare spettacolo arrampicandosi ovunque e radendo al suolo il palcoscenico. In assenza di numeri da circo, l’unica cosa davvero funambolica è il susseguirsi di brani vecchi e nuovi, che tra la sofisticata “Symptom Of Terminal Illness”, l’irrinunciabile “Milk Lizard” e la forsennata “Surrogate” danno modo ai musicisti di fare sfoggio di tutto il loro repertorio tecnico ed espressivo. I cinque prendono fiato su una “One Of Us Is The Killer” particolarmente intensa, per poi riprendere a volteggiare, con naturalezza disarmante, nel dedalo di “Farewell, Mona Lisa”. Certo, i suoni non permettono (almeno dalla nostra posizione, un po’ decentrata verso il bassista Liam Wilson) un’ intellegibilità cristallina del puzzle schizoide proposto dai TDEP. Ci consola tuttavia la consapevolezza che molto difficilmente contorsionismi musicali di questo calibro suonano dal vivo come in studio – e non certo per difetto dei musicisti. Come in uno spettacolo pirotecnico, l’avanzare dello show alza gradualmente il tiro e la spettacolarità, portandoci a “Hero Of The Soviet Union” in mezzo ad un pubblico esaltatissimo. Siamo alle battute finali, affidate ad un bis che accosta l’ultimo e il primo atto della devastante creatività della band: “Limerenth Death”, tratta da “Dissociation”, e “43% Burnt”, dal debut album “Calculating Infinity”, che ormai diciotto anni fa si abbatté sui cultori della musica heavy in tutta la sua spettacolare nevrosi. Diciotto anni e non sentirli, oseremmo dire; perché è davvero difficile credere che la proposta dei The Dillinger Escape Plan, ancora così fresca e attuale, abbia quasi due decadi sul groppone. Quanto abbiamo detto che siamo pronti a puntare su una loro rentrée?
(Chiara Franchi)
MASTER’S HAMMER
Dopo il sole-out di Giugno in quel di Praga, tornano i Master’s Hammer con la loro seconda data live, sempre in terra natia. Franta Štorm, istrionico e carismatico leader del gruppo, accompagnato dal fedele Necrocock e, per l’occasione da Vlasta Henych (già nei seminale 666 e Törr) e Petr “Blackie” Hošek (ex Root e ora attivamente parte del progetto solista di Big Boss). Il set sul palco è sontuoso: timpani, due ballerine seminude che creano coreografie occulte e luciferine e una band carica all’inverosimile. Franta Štorm parla e scherza col pubblico (da quel poco che riusciamo a comprendere), ma ritorna subito serio quando si tratta di cantare e guidare uno show malsano e perverso. “Ritual” è proposto quasi per intero (otto pezzi sull’intera setlist di tredici) e la band ceca tiene con sicurezza il palco, senza esitazioni o cedimenti. E’ innegabile che una band leggendaria come i Master’s Hammer susciti fascino e interesse e che la possibilità di vederla dal vivo è letteralmente più unica che rara, ma lo show non è privo di sbavature: in primo luogo un po’ troppe interazioni col pubblico che limitano i pezzi proposti (oltre alla barriera linguistiche che, comunque, è più che perdonabile), secondariamente alcuni problemi coi volumi (voce troppo alta e i timpani praticamente assenti) che minano non poco uno degli eventi più attesi di tutto il festival. Resta, quindi, il dispiacere per un buon concerto che avrebbe potuto essere un evento epocale.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
BIRDS IN ROW
Dopo i The Dillinger Escape Plan, è tempo di un’altra dose di ‘core’ ad alto tasso di fuoranza, stavolta in una versione più ruvida e viscerale. Peccato per il tendone del Metalgate semideserto: i Birds In Row sono stati, per noi, una delle belle scoperte di questo Brutal Assault. Fedele alle tendenze underground, ma genuino più che a sufficienza, il terzetto francese investe i pochi astanti con la sua manata di hardcore/post in salsa Converge da un palco quasi nudo, sovvertendo ogni cosa a colpi di riff taglienti e attitudine punk. In un ginepraio di generi e sporcizia sonora, la grinta malata della band arriva diretta come un cazzotto, in un mix fuori controllo di rabbia, melodia, energia e onesto disagio. Appoggiandosi ad una backline essenziale e con un drumkit ridotto all’osso, i Birds In Row danno un assaggio del tutto convincente di cosa significhi essere un vero ‘power trio’. Purtroppo la location non aiuta ad apprezzare pienamente la loro caotica proposta, che non trova sicuramente la sua miglior collocazione sotto ad un telone di plastica. Sicuramente poco deve esserne importato a chi, sotto il palco, non ha resistito alla tentazione di lanciarsi in un pogo scatenato.
(Chiara Franchi)
WOLVES IN THE THRONE ROOM
Se la performance dei Birds In Row va a pieno diritto a collocarsi tra gli highlight del nostro Brutal Assault 2017, quella dei Wolves In The Throne Room finisce, purtroppo, nel novero di quelle che preferiremmo dimenticare. Sono quasi le due di notte, il Metalgate è gremito e la combo statunitense si dilunga in un mezzo soundcheck a scena aperta. Una mossa probabilmente dettata da reali esigenze, ma che di certo non crea le giuste premesse per calarci in quel mondo oscuro e fiabesco che la band tanto bene sa evocare su disco. Il concerto inizia e quasi non ce ne rendiamo conto, se non fosse perché tra le cortine di fumo e le luci soffuse si percepiscono delle sagome che ondeggiano in un headbanging perfettamente sincronico (reso ancora più maestoso dalla smagliante forma tricologica dei musicisti). Vediamo ma non sentiamo che il live è entrato nel vivo, perché i suoni sono talmente fiacchi e confusi da farci dubitare che si tratti veramente dell’intro di “Queen Of The Borrowed Light” e non, piuttosto, di una lunga sequenza di accordi di prova. Sotto i colpi di una resa sonora assai infelice, di una presenza scenica che più che algida appare stanca e di un’esecuzione povera di pathos, i poemi musicali dei Wolves In The Throne Room si svuotano della loro magia e suonano come una versione ischeletrita di sé stessi, a tratti addirittura noiosi. Né paiono esserci segni di ripresa con l’avanzare della performance che, anzi, si rivela via via più carente proprio su quello che dovrebbe essere il punto di forza della formazione a stelle e strisce: l’atmosfera. Un’esibizione piuttosto mesta e una delusione per chi, come chi vi scrive, ama perdersi nel black metal incantato proposto da questa band.
