Report a cura di Chiara Franchi, Giovanni Mascherpa e Simone Vavalà
Fotografie di Emanuela Giurano
Eccovi il report della terza giornata del Brutal Assault 2018. Potete leggere qui il report della prima giornata di festival e a questo link quello della seconda.
HARAKIRI FOR THE SKY
Esibirsi in pieno giorno non è la condizione migliore per far attecchire le tristerrime sensazioni epidermiche veicolate dagli Harakiri For The Sky. Gli ‘allegroni’ austriaci sottendono stati d’animo dolorosi che necessiterebbero di un contorno più adatto, ma la dimestichezza con i palchi accumulata negli ultimi tre anni rende gli strumentisti di Salisburgo idonei a ben comportarsi in ogni circostanza. Sia chiaro, atteggiamenti di straordinario accanimento ed esaltazione non li vedremo probabilmente mai da parte di questo act, mentre il modo di interpretare e offrire la propria musica ha subito una positiva evoluzione rispetto alle prime uscite live. Non è facile far sbocciare nel pieno fulgore brani lunghi, tormentati, come quelli contenuti nell’ultimo “Arson”, che si guadagna la parte del leone in setlist (“Heroin Waltz”, “Stillborn”, “Tomb Omnia”); la presenza di tanti segmenti chitarristici in frizione uno sull’altro, orditi nascosti, gli sfregi onnipresenti della voce di J.J. e il moto convulso della sezione ritmica costituiscono ostacoli evidenti per una rapida e appagante fruizione. Tuttavia, tolta qualche leggera scarnificazione dell’abbondante corredo chitarristico, gli Harakiri For The Sky al Brutal Assault tengono fede alle eccellenti prove in studio, dimostrando di essere maturati definitivamente anche nella dimensione concertistica. J.J. ha guadagnato in presenza e si avvicina, pur non pareggiandola, all’incisività degli album, mentre è soprattutto il ruvido patto di sangue delle chitarre a donare attimi di rapimento all’audience. Nelle canzoni della band compare spesso una sensazione di fine imminente, subito smentita da una nuova, bruciante, ripartenza, caratteristica che dona smarrimento e tiene desti mente e cuore, in balia di un intervallarsi di crescendo drammatici resi con la dovuta accuratezza al Brutal Assault. Si arriva in fondo quasi senza accorgersene e questo non può che essere il segno di una prova riuscita e senza macchie.
(Giovanni Mascherpa)
HATE
‘Gli Hate sono un po’ la sottomarca dei Behