09/08/2018 - BRUTAL ASSAULT 2018 – 2° giorno @ Jaromer - Jaromer (Repubblica Ceca)

Pubblicato il 11/09/2018 da

Report a cura di Chiara Franchi, Giovanni Mascherpa e Simone Vavalà
Fotografie di Emanuela Giurano

Eccovi il report della seconda giornata del Brutal Assault 2018. Potete leggere qui il report della prima giornata di festival.

DIABOLICAL
Non invidiamo i Diabolical, la lunga palandrana nera che vestono non è propriamente l’ideale per un’altra giornata torrida e umidissima come quella che si sta annunciando. La loro esibizione si inserisce nel conosciuto filone di prestazioni ‘solide e professionali’ che accade spesso di apprezzare nelle prime ore di programma di un grande festival. Formalmente corretti, preparati, grintosi quanto basta per non scivolare nella routine, i quattro svedesi si distendono con arcigna sicurezza sulle note di un death-black articolato, in incessante movimento, seppure privo di un’identità forte. Alla forza d’urto e un discreto ventaglio di soluzioni chitarristiche si sommano infuocata magniloquenza e una certa smania di suonare opulenti, titanici, senza dover ricorrere ad arrangiamenti particolari. La missione di intrattenimento riesce abbastanza bene, la differenza – in negativo, se li mettiamo al confronto con chi lo stesso genere lo mastica a livelli più alti – la fanno le canzoni, un elenco ordinatamente compilato di stilemi del genere, tra le quali nulla spicca per particolare brillantezza. Guardando all’esecuzione in sé e per sé, però, i Diabolical non sono affatto disprezzabili, solo un filo ingessati nello stage-acting. Stiamo parlando di un gruppo di media caratura del resto, non si può pretendere quello che non sono in grado di dare.
(Giovanni Mascherpa)

PERSEFONE
Virtuosismo in abbondanza, giusta proporzione tra potenza e melodia, un pizzico di tastiera, sentimento q.b.: questa, più o meno, la ricetta dei Persefone, band portabandiera del minuscolo stato di Andorra che calca lo Jagermeister Stage davanti ad un pubblico invero un po’ sparuto. Del resto la calura è proibitiva e anche arroccandosi nei pochi centimetri d’ombra con una birra fresca si soffre parecchio. L’aria rovente non sembra però intimidire il sudatissimo frontman Marc Martins Pia, che guida in anima, corpo e corde vocali uno spettacolo ben confezionato, cui solo i suoni perfettibili e la poco atmosferica luce del giorno tolgono qualche punto. Il tech-death molto progressive e molto tastieroso proposto dai Persefone (in questa occasione, con focus sui contenuti degli ultimi due lavori, “Spiritual Migration” e “Aathma”) resta comunque piuttosto interessante da sentire dal vivo, anche se, forse, avrebbe la sua collocazione ideale negli spazi più ristretti di un club.
(Chiara Franchi)

 

EXHORDER
Ritornati in attività nel 2017, dopo che avevano rispolverato lo storico monicker già nel periodo 2008-2011, gli Exhorder si presentano con l’unico compito di creare gran bolge a bordo palco. Quando suonano loro il caldo tende all’inumano, il Sole punta negli occhi e a stare fermi ci si sente andare in fretta in cottura, sudando ettolitri di liquidi. Insomma, non le condizioni più confortevoli di questo mondo. Per fortuna il quintetto è carico a molla e sa scuotere il suo famelico uditorio in pochi minuti, quelli dell’opener “Death In Vain”. Il thrash ignorante e dalle chitarre compresse, una novità per l’epoca di uscita dello storico primo disco “Slaughter In The Vatican”, sa essere al passo coi tempi e in grado di compiacere diverse generazioni. Inevitabile allora che vi sia un certo fermento, vuoi anche per la rarità di vedere la band all’opera. L’interazione da musicisti consumati – due soli i membri originali in line-up, il cantante Kyle Thomas e il chitarrista Vinnie LaBella – e il buon affiatamento fanno andare in fibrillazione, fortunatamente anche la fedeltà esecutiva è di prim’ordine e ci si può far prendere a schiaffoni ottenendo anche l’assaporamento di assoli ben modulati, stacchi calibrati al millimetro e vocalizzi che non affievoliscono la loro rabbia con il susseguirsi dei pezzi. Una scaletta piuttosto ripetitiva nell’assestare ‘sganassoni’ più o meno ininterrottamente nelle stesse modalità fa sì che il pubblico meno facinoroso inizi a guardare l’orologio già a metà esibizione. Una monotonia di fondo che non ci fa esaltare più di tanto, ma è strettamente legata al modus operandi del gruppo, oggi come negli anni ’90 icona di thrash pestato, oleoso e impastato di ruvida rabbia da periferia abbandonata a se stessa.
(Giovanni Mascherpa)