(Chiara Franchi)
GIOVEDI’ 10 AGOSTO
CRYPTOPSY
Continua il tour dei Cryptopsy a celebrazione dei vent’anni di “None So Vile”, pietra miliare di un genere data alle stampe nell’estate del 1996. La band calca uno Jagermeister Stage che si erge su una platea consistente e del tutto incurante della canicola. Dai lati del palco e dal maxi schermo incombe la potentissima immagine di copertina di “None So Vile”: Erodiade, con languido distacco, porge allo spettatore la testa mozzata di Giovanni il Battista. Lo show ripercorre fedelmente il disco, traccia per traccia, nota per nota, graziato da un buon sound e da un caloroso coinvolgimento di pubblico. Poco più di trenta minuti tirati sulla marcia più alta da una band che appare parecchio in forma, anche se dei musicisti che hanno inciso il disco in questione resta in campo solo il micidiale batterista Flo Mournier. Matt McGachy, che all’uscita di “None So Vile” probabilmente giocava ancora con le macchinine, non risparmia né suo growl abissale, né la sua impressionante criniera, portando a casa un risultato più che onesto per la sua non facile posizione. Posizione scomoda certo non solo sua ma dalla quale, comunque, tutta l’operazione esce a testa alta: i ‘nuovi’ Cryptopsy riescono a rendere omaggio ad un capitolo scritto (per lo più) da altri senza fare il verso a ciò che non è più, risultando credibili nel guardare ad un disco iconico da una prospettiva diversa.
(Chiara Franchi)
HOUR OF PENANCE
Tra i portabandiera del nostro paese al Brutal Assault, vale assolutamente la pena menzionare gli Hour Of Penance. I death metaller romani sono attualmente impegnati nella promozione della loro ultima fatica sulla lunga distanza, il buon “Cast The First Stone”, uscito nel gennaio scorso. Il compito presentare al pubblico quest’ultimo lavoro viene affidato ai due singoli che i fan della band hanno già probabilmente avuto modo di ascoltare: la titletrack e “XXI Century Imperial Crusade”. L’influenza della scuola americana è smaccata, ma la band dimostra personalità e attitudine da vendere, galvanizzando un Metalgate affollato e partecipe. Certo, il set è ristretto e anche in questo caso, purtroppo, il tendone si rivela un serio ostacolo alla qualità sonora; ma anche in questo caso ciò non impedisce di gustare quaranta minuti di godibilissimo show. Solidità esecutiva, songwriting compatto, pezzi di presa immediata assicurano ai nostri un’esibizione più che onorevole, in termini sia qualitativi che di risposta di pubblico. La breve – ma intensissima – setlist si chiude con “Reforging The Crowns”, con il cavallo di battaglia “Misconception” e con la benedizione del pubblico. Oltre che con il nostro orgoglio patriottico fieramente gongolante davanti a questa bella prova di una band di casa nostra.
(Chiara Franchi)
THE GREAT OLD ONES
Parzialmente nascosti sotto i cappucci di ordinanza, e con un ritratto di Lovecraft alle spalle, fanno il loro ingresso sul palco i cinque francesi, artefici di una proposta veramente accattivante e di pregio, che trova piena conferma in sede live. Buona parte dell’esibizione si concentra sul recente album “EOD”, compresa l’inquietante intro registrata “Searching For R. Olmstead”, dopo la quale prende forma il loro sfaccettatissimo mix di doom fangoso e derive black. Mentre la sezione ritmica ci si abbarbica alla schiena e guida il nostro battito cardiaco come nei racconti del genio di Providence, le tre chitarre intrecciano melodie peculiari e risuonano davvero nelle nostre orecchie come invocazioni alle divinità ancestrali a cui il combo si richiama nel nome; crepuscolari e insieme aggressivi, ipnotizzano il pubblico efficacemente, confermandosi una delle migliori realtà contemporanee in ambito estremo, specie per coloro che non amano le facili etichette.
(Simone Vavalà)
SWANS
“È la prima volta nella mia vita che lo faccio, ma qui mi pare giusto!”: corna al cielo, un sorriso appena accennato e si presenta così Michael Gira, a cui l’organizzazione ha riservato lo slot più lungo dell’intero festival, con poco meno di due ore a disposizione. E sarebbe del resto impossibile anche solo entrare nel mood degli Swans in meno tempo, fosse solo per il fatto che il primo brano, ossia la riproposizione per intero e senza soste delle prime due tracce dell’ultimo “The Glowing Man”, occupa da solo i primi quaranta minuti. Lisergici, trasognati, devastanti: il combo di Gira è questo e molto di più, e se apparentemente la loro proposta musicale è lontana anni luce dal mood del Brutal Assault, il risultato per le orecchie e lo spirito è assolutamente in linea. Il secondo brano dura appena una decina di minuti, prima di riprendere la cavalcata verso l’inferno in due comode tracce per l’ultima ora. Le note ripetute fino all’ossessione dal fedele chitarrista Norman Westberg, il tribalismo della batteria – che stupisce come riesca a tenere i giri nonostante l’indefinibile fluidità della musica, gli inserti dei restanti strumenti sono tutti curati dal Maestro di Cerimonia, che cura e osserva i passaggi di tutti i suoi comprimari. Sì, perché in primis gli Swans sono la restituzione degli incubi interiori del solo Gira, di cui siamo resi partecipi, come sempre, a occhi sbarrati e orecchie in deliquio. Assordanti ed emozionanti, decisamente Brutal.
(Simone Vavalà)
SAMAEL
Anche se la sera non è ancora calata su Jaroměř, il backdrop con la colossale scritta ‘Samael’ basta a far scivolare sulla platea un’atmosfera fumosa. La band festeggia quest’anno trent’anni di carriera e si appresta, contestualmente, a pubblicare un nuovo album – “Hegemony”. Ma in questo tardo pomeriggio funestato da qualche nube, è decisamente il primo dei due obiettivi a farla da padrone: solo la nuova “Angel Of Wrath” darà infatti, a un passo dalla chiusura del set, un breve assaggio di cosa potremo ascoltare il prossimo ottobre su disco. Per il resto, la combo svizzera si lancia in un revival focalizzato soprattutto sui suoi gloriosi mid-nineties, con “Cermony Of Opposites” e “Passage” a fare la parte del leone. I fratelli Locher appaiono in gran forma, supportati da un bicolore Marco Rivao (il chitarrista ha optato per un look a metà tra Wes Borland e l’Ostetrika Gamberini) e da un ottimo Thomas Betrisey, il cui basso groovy aggiunge tiro ad una performance che sfida chiunque a starsene fermo. Sintetizzatori a palla, batteria sintetica e quella giusta dose di tamarraggine rendono lo show dei Samael una delle parentesi più trascinanti di tutto il festival: vero intrattenimento sul quale è davvero difficile non ballare, ma che riesce al tempo stesso a creare un’atmosfera potente, quasi totalizzante. I fan di vecchia data possono leccarsi i baffi su “Shining Kingdom” “Baphomet’s Throne”, e “My Saviour”, mentre luci ad hoc accompagnano a suon di headbanging verso un tramonto dalle tinte decisamente industrial. Con queste premesse, siamo impazienti di bissare al Metalitalia.com Festival!
(Chiara Franchi)
GNAW THEIR TONGUES
Strana esperienza, un live degli (se il plurale è concesso) Gnaw Their Tongues. Di fatto progetto solista dell’inquietante artista belga noto come Mories, lo straziante grumo di cacofonie noto sotto questo moniker si presenta in sede live come un duo: da una parte la sua mente creatrice, con tutta l’abbondante persona che la contiene; dall’altra, una ragazza addetta al controllo delle basi. Lo show si tiene nella sede più congeniale che potesse trovare al Brutal Assault, ovvero quella dell’Ambient Lounge. A metà tra il baretto e la dark room, questo spazio accoglie a tutte le ore tra fumi e luci rosse visitatori stanchi di stare in piedi, ubriachi sonnolenti e chi più ne ha, più ne metta. Seduti per terra in mezzo ad un’umanità quantomeno variegata, subiamo una buona mezz’ora di urla e veemenza provenienti dalle viscere e dal basso di Mories, accompagnate da una malefica gragnola di strida elettroniche che sembrano salire direttamente dall’inferno. Più o meno quello che potete sentire in cuffia, con il plus della sinistra presenza del suo deus ex machina e di una coppietta impegnata in uno scambio salivale attaccata alle casse. Show interessante nel suo essere malsano; decisamente non per tutti i palati.
(Chiara Franchi)
EMPEROR
Il sentore dell’ennesima reunion a fini economici è persino scontato nel caso degli Emperor, date le prese di distanza – musicali e ideologiche – espresse negli anni da Ihsahn. Ma da qui a trovare un difetto nella loro esibizione, il passo è troppo lungo. Già in quel dell’Hellfest avevano dato vita a uno show mirabile e pressoché perfetto, che qui replicano con ancora più rodaggio sulle spalle. Inutile elencare la sequenza dei pezzi proposti, dato che la serata prevede la riproposizione per intero di “Anthems To The Welkin At Dusk”, da molti considerato il loro vero capolavoro; sospendiamo il giudizio, o meglio sottolineiamo i grandi brividi che ci sono corsi lungo la schiena anche sui due bis, ossia “I Am The Black Wizards” e “Inno A Satana”, entrambe tratte dal precedente “In The Nightside Eclipse”. Quel che è certo è che per tutta l’esibizione Ihsahn si dimostra un trascinatore ieratico e capacissimo, in grado di replicare con ancora più potenza le modulazioni vocali e le intricate trame di chitarra presenti sul disco, perfettamente doppiato da Samoth. Così come Trym non sbaglia un colpo dietro le pelli e i due turnisti al basso e alle tastiere, rispettivamente Secthdamon degli Odium e Zyklon e Einar dei Leprous, contribuiscono alla straordinaria atmosfera; perfettamente racchiusa nella restituzione completa di fiammate, eppure glaciale e ritmatissima, di “Curse You All Men!”. Attendiamo tra due anni il ritorno sui palchi per la riproposizione di “IX Equilibrium”, e lasciamo da parte le polemiche; business is business, e qui abbiamo di fronte dei veri professionisti.
(Simone Vavalà)
POSTCARDS FROM ARKHAM
Assistiamo quasi per caso all’esibizione al Metal Gate della band ceca, essenzialmente per prendere posto per il successivo show dei KMFDM, ma il tempo sotto il loro palco è tutt’altro che sprecato; ispirati anche loro, fin dal nome, alle opere di H.P. Lovecraft, i quattro cechi propongono un’interessante sintesi tra decadenza post-rock, occasionali assalti metal-core e tanta, tanta atmosfera. Le chitarre dipingono trine delicate ma ossessive, su cui si staglia efficace la voce aggressiva del frontman, spesso in grado di passaggi più melodiosi. I loro brani sono lunghi e a tratti meditativi: quasi perfetti per arrivare alle 23, un orario in cui il Brutal Assault si prepara ai grandi nomi e fa comodo rifiatare con piacevoli scoperte.
(Simone Vavalà)
UADA
Finiscono gli Emperor ed è subito il momento di correre nel piccolo Oriental Stage per l’attesissimo (almeno per i blackster più incalliti) show degli Uada. L’atmosfera i quattro di Portland è perfetta: un piccolo palco in un cortile interno della fortezza di Josefov, una pioggia leggerissima che, di quando in quando, rimane in sospensione nell’aria e un pubblico raccolto e interessato. Il palco viene invaso dal fumo e gli americani fanno il loro ingresso: lo show è carico di atmosfere cupe e rarefatte, perfetto per il luogo e l’orario, il materiale preso (ovviamente) dall’acclamato “Devoid Of Light” e la presenza scenica del gruppo (specie di Jake Superchi) è perfetta: diretta, i volti nascosti e i pezzi macinati uno dopo l’altro. Quando si pensa a come dovrebbe essere un concerto Black Metal, non si può non immaginare a uno show come quello degli Uada: il minimalismo che porta ad anonimizzare la stessa band, lascia il posto solo alla musica e il contesto è perfetto, così come l’orario che porta il concerto a concludersi abbondantemente dopo mezzanotte (anche a causa di un lunghissimo sound-check iniziale). Difficile pretendere di più.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
KMFDM
Forse la band più lontana musicalmente dalla proposta media di questo festival, eppure uno dei concerti più trascinanti a cui abbiamo avuto il piacere di assistere. Il chitarrista Jules Hodgson e il batterista Andy Selway, in realtà, si accattivano gigionescamente il pubblico con due magliette a tema (rispettivamente un’enorme croce rovesciata completa di blasfemie e “Keep Calm And Listen To Metal”), ma soprattutto aggiungono tanta potenza alle selvagge cavalcate EBM proposte dal frontman Sascha Konietzko, impegnato anche alle macchine, e alla sua affascinante compagna Lucia Cifarelli, che per buona parte del concerto svolge il ruolo di voce principale e conturbante ballerina. Il grosso dell’esibizione è basato sul recentissimo “Hell Yeah”, e tra gli highlight si segnalano sicuramente “Glam Glitz Guts & Gore” e “Murder My Heart”, danzerecce e coinvolgenti tracce tratte proprio da questo lavoro. I presenti non sono certo spaventati all’idea di ballare a braccia alte, e del resto quando tocca a classici come “A Drug Against War”, è facile vedere l’origine di band come i Rammstein, che volenti o nolenti fanno ormai parte dell’immaginario metallaro.