MUNICIPAL WASTE
Non è certo per l’originalità della proposta che ci troviamo per l’ennesima volta sotto il palco dei Municipal Waste; per certi versi, forse, arrivano persino secondi rispetto ai loro cuginetti Iron Reagan, dal punto di vista della varietà musicale, ma poco importa: il loro mix di thrash e crossover sarà pure già sentito (per non dire espressamente che pare di ascoltare una cover continua dei compianti S.O.D.), eppure si muove il collo su e giù ininterrottamente durante la loro esibizione – e dove l’anagrafe lo permette, si poga come pazzi. E poi, come resistere al colpo d’occhio del loro palco? Alla faccia del politicamente corretto, accusa che pare dovrebbe offendere chi si professa di sinistra, campeggia anche a questo giro, dietro di loro, l’enorme fumetto di Donald Trump che si spara alla testa, a cui la band di Richmond non ha rinunciato dopo ormai quasi tre anni di tour. Per il resto, non serve quasi, forse, citare i brani suonati questo pomeriggio; vi basti sapere che i cinque invasati scaldano gli animi ancora più del sole cocente, e vediamo più di una scarpa (oltre a infiniti cappellini e magliette) volare nel cielo in mezzo al circle-pit.  Gli estratti del recente “Slime And Punishment” funzionano decisamente anche dal vivo e i numerosi ripescaggi del loro ormai classico “The Art Of Partying” – compresa la sequenza finale “Pre-Game”, “The Art Of Partying” e “Born To Party” – sono la giusta ciliegina sulla torta di una festa a base di gomiti e sorrisi (a denti spezzati).
(Simone Vavalà)

 

BLOOD INCANTATION
Con quell’aria trasandata, i capelli fuori posto, la totale noncuranza dell’aspetto esteriore, un look che sembra uscito dagli anni ’80 senza che vi sia alcuna mossa studiata in tal senso, i Blood Incantation conquistano la nostra simpatia ancora prima di iniziare. Nell’underground, tra chi li conosce perfettamente, di sfuggita o soltanto uditi nominare, la fama del quartetto è già alle stelle. Sotto il tendone del Metalgate, chi ancora è all’oscuro di cosa i deathster americani siano in grado di combinare, capisce in fretta di avere davanti qualcosa che va al di là dell’immaginabile. Con un solo album (l’acclamato “Starspawn”), un ep, uno split e tre demo alle spalle, i ragazzi del Colorado hanno saputo plasmare un suono unico, sfavillante di un’infinità di sfumature differenti. Schizzate, intransigenti e coloratissime, le trame dei loro pezzi guizzano splendide in una quarantina di minuti di death metal altisonante, tecnico, cerebrale ma mai privo di una botta allucinante. Basta pochissimo per essere travolti e presi per mano dal turbinio emozionale generato da questi musicisti, indaffarati a ripercorrere con puntiglio e foga partiture che definire ostiche è poco, eppure non vengono per nulla semplificate o sporcate in sede live. Ogni passaggio è studiato per essere un diamante di inestimabile splendore, non c’è l’ombra di consuetudine, normalità, in qualsivoglia istante di pezzi che prendono pieghe astrali, volano per il cosmo spargendo morte e follia, dosando sperimentazione, azzardo, cattiveria in dosi sempre azzeccate. Il pit si anima di circle-pit e mosh, anche se viene difficile distogliere lo sguardo da Paul Riedl e compagni, tutt’uno coi loro strumenti e autori di prestazioni singole di classe disarmante. Vedere i chitarristi come muovono le dita per estrapolare i prolungati, bellissimi, assoli contornanti i brani dà l’idea del grado di difficoltà e di quanto studio vi sia alle spalle di ciò che stiamo sentendo. Le due parti di “Vitrification Of Blood” rappresentano un mini-viaggio in un’altra dimensione, condotto da artisti fra i più talentuosi e coraggiosi della loro generazione.
(Giovanni Mascherpa)