(Simone Vavalà)
ROTTING CHRIST
Per chi vi scrive, quello dei Rotting Christ è uno degli show più attesi del Brutal Assault e non ci sono pioggia, né vento, né dodici gradi di temperatura che tengano: quando dal palco risuona “Ze Nigmar” potrebbe venir giù anche l’Apocalisse che non ci schioderemmo dalla nostra posizione. E per quanto di parte possiamo essere, non sembriamo gli unici a pensarla così, come conferma l’entusiasmo con cui viene accolta “Katà Ton Daimona Eaytoy”, titletrack dell’ottimo album che la combo greca ha dato alle stampe ormai quattro anni fa. Saranno questa release e il recente “Rituals”, uscito nel 2016, ad occupare il posto d’onore nella setlist della serata: per il resto, la scaletta offre assaggi degli albori della carriera dei Tolis bros (“The Sign Of Evil Existence”, “The Forest Of N’Gai”) e dei primi Duemila (“Athanati Este”). La forza monolitica che caratterizza il sound dei Rotting Christ e il personalissimo songwriting della band emergono in tutta la loro gloria, forti di un’ottima resa e di un’esecuzione priva di sbavature. A incorniciare lo spettacolo, gli anabolizzatissimi George Emmanuel e Vangelis Karzis, fautori di un headbanging sincronizzato al millimetro ai fianchi del frontman, oltre ad una sequela di fulmini che illuminano il palco meglio di qualsiasi effetto speciale: perché sarà contro ogni norma di sicurezza e di buonsenso, ma sentire levarsi il ruggito “Elthe, Kyrie!” mentre piovono saette è quantomeno spettacolare. Da parte sua, Sakis Tolis riconosce l’abnegazione del pubblico che, zuppo dal pomeriggio, resiste fino alle due di notte sotto il palco, nonostante l’aria tagliente e il clima incerto. La sulfurea “In Yumen-Xibalba” ci accompagna tra invocazioni sibilate e riff monumentali verso la chiusura, affidata all’anthem “Grandis Spiritus Diavolos”. Un delizioso augurio di buonanotte, ad alto tasso di malignità.
(Chiara Franchi)
VENERDI’ 11 AGOSTO
CROWBAR
L’esibizione dei Crowbar è densa, in tutti i sensi. Parecchi brani proposti, concentrati in un tempo tutto sommato breve e caratterizzati da un sound pastoso, quasi masticabile. Su tutto, spadroneggiano per carisma, groove e physique du rôle il ‘riff lord’ Krik Windstein e Todd Strange, assolute colonne portanti del palco: basso sfacciato e voce vissuta sono garanzie di quella giusta combinazione di sporcizia e genuinità che è la cifra di tutto un filone della musica heavy, nel quale la combo ha avuto un ruolo di primo piano. La serratissima setlist è un viaggio tra i primi anni Novanta e l’ultimissima fatica dei Crowbar, “The Serpent Only Lies”, uscito l’autunno scorso, in un percorso che ha attraversa tutta la lunga carriera del quartetto americano. Carriera indubbiamente coerente, votata ad un’indefessa aderenza al proprio ‘io’ artistico e ad un certo modo di fare musica – contraddistinto, se ci concedete l’immagine poco fine, da una fiera levata di dito medio contro tutto e tutti. Ciò che accomuna pezzi come “I Am The Storm”, “All I Have (I Gave)” e “The Cemetery Angels” non è solo una certa continuità puramente stilistica, ma anche la persistenza massiccia di un onesto “vaffanculo” che cola, riff dopo riff, dal palco e dalle casse, e nel quale la band sembra crogiolarsi beata. “We are Crowbar, and we come from New Orleans”: così si chiude la performance di un pezzo di storia dello sludge, con quella che più che come una presentazione (ce n’è forse bisogno?) suona come un’orgogliosa proclamazione della propria identità.
(Chiara Franchi)
ULCERATE
Una band veramente mostruosa maciullata da suoni veramente orrendi. Potremmo riassumere così il breve, micidiale set degli Ulcerate sotto il tendone del Metalgate, che in questo Brutal Assault si riconferma croce per le orecchie e delizia in caso di pioggia. Il raffinato frullatore death della combo neozelandese tocca picchi qualitativi assoluti, purtroppo falciati dalla location che ancora una volta amalgama ciò che accade sul palco in una sabbia mobile prossima all’indecifrabilità, penalizzando in modo abbastanza pesante le atmosfere create in studio. Per fortuna, il talento del trio di Auckland non ha bisogno di tanti orpelli per imporsi sul pubblico in tutta la sua mastodontica stazza: nell’affollatissimo padiglione, in un reticolo di luci rosse (in pendant con l’artwork del recente “Shrines Of Paralysis”), Michael Hoggard e compagni danno prova di dove si può portare il death metal, forti del songwriting alieno che li contraddistingue e di un’esecuzione chirurgica. In particolare, Jamie Saint Merat regala una performance tale, dietro le pelli, che farebbe impressione anche se suonasse su pentole a pressione e fustini di nota marca di detersivo. Pochi brani che si susseguono come altrettante raffigurazioni di mondi oscuri e apocalittici, dipinti tra tinte foschissime e intrecci sonori surreali. Un gruppo dalle monumentali doti live, che avrebbe meritato senza dubbio una location migliore.
(Chiara Franchi)
SACRED REICH
Negli ultimi cinque anni, specie in Europa, i Sacred Reich sono (ri)entrati in punta di piedi. I loro show, dapprima non così numerosi, sono ora quasi un appuntamento fisso nei grandi (e piccoli) festival, così che, in un modo o nell’altro, ogni anno capita di rivederli. Ed è sempre un incontro piacevole. D’altrone la loro reunion è stata da sempre votata unicamente ai tour ed è giusto che la band di Phoenix sfrutti questa dimensione il più possibile. Anche al Brutal Assault, Phil Rind e soci non si risparmiano, con la “solita” setlist che, visto l’interesse dei fan, si fa sempre più dura e carica. Purtroppo lo show, a causa della pioggia, soffre di circa mezz’ora di interruzione (verrà poi spiegato che le sospensioni dei concerti sono state concertate con le autorità per verificare la sicurezza dei palchi, visto il violentissimo nubifragio). Ma anche da questo si vede la professionalità di band e organizzatori: tutto riprende e, in pochi minuti, l’interruzione sembra essere già un ricordo: fradici e un po’ infreddoliti, ci lanciamo nel moshpit devastante della tripletta conclusiva: “Death Squad”, “The American Way” e, ovviamente, l’immancabile e massacrante “Surf Nicaragua”. Distrutti e bisognosi di ristoro, ci diciamo che i festival sono anche questo e non sarà certo la pioggia a fermare la nostra fame di concerti. Col senno di poi, ci viene da aggiungere che una band coinvolgente e navigata come i Sacred Reich ha giocato il suo ruolo nel mantenere alta la partecipazione del pubblico dopo l’interruzione. Potere del Thrash che, innegabilmente, trova negli open-air la sua dimensione migliore.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
INCANTATION
La pioggia, inizialmente leggera poi sempre più copiosa, non frena il pubblico e non frena gli Incantation. John McEntee e soci infestano i palchi di mezzo mondo da quasi trent’anni col loro death metal blasfemo e violentissimo. In un’ora scarsa di concerto i deathster americani concentrano undici pezzi, cercando di pescare sia dal recente “Profane Nexus” che dagli inizi di “Onward To Golgotha” e “Mortal Throne Of Nazarene”, passando per il capolavoro “Diabolical Conquest”. John è un grande frontman e trascina gli astanti in uno show frenetico e privo di resipiro. Pezzi come “Once Holy Throne”, “Christening The Afterbirth” o “The Ibex Moon” sono ormai storia di un genere e rivelano le capacità di un gruppo che non ha mai fatto passi falsi, a livello discografico, e che trova, nella dimensione live, la sua espressione migliore. La pioggia è ormai violenta, presagio del nubifragio che si scatenerà nuovamente durante la sera, ma gli Incantation continuano imperterriti concludendo con “Impending Diabolical Conquest” e lasciando un pubblico estasiato per una band che è sempre una conferma.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
TREHA SEKTORI
Vale la pena spendere anche solo poche parole su Treha Sektori, cupo progetto ambient del musicista e visual artist francese Vincent Petitjean (a.k.a. Dehn Sora, impegnato anche nel valido progetto Throane). Immersi nella nebbiosa cornice dell’Ambient Lounge, abbiamo infatti modo di assistere ad una performance elegantissima, che sposa sonorità minimal e video d’autore in un unicum al tempo stesso destabilizzante e poetico. In un silenzio che purtroppo non sarà mai abbastanza profondo, Petitjean ci fa smarrire in spirali ipnotiche intessute da campionamenti, scream quasi sibilati e sintetizzatori, mentre sullo schermo alle sue spalle scorrono scene oniriche e misteriose, con personaggi inquietanti che si muovo in una natura stregata. Un concerto da vedere, oltre che da ascoltare, tanto che consigliamo a chi volesse avvicinarsi a questo artista di accostare alle incursioni su Spotify una visita su YouTube: una proposta sicuramente lontana dal metal tradizionale, ma che sarà gradita a chi ama sonorità sperimentali e rarefatte.
(Chiara Franchi)
CARCASS
Recita un celebre detto americano: “When life gives you lemons, make lemonade”. Volendolo applicare al mondo delle agenzie di booking, potremmo declinarlo in: “Quando i Morbid Angel tirano il bidone, sostituiscili coi Carcass”. A fronte dell’improvvisa cancellazione del tour europeo della band di Trey Azagthoth, infatti, alcune fortunate situazioni (tra cui il Brutal Assault) sono state tamponate dal pronto intervento dei deathster britannici, la cui presenza non può essere certo declassata a semplice rimpiazzo. Infatti, come ci aspettavamo, davanti al backdrop recante l’arsenale chirurgico della copertina di “Surgical Steel” e al un palco illuminato in verde “sala operatoria”, il pubblico appare ben felice di assistere a questa inaspettata esibizione. “Surgical Steel” è proprio il volume dal quale i Carcass scelgono di pescare i primi capitoli del loro show – la strumentale “1985” e “316L Grade Surgical Steel”. I brani vengono accolti con entusiasmo, ma è su “Buried Dreams” che il parterre inizia a pieno titolo a scatenarsi. Le prime file accolgono a colpi di pogo ed headbanging tutto ciò che i Carcass danno loro in pasto, si tratti di una recente “Unfit For Human Consumption” o di un’intramontabile “Keep On Rotting In A Free World”. E come non lanciarsi in un’ovazione quando partono autentiche perle sanguinolente come “Corporal Jigsore Quandary”, “Carnal Forge” o, in chiusura, l’acclamatissima “Heartwork”? Impossibile. Tuttavia, soprattutto nella seconda metà del concerto, avvertiamo qualcosa che non va. Non tanto un problema esecutivo (chitarre protagoniste, Jeff Walker un po’ affaticato ma comunque in discreto spolvero), quanto un sound non pienamente convincente e una generale carenza di groove. Siamo pronti a raccogliere i ‘Ma a che concerto eravate?’ dei fan più indefessi: ci mancherebbe. La nostra impressione, però, è stata quella di aver visto una band navigata, con un repertorio non meno che storico, portare sul palco tanto ottimo mestiere ma forse poche ‘budella’. Che riferito ai Carcass, è veramente tutto dire.
(Chiara Franchi)
ELECTRIC WIZARD
“Sex, drugs and every sort of filth”: difficile trovare miglior definizione dei parti musicali degli Electric Wizard di quella stampata sul programma del festival. Aggiungeremmo soltanto: “Perché drogarsi quando si può assistere ad loro concerto?”. Una performance dei signori del doom psicoattivo è, infatti, l’esperienza più vicina ad un trip che potete fare legalmente e senza mettere a repentaglio la vostra salute. Certo, abbiamo la ragionevole sensazione che qualcuno, nell’affollatissimo parterre, abbia voluto ‘potenziare’ in modo più o meno chimico gli effetti di questo live, ma vi assicuriamo che da parte nostra eravamo storditi a sufficienza dal riffing monolitico della band britannica e dal cantanto ipnotico di Jus Oborn, riversati sul parterre ad un volume esagerato. Un vero e proprio vagabondaggio nei meandri più oscuri della psiche, coadiuvato da visual dai colori sgargianti che alternano clip di una certa cinematografia horror-feticista anni Settanta a scene esplicitamente riferite alle gioie delle sostante psicotrope. Il set prevede una manciata di brani di ampissimo respiro, dilatati all’infinito nella ripetizione martellante degli stessi riff e proposti in versioni solo parzialmente riconducibili a quanto si può ascoltare su disco. “Witchcult Today”, “Black Mass” e “The Satanic Rites Of Drugula” si allargano come un blob, mentre scorrono fotogrammi degli stessi film con cui la band ha nutrito il proprio immaginario. “Return Trip” è tutt’altro che un viaggio di ritorno: le note ci piombano letteralmente addosso, con una pesantezza quasi fisica. Ogni colpo di cassa, ogni vibrazione del basso di Clayton Burgess, ogni lamento affidato al microfono è un’ondata che colpisce in pieno, erodendo con magistrale lentezza la percezione del mondo esterno e del tempo che passa. Dopo una torrenziale “Funeralopolis”, le luci si riaccendono e la sensazione è quella di essere usciti da una bolla: il senso di smarrimento sembra diffuso, vista la quantità di sguardi spaesati che ci circonda. Una performance potente, in grado di rapire lo spettatore e impreziosita da una rilettura dei brani che aumenta quel senso di irripetibilità che caratterizza un ottimo live.