MORTIIS
Ci vuole una gran dose di coraggio, o strafottenza, per presentarsi in pieno sole sotto il tendone del MetalGate, tradizionalmente votato alle sonorità più dure, con solo un synth e truccati da folletto schizoide. Ci vuole, insomma, il carisma di Mortiis, che in barba all’orario – complice il pubblico partecipe, fatte salve alcune sparute defezioni dopo i primi minuti – ci offre uno spettacolo ipnotico e veramente provante dal punto di vista emotivo, a patto di essere disposti a farsi abbracciare dalle sue atmosfere epiche, oscure e fuori dal tempo. Come già proposto negli ultimi mesi, anche questo pomeriggio il concerto di Håvard Ellefsen è completamente incentrato sulla restituzione integrale del seminale “Ånden Som Gjorde Opprør”, il manifesto della Cold Meat Industry e del dark ambient: due soli brani fiume, in bilico tra Medioevo e colonne sonore, black metal ed elettronica minimale, in grado veramente di rapire l’ascoltatore. Difficile resistere alla temperatura da forno del tendone in questo torrido pomeriggio, ma forse è giusto così: un disagio che acuisce le sensazioni forti di questa esibizione sabbatica, al termine della quale ci si guarda coi vicini provati ma sicuri che non esiste un tempo massimo per assistere a questa messa in scena. Che a discapito di quasi un quarto di secolo di vita, resta unica e seminale.
(Simone Vavalà)

 DYING FETUS
“Wrong One To Fuck With”. Così titola l’ultimo lavoro della band statunitense e analogamente campeggia a caratteri cubitali sulle casse collocate dietro il trio; giusto così, perché John Gallagher e soci non fanno prigionieri e basta loro meno di un’ora per disintegrare i timpani del pubblico. Se i volumi e la violenza sono quasi devastanti, non è comunque da meno la perizia tecnica, che non perde una briciola nella restituzione live; il chitarrista e cantante vomita cattiveria dal microfono mentre le sue dita compiono veri e propri volteggi sulla tastiera della sei corde, ricordandoci che il brutal death è qualcosa più di un assalto sonoro senza compromessi, e il pubblico apprezza parecchio, sostenendo con pugni alzati e cori la band per tutta l’esibizione, che si conclude tra il sudore e una notevole nube di polvere sulle note del ‘classico’ “Kill Your Mother/Rape Your Dog”: ironia e cattivo gusto perfettamente sposati all’ultraviolenza e saluti a manate in faccia a tutti.
(Simone Vavalà)

 

PALLBEARER
Metalgate, Metalgate, croce e delizia di ogni Brutal Assault. Delizia per il tuo bill, che è sempre assai croccante; croce perché sotto il telone di plastica che sei, di fatto, metà delle volte o non si vede o non si capisce un accidente. Difatti, anche coi Pallbearer abbiamo visto qualche sagoma semovente dietro uno schermo di luce/fumo blu e udito abbastanza male (per la cronaca: avere o non avere i tappi alle orecchie cambiava drasticamente la situazione). Un vero peccato, perché da quello che siamo riusciti ad ascoltare la band ha tenuto un concerto all’altezza delle aspettative, in cui la classe dei brani ascoltati su disco sgorgava copiosa da tutti gli strumenti. Parimenti validi tutti i musicisti, bella ed espressiva la voce di Brett Campbell, intensa la setlist che, offrendo uno squarcio su tutti gli episodi della discografia del quartetto americano, ben esemplifica la portata del suo doom contemporaneo. Un breve viaggio emotivo che accompagna l’ascoltatore in una spirale fosca, ma mai soffocante, dove alla pesantezza del sound fa da contraltare una certa ariosità melodica. Band da rivedere in una situazione acustica più felice.
(Chiara Franchi)