(Chiara Franchi)
SABATO 12 AGOSTO
ARTILLERY
La band dei fratelli Stützer non regala certo novità roboanti, ma la loro è sicuramente la prima esibizione in grado di coinvolgere particolarmente il pubblico presente; il carisma dei due fondatori si fa sentire, e Andrey Fedorenko, che prende il posto in sede live del cantante ufficiale Michale Bastholm Dahl è un buon trascinatore. Non si può certo dire che il pubblico sia pronto a fare i cori in massa, ma i pezzi selezionati che attraversano un po’ tutte le fasi della loro carriera, fanno avvicinare anche un buon numero di avventori più pigri, che a quest’ora (e all’ultima giornata di un festival piuttosto impegnativo), cercano solo di capire come tirare sera e non morire. Chiusura affidata a “Into The Universe” e al suo riff tritaossa, direttamente dal loro debut “Fear Of Tomorrow”; un album che, se non proprio seminale, sicuramente con i suoi trentadue anni di vita merita il nostro rispetto. E il discreto moshpit creato nelle prime file.
(Simone Vavalà)
PRONG
Parlando di band in giro da una vita e sempre pronte a scuotere il pubblico già alle tre del pomeriggio, se non prima, ecco i Prong. La fortuna non ha particolarmente irriso a Tommy Victor in termini di vendite, ma questa è una storia ormai vecchia; che conta è la capacità di trascinare le masse che il trio sa mettere in campo, e in questo il sodalizio con Art Cruz dietro le pelli e Jason Christopher al basso pare essere una miscela davvero esplosiva. Quest’ultimo, in particolare, è un perfetto gemello di Tommy, tra facce stralunate, roboante cattiveria – e pupille strettissime; ma che ci sia dietro qualche aiuto in polvere o meno, che conta è la mazzata in faccia che i Nostri sanno offrire in circa cinquanta minuti: la loro selezione va da “Beg To Differ” dall’omonimo album a “Divide And Conquer”, ritmatissimo brano dell’ultimo e buonissimo “Zero Days”. Non si contano le volte in cui il leader della band e il bassista incitano il pubblico al circle pit, ottenendo una risposta più che discreta, e quando tocca alla doppietta finale “Whose Fist Is This Anyway?” e “Snap Your Fingers, Snap Your Neck”, il parterre si trasforma in un meritato baccanale: fatto di cori, braccia alzate e spintoni entusiasti. Ancora una volta, immarcescibili.
(Simone Vavalà)
MALIGNANT TUMOR
Una certa delusione per chi non segue i Malignant Tumor e li ricorda per gli esordi grindcore e i numerosissimi split, fino al massacrante “Dawn Of A New Age”. Ma, oggi, i quattro cechi sono tutt’altra band: pur non rinnegando il passato grindcore e punk, sono ormai da circa quindici anni dediti a un sound più crust e rock, con qualche spruzzata di Metal classico: l’esempio migliore potrebbe essere un incrocio tra Motörhead e Venom con qualche ricordo, nei pochissimi pezzi del vecchio repertorio (comunque in parte riarrangiati) dei General Surgery. Questo cambio di genere, per quanto ormai consolidato, non era (evidentemente) noto a molti, sopratutto alla parte del pubblico non proveniente dalla Repubblica Ceca, e porta una buona parte degli astanti a lasciare presto il tendone del Metalgate. Chi, come chi vi scrive, invece conosce e gradisce il “nuovo” approccio del gruppo si trova con più spazio per divertirsi e lanciarsi in qualche occasionale moshpit. Le canzoni non saranno certo il massimo dell’originalità, ma va bene così per un’ oretta di divertimento “ignorante” e senza troppe pretese. Il corpulento Martin “Bilos” Bílek ci appare un ottimo frontman, anche se per ovvie barriere linguistiche, ci perdiamo la maggior parte delle interazioni col pubblico di casa che, comunque, reagisce ottimamente e, a fine show, sembra decisamente divertito e soddisfatto. Come noi, del resto.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
OATHBREAKER
Gli Oathbreaker vanno a collocarsi di prepotenza sul podio delle migliori performance viste in questo Brutal Assault. Certo, partiamo entusiasti e con i timpani ancora esaltati da “Rheia”, ma si sa: grandi aspettative necessitano di grandi soddisfazioni e, in questo caso, le incontrano tutte. La scaletta è limitata a soli quattro pezzi, fluviali dimostrazioni dell’indefinibile miscuglio di hardcore, post e black che costituisce la cifra stilistica (soprattutto più recente) della band fiamminga. In tal senso, l’apertura affidata a “10:56” e “Second Son Of R.” suona come una dichiarazione di intenti rivolta anche a chi non conosce la proposta dei ragazzi di Gent. L’esecuzione è impeccabile, penalizzata solo da un volume non sempre ottimale delle voci. E a proposito di voci, non possiamo esimerci dal tributare a Caro Tanghe una buona parte del merito nella riuscita di questo show: anche in piena luce, anche in una location che forse non è la più congeniale a questo genere, la giovane cantante riesce a trasmettere una poeticità dirompente, scivolando dai puliti angelici al suo screaming disperato, fragile e potente. Il suo si conferma, a nostro avviso, uno dei più interessanti contributi femminili alla scena metal presente, capace di fare davvero la differenza in termini di sensibilità e atmosfera. A confortarci in questa affermazione, la resa live di “Being Able To Feel Nothing”, viaggio nella desolazione di quasi plathiana memoria. Chiude la performance “Glimpse Of The Unseen”, reminiscenza degli esordi della band e del loro momento forse più ‘grezzo’ e, per certi versi, meno personale. Attendiamo con ansia il prossimo atto sulla lunga distanza.
(Chiara Franchi)
TIAMAT
Quello dei Tiamat al Brutal Assault è probabilmente il concerto peggiore a cui abbiamo mai assistito. Quello dei Tiamat al Brutal Assault è probabilmente il concerto più intenso a cui abbiamo mai assistito. Per capire questo doppio aspetto, permetteteci prima un “disclaimer”: molti hanno semplicemente trovato l’esibizione della band svedese pessima sotto ogni punto di vista e, di certo, non si può dar loro torto. Si potrebbe chiudere il discorso dicendo che, se versi nelle condizioni in cui versa Johan Edlund, non sei minimamente in grado di affrontare uno show e stai, in qualche modo, truffando chi viene a vederti. E, a scanso di equivoci, non stiamo parlando dell’ultimo Lemmy che era, evidentemente, a pezzi ma “ci provava”: stiamo parlando di una persona che si presenta completamente priva di lucidità e tende a rovinare quel poco di buono che gli altri membri della band cercano di fare. Eppure… Eppure stiamo parlando dei Tiamat e di “Wildhoney”, non certo un connubio che sprizzi allegria e gioia di vivere. Già “Wildohney” che, in teoria, avrebbe dovuto essere eseguito nella sua interezza e, invece, perde pezzi con un Edlund che spesso va a controllare la scaletta sulla setlist appoggiata alla batteria; un Edlund che spiega di trovarsi lì per celebrare i venticinque anni di un disco, aggiungendo che forse sono di meno, tirando un improbabile “diciassette anni” e chiudendo con “beh, fate voi i conti era il 1994”. Un Edlund che sbaglia testi e attacchi, che a metà concerto scaraventa a terra la chitarra, dicendo che non vuole mai più suonarla. Un Edlund che introducendo “A Pocket Size Sun” parla di come, quando scrisse il pezzo sotto l’influenza degli acidi, il sole gli sembrasse piccolo, quasi da poter prendere e mettere in tasca, “proprio come la luna piena di stanotte”, che -in realtà- è un lampione. Un Edlund che si scusa continuamente col pubblico, che non ha più forze ed energie per combattere con i suoi demoni, figuriamoci per cantare e suonare il disco probabilmente più sentito di una carriera strepitosa. Tutto termina esattamente come è cominciato: nel caos, nel marasma e nell’imbarazzo, quell’imbarazzo che i tedeschi, con un termine dalla difficile traduzione, chiamano “fremdschämen”, cioè il provare noi stessi vergogna per qualcosa che ha fatto un’altra persona. L’intensità della performance dei Tiamat è immensa, se si ha la voglia di coglierla (ed è sacrosanto che molti non l’abbiano avuta e si siano soltanto sentiti presi in giro). Su tutto resta una band che ha fatto del suo meglio per suonare un concerto azzoppato e rovinato dall’instabilità del suo frontman. Su tutto resta Lars Sköld, amico di una vita di Edlund, che gli ricorda che il concerto non è finito e deve ancora suonare “The Sleeping Beauty” e la frase che Johan Edlund, l’autore di uno dei dischi più amati da chi vi scrive, ripete più volte durante il concerto:”voi avete ancora una vita, vivetela”. Trova pace, vecchio amico, in un modo o nell’altro. Trova pace.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi )
VALLENFYRE
C’è forse una crisi di mezz’età dietro il nuovo look da vecchio punk con cresta di Greg Mackintosh, ma dall’esibizione dei Vallenfyre tutto emerge tranne la stanchezza o un invecchiamento precoce. Nati come costola violenta e aggressiva dei Paradise Lost in un periodo in cui il chitarrista inglese viveva anche una profonda crisi personale, mostrano dal vivo la sincerità e l’onestà di una band a tutti gli effetti, che non si limita ad essere il progetto parallelo di un artista famoso, anzi; dietro il microfono Greg mostra un carisma eccezionale e una versatilità – almeno in ambito estremo – notevole, oltre alla capacità di intrattenere il pubblico con un approccio surreale degno dei Monty Python. Si sprecano le battute, a tratti spiazzanti, sia verso gli astanti che verso i tecnici (“Se spegnete queste luci mi fate un piacere, sto diventando cieco. Sì, sto aspettando voi al mixer. Non è difficile, cazzo: ho chiesto luci solo dietro. Dai, quando avete tempo riprendo a suonare!”), ma è soprattutto la musica a parlare: la scaletta scorre energica e compatta, il recente – e tendenzialmente ultimo album – “Fear Those Who Fear Him” viene proposto quasi per intero, con il finale dedicato ai due album precedenti, con la title-track di “Splinters” e il loro primissimo brano “Desecration” come saluto a tinte quasi sludge. Un’ottima conferma di classe da parte di un chitarrista epocale che si mostra anche un frontman capace, con alle spalle una band che non sbava mai.
(Simone Vavalà)
DEVIN TOWNSEND
“E adesso, fate quelle cose metal!”. Come incita Devin Townsend al pogo nessun altro saprebbe né, probabilmente, potrebbe fare. Perché Townsend non si accontenta di essere “solo” un chitarrista pazzesco, un compositore poliedrico e un cantante incredibilmente versatile: è anche un intrattenitore brillante, talmente brillante che durante un suo show ci si trova nella situazione un po’ schizofrenica di sgranare gli occhi davanti alla sua bravura mentre ci si ammazza dalle risate. Come se produrre contorsionismi pazzeschi sul manico della sei corde, per di più cantando, non fosse abbastanza, Townsend si produce in uno sfavillante campionario di mossette e facce buffe, facendo sembrare le monumentali impalcature dei suoi brani leggere come l’aria. A fargli da spalla, una band strepitosa che sostiene in musica e spirito la follia del suo leader. Parecchi i brani tratti da “Transcendece”, uscito meno di un anno fa, ma buona parte dello show è dedicata ad un flashback sulla carriera del musicista canadese: dall’opera “Ziltoid The Omniscient” alla Devin Tonwsend Band, molti sono i capitoli citati nel corso della serata, oscillando tra l’intensità di una“Hyperdrive” e una “March Of The Poozers” che è un connubio magistrale di potenza e autoironia. E forse proprio l’autoironia è il vero tocco magico di Devin Townsend, che sembra appartenere a quella splendida e rara tipologia di persone dotate di talento, intelligenza e umiltà fuori dal comune. In un momento in cui vediamo tanti grandi schiacciati dal peso della loro stessa sensibilità, dal successo, da un talento che tanto dà e tanto prende, è confortante sapere che là fuori c’è chi ha saputo scavarsi una via d’uscita tra i mali peggiori a colpi di riff e di ilarità.
(Chiara Franchi)
TSJUDER
Un po’ di fumo per creare pathos, la canonica scritta “Faen” (inferno, in norvegese) sulla pancia di Nag e l’atmosfera è pronta; non serve altro agli Tsjuder per trascinarci al cospetto di Satana, per un’ora e un quarto di ininterrotto uptempo della migliore e insieme più becera fattura. Il trio suona senza quasi soste arrivando quasi ad assordarci, e va bene così: è bello riuscire a respirare un po’ di onesta aria di Norvegia anni ’90, e non a caso subito dopo l’opener “Kaos”, il combo ci riporta indetro nel tempo con la sulfurea “Kill For Satan”. Come detto, non c’è un attimo di respiro, e le uniche cessioni a del sano divertimento si chiamano “Sacrifice” e “I.N.R.I.”: poche band possono permettersi di inanelare due cover di questo calibro (parliamo rispettivamente di Bathory e Sarcofago, per i più distratti) senza diventare ridicoli o leziosi, e gli Tsjuder sono tra questi. Il pubblico è oggettivamente in visibilio, e come gran finale, senza un attimo di cedimento, giunge la title-track dell’ultimo album “Antiliv”. True Norwegian Black Metal senza se e senza ma.