MYRKUR
Eravamo particolarmente ansiosi di vedere Myrkur live. Dopo averla snobbata a lungo come un prodotto plagiarolo e di dubbia utilità, l’anno scorso miss Bruun ci ha sorpresi con il convincente “Mareridt”, alfiere di una piacevole svolta folk in cui i cenni black metal diventano più di un pallido occhiolino agli Ulver, il cantato fiabesco bazzica il suo habitat naturale e Chelsea Wolfe fa il resto. Al palco, quindi, l’ardua sentenza, tanto più che la Nostra si trova in una posizione di primo piano nella scaletta dell’evento.
Il primo impatto, obiettivamente, è forte: Amalie Bruun è una bellezza da copertina, ma soprattutto è dotata di una voce ultraterrena, cristallina, che lascia sbalorditi quando la si sente cantare a cappella. La band di supporto è all’altezza della situazione e i trascorsi da modella della cantante contribuiscono a conferirle una presenza scenica algida e regale che, insieme al mood un po’ ‘fatato’ della sua musica, crea un’atmosfera sospesa. L’incanto, tuttavia, dura poco. Dopo i primi tre pezzi il distacco della frontwoman vira dall’angelico al frigido e sull’immacolata performance inizia ad allargarsi un’ombra di noia. La chitarra mestamente appesa al collo solo per essere accarezzata di tanto in tanto non aiuta. Quando parte “Onde Børn” non siamo nemmeno a metà, ma sapere che i Grave Pleasures stanno suonando a pochi metri di distanza inizia a fare l’effetto della giornata di sole mentre sei chiuso in casa a studiare…
(Chiara Franchi)

 

GRAVE PLEASURES (atto primo)
A volte le sfighe sono pure meritevoli di una loro benedizione a posteriori. Eh sì, perché quando il concerto degli uomini di Kvohst viene beffardamente interrotto un decimo di secondo dopo la chiusura di “Genocidal Crush”, e la fortezza piomba in un buio appena offeso da qualche luce non collegata all’impianto principale, il pensiero di un recupero il giorno successivo non sfiora nemmeno la mente dei presenti. E se sullo stesso palco, l’Oriental, il venerdì si potrà assistere a una manifestazione dello stato di grazia della band più compiuta, i venti minuti circa del giorno prima, pur nella loro brevità, sono di quelli da ricordare. Non fosse altro per una scaletta diversa e una verve terremotante, che fa sembrare più punk e meno dolceamare le composizioni sotto la presente denominazione sociale e quelle a firma Beastmilk. “Infatuation Overkill” apre la contesa con il suo ancheggiare tentatore e offre il primo chorus cupamente caramelloso, doppiato da “Doomsday Rainbows” e quel paradossale inno d’amore che è “Be My Hiroshima”. I volumi non sono altissimi, la nitidezza sufficiente a farci volare sulle nuvolaglie atomiche generate dai cinque, che con “Fear Your Mind” riprendono a dare lustro al capolavoro “Climax”, facendoci capire chiaramente come “Motherblood” ne sia la naturale prosecuzione, con buona pace di un “Dreamcrash”, primo disco firmato Grave Pleasures, totalmente ignorato nelle setlist presentate a Josefov. Un concerto che stava prendendo la conformazione di un sogno ad occhi aperti si interrompe quindi sul più bello: per fortuna vi sarà un inaspettato seguito e riscatto…
(Giovanni Mascherpa)

MOONSPELL
Tanto vale confessarlo subito: il qui presente redattore si è innamorato follemente dei Moonspell ai tempi del sublime “Under The Moonspell”, seguendo la band lusitana a livello di vero e proprio culto per i due album successivi; ma, al tempo stesso, gli riesce difficile fingere dentro di sé che non siano seguiti troppi anni a dir poco mediocri, accompagnati anche da prestazioni francamente ispirate ma di scarsa resa vocale da parte di Fernando Ribeiro. È quindi con un mix di riconoscenza e perplessità che si assiste all’ennesima restituzione dei loro due album ‘classici’; ma va riconosciuto che quando i Moonspell scelgono di fare quello che sanno fare meglio riescono ancora a far muovere (e commuovere) il pubblico. Permangono i limiti nella versatilità vocale del frontman, che riesce però a intrattenere l’audience con carisma e capacità – oltre all’uso dei guanti laser che già gli avevamo invidiato durante l’esibizione al nostro Festival lo scorso settembre; sulla scaletta non c’è nulla da dire, ovviamente: una sequenza che va da “Opium” a “Full Moon Madness”, passando per brani conturbanti e da lacrime come “For A Taste Of Eternity”, “Vampiria” o “Alma Mater” può solo essere assorbita come una droga lisergica, e il resto della band si dimostra come sempre in grande forma. Finché, insomma, i cinque portoghesi decideranno di proseguire con questo tour celebrativo, nulla da dire; le domande maliziose iniziano pensando al loro futuro, al massimo.
(Simone Vavalà)

 

BÖLZER
Mentre all’Oriental Stage si smontano le attrezzature, al Metalgate i Bölzer hanno già dato fuoco alle polveri. Fautori di una delle proposte più interessanti della scena estrema (praticamente un piccolo cult nonostante il poco materiale finora pubblicato), i due svizzeri possono contare su un pubblico piuttosto numeroso e attento. Purtroppo, come già evidenziato per i Pallbearer, l’acustica del tendone non è dalla nostra parte: la dieci corde di KzR si impasta in una colla sonora difficile da decifrare, la batteria risulta al tempo stesso martellante e poco intellegibile e il risultato complessivo è un muro di suono in cui si può riconoscere l’impronta personalissima della band, ma al tempo stesso è impossibile distinguere i dettagli dei singoli brani. Peccato, perché l’inusuale combo di black, death, sprazzi doom e prog dei Bölzer poteva rivelarsi una delle chicche più interessanti di questo Brutal Assault.
(Chiara Franchi)

LAIBACH
Quello messo in scena dal collettivo Laibach non è un concerto qualsiasi, quanto una vera e propria installazione audio-visiva atta a celebrare il potere, il dominio dei media e della cultura sulle masse, senza alcun timore di scomodare l’estetica totalitarista, anzi: nelle movenze e nei filmati che si susseguono dietro di loro, accrescendo la potenza della loro proposta sonora, i Laibach flirtano senza timore con svastiche, suprematismo, truppe marcianti al passo dell’oca e col culto della macchina e della violenza. Ma chi ancora non capisse che questa integrazione visiva non significa esaltazione del nazismo o dei regimi stalinisti, o non ha mai letto il loro conterraneo Slavoj Žižek o è, semplicemente, in malafede. Meglio, invece, farsi ipnotizzare dalle loro cadenze marziali e ossessive, che si muovono questa sera attraverso una selezione da brividi che trascura magari i pezzi più difficili e decostruiti a favore di brani più cadenzati e fruibili, perfetti per entrare sotto pelle…ma attenzione: gli sloveni non cercano di accattivarsi il pubblico nemmeno per un secondo. E così il modo in cui interagiscono con gli ascoltatori sono messaggi campionati atonali: ‘Hello Europe! We are very happy to be here!’, ‘Guys, you rock’, ‘Raise your hands. Raise your hands. Raise your fuckin’ hands’…tutti proclami che abbiamo sentito ripetere fino alla nausea e che, in questa forma, diventano ancora più stranianti e antiempatici, perfetti per rendere ancora più aliena la loro esibizione. Dicevamo della scaletta, quasi perfetta, che alterna brani che spaziano da “Opus Dei” (lavoro seminale, che ha compiuto ormai trent’anni) al recente “Spectre”, comprese diverse cover stravolte; per esempio l’agghiacciante (in senso positivo, si intende) “One Vision” dei Queen, divenuta un allucinato proclama patriottico. Svetta poi, sotto la guida dello ieratico Eber, l’apparentemente delicata “The Whistleblowers”, una celebrazione del culto del fisico che i segaligni e immoti membri della band rendono chiaramente straniante. A parere di chi vi scrive, sono i trionfatori assoluti della seconda giornata del Brutal Assault, e una lezione di industrial di cui tenere conto quando si incensano troppo le goliardate dei Rammstein o si urla al miracolo per i (pur apprezzabilissimi) Samael del nuovo millennio; forse la Slovenia di metà anni Ottanta non era proprio il centro del mondo, ma un Sole oscuro eppure luminoso brillava e brilla ancora, da queste parti.
(Simone Vavalà)