(Simone Vavalà)
INCANTATION (SET DOOM)
Un set Doom degli Incantation. Quando la notizia è apparsa sul sito del Brutal Assault, la curiosità è stata immensa. Il primo set Doom in assoluto per John McEntee e soci, a un solo giorno di distanza dal concerto sul main stage. Con immensa trepidazione ci rechiamo a conquistare le transenne del piccolo Oriental Stage: la distanza che ci separa dal basso palco è di meno di un metro e troviamo i musicisti intenti a farsi da soli il sound-check. Poco dopo tutto inizia. Doom? A tratti Funeral Doom! Alcuni pezzi si prestano e vengono rallentati come “Omens To The Altar Of Onyx”, altri come “Once Holy Thrones” non hanno bisogno di arrangiamenti particolari per rendere l’atmosfera lugubre e pesantissima. Non a caso citiamo due pezzi presenti anche nella setlist del giorno precedente, perché la resa, all’interno di questo particolarissimo set, è completamente differente. Gli Incantation sembrano in tutto e per tutto un’altra band: rallentamenti, break, riff che macinano come una valanga e sommergono con l’inesorbabile forza di una marea, sono privati della loro violenza intrinseca e restano “solo” maligni e cupi. L’evento, e lo si capisce dall’opener “Abolishment Of Immaculate Serenity” fino alla conclusiva “Profound Loathing” (entrambi pezzi mai eseguiti live dagli Incantation, almeno a nostra memoria), è unico, tocca gli esordi della band, la metà della loro carriera, fino all’ultimo “Profane Nexus”: sette pezzi sfibranti e distruttivi che ci regalano una band in versione totalmente inedita e danno, finalmente, un senso all’espressione “special show”.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
AMORPHIS
Gli Amorphis ridefiniscono il concetto di performance impeccabile: sposare una pulizia esecutiva pari a quella che si ascolta su disco al calore e alla carica emotiva di un live non è, obiettivamente, cosa da tutti. Metteteci sopra un lavoro di fonici da levarsi il cappello e il gioco è fatto. La formazione finlandese apre con una magistrale “Under The Red Cloud”, titletrack del suo ultimo e un po’ ruffiano lavoro. Sarà proprio questo il disco che sentiremo di più stasera, con, oltre al brano appena citato, “Sacrifice”, “Bad Blood” e l’incisiva “Death Of A King”. In generale, il repertorio sembra focalizzato soprattutto sull’era Joutsen e i motivi appaiono abbastanza chiari. E’ proprio Tomi Joutsen, infatti, con la sua impressionante padronanza della voce, il vero dominatore del palco: armato del caratteristico microfono (uno dei più brutti mai visti, fatecelo dire), snocciola una dopo l’altra una serie di linee vocali perfette, tanto nel suo pulito baritonale quanto in growling. Esa Holopainen e soci, dal canto loro, riescono a coniugare la loro consumata professionalità alla leggerezza di chi ancora si diverte a fare il proprio lavoro, trascinando il pubblico nella caleidoscopica commistione di generi che costituisce il sound degli Amorphis. Dal folk del nord estremo (“My Kantele”) alle incursioni death (“Into Hiding”), fino agli anthem più cantabili (“Silver Bride”), la band riesce a convincere e coinvolgere in tutte le sfaccettature della propria identità; variopinta, ma al tempo stesso solidissima e coesa. La trionfale chiusura è sulle note avvolgenti di “House Of Sleep”, che fa uscire di scena gli Amorphis sul picco massimo di un’esibizione pressoché scevra da qualsivoglia difetto. Che dire, a recensire concerti come questo ci si sente un po’ come la giuria delle gare olimpiche di ginnastica del ’76.
(Chiara Franchi)
MAYHEM
Non è un mistero la reazione che ha causato a buona parte di noi l’esibizione di frate Necrobutcher &co. in quel del Live la scorsa primavera, tra una resa visiva stantia e derivativa e l’assenza quasi totale dell’atmosfera – forse irripetibile, invero – che permeava “De Mysteriis Dom Sathanas”. Se stasera torniamo in transenna per una replica dello stesso show è chiaramente per un misto di culto e per il desiderio di essere smentiti, e va detto che i cinque riescono a ottenere questo risultato alla grande. Non solo i Mayhem si confermano curiosamente una band che funziona bene ai festival, specie all’aperto, ma complice la luna che fa capolino sul palco e probabilmente un maggior rodaggio, fin dalle note dell’iniziale “Funeral Fog” la band è assolutamente sul pezzo; Hellhammer, ça va sans dire, non sbaglia un colpo per tutta la serata, le chitarre sono letali, per quanto un po’ sacrificate nel mixaggio all’ingombrante e distortissimo basso di Necrobutcher. E su tutti si staglia meravigliosamente il folle Attila: come in numerose altre occasioni, a prescindere dal saio e dal pesante trucco facciale, riesce a trasmetterci assolutamente il Male, facendo sentire davvero maledetti sulle note di “Cursed In Eternity”, scapicollando come un demone durante la trascinante “Pagan Fears” e portando a termine un vero e proprio sabba nel corso del concerto. Quando un piccolo altare prende posto sul palco, poi, l’ungherese si dimostra anche ignifugo, passando più volte le mani, lentamente, sopra candele accese; è qualcosa di più di un inutile aneddoto scenico, perché questa sera, finalmente, i Mayhem ci hanno riportato all’Inferno; e loro, da buoni padroni di casa, si muovono tra le fiamme serenamente.
(Simone Vavalà)
MONOLITHE
I Monolithe sono (per noi) la band che chiude il Brutal Assault 2017. E non potremmo pensare a una chiusura migliore della band parigina e del suo Funeral Doom (finalmente, in un festival, suonato a tarda notte e su un main stage e non relegato il pomeriggio in contesti non proprio adatti). Il gruppo propone, come spesso fa in sede live, parti dei propri pezzi, eliminando i momenti pressoché ambient, e dedicandosi esclusivamente al suonato: una scelta azzeccata per un concerto che tra medley, estratti e versioni “editate” riesce a regalare un’ora di Funeral Doom senza compromessi, senza mediazioni e senza addomesticare il proprio sound. Il pubblico è piuttosto numeroso e la serata buia e piuttosto fredda si sposa alla perfezione con le atmosfere siderali dei Monolithe che esordiscono con un’inedita versione unita di “TMA-0” e “TMA-1”, per poi regalarci degli estratti dai primi due dischi “Monolithe I” e “Monolithe II” (ovviamente estratti, trattandosi di due dischi entrambi composti da un unica traccia di cinquanta minuti), inframezzati da una versione leggermente accorciata di “Ecumenopolis”. Ma la setlist conta davvero poco in un concerto del genere e la riportiamo solo per dovere di cronaca. Quello che conta è la musica, immensa e annichilente nel suo incedere lento e insieme pesante e rarefatto. La fine è un silenzio assordante, la perfetta fine di un concerto Funeral Doom e la perfetta fine di un festival. Abbiamo giusto il tempo per l’ultima Urquell, per salutare vecchi e nuovi amici e per promettere alla fortezza di Josefov che ci rivedremo nel 2018.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)