 

CONVERGE
A quanto pare, il blackout ha ‘ripulito’ i mixer, rendendo necessario rifare i soundcheck daccapo. Ed è qui che i Converge danno un twist inatteso a uno show che, vi anticipiamo, è stato molto buono – seppur funestato da qualche intoppo. Bannon, Ballou e Koller salgono sul palco e, con l’assistenza minima di un paio di tecnici, sostituiscono personalmente parte della backline, sistemano il sistemabile e improvvisano un nuovo, fulmineo check. Lo spettacolo inizia pochi istanti dopo, con la voce settata male e un sound ancora ‘nudo’ che per un attimo ci lascia disorientati. Ma il ciclone avanza inesorabile, senza risparmiarci e senza risparmiarsi: la macchina dei Converge è oliata alla perfezione e scarica sulla platea un caricatore di brani presi soprattutto dal recente “The Dusk In Us”. Ma nonostante l’alto tenore musicale e adrenalinico della performance (la locusta impazzita Jacob Bannon è praticamente ovunque sul palco, mentre il resto della band mantiene l’esecuzione a livelli eccellenti), il pubblico è tiepido in un modo che non possiamo giustificare con la semplice mancanza in scaletta di alcuni brani iconici: ai Converge non manca certo il repertorio. Non sappiamo se sia stato il clima da palude della Louisiana, la collocazione della band in scaletta, oppure (opzione secondo noi più probabile) se il pubblico non ha apprezzato appieno la proposta dei Converge, che se da un lato ha definito un genere, dall’altro può spiazzare chi nel metal cerca alcuni aspetti, per così dire, canonici. Sta di fatto che vedere un concerto così potente con un pit quasi immobile è stato un po’ triste. Tanto per darvi una cifra della situazione: immaginate “Concubine” abbattersi su delle prime file che non pogano.
(Chiara Franchi)

 

MARDUK
Cos’è l’Inferno, se non un concerto black metal suonato in piena notte, con la temperatura che non accenna a scendere (venticinque gradi circa, tra l’una e le due), l’umidità ammorbante, acuita dall’effetto catino dato dalle mura che stringono il prato dove sono posti i mainstage? Pensate inoltre se sul palco ci sono i principi del black metal guerrafondaio, i Marduk, prezzemolini di queste manifestazioni e delizia sanguinolenta cui è impossibile resistere. Puoi averli visti mille volte, anche a distanza di poco tempo, però il piacere di gustarsi un tale eccidio non si affievolisce. La blasfemia si fa scure avvelenata che miete le nostre teste con malsano piacere, la partenza affidata a “Panzer Division Marduk” è una dichiarazione d’intenti, un’ostentazione di velocità e spregevolezza alla quale la macchina della morte svedese non deroga per l’intero slot disponibile. La scaletta prevede solo due estratti dal recente “Viktoria”, “Equestrian Bloodlust” e “Wefwolf”, per il resto si procede a un lungo excursus fra alcuni degli episodi più sordidi dell’epoca-Mortuus e qualche dovuto ripescaggio dagli album di maggiore vetustà. Francamente, la scelta del repertorio finisce per essere quasi pleonastica, perché i Marduk sono dei tali macellai, cinici e deviati in ogni mossa, che qualsiasi estratto dalla loro sterminata discografia arreca i medesimi danni e lascia dietro di sé solo cenere e distruzione. Pochissimi i cambiamenti di rotta durante la spedita marcia verso l’estinzione della razza umana, quale sembra essere quest’ora infuocata, lordata di sangue dalla consueta prova raccapricciante di Mortuus, dal tocco inconfondibile di Morgan alla chitarra e dallo ‘sparatutto’ dietro le pelli di Fredrik Widigs. Un’ulteriore prova di eccellenza e dittatoriale supremazia.
(Giovanni Mascherpa)

 

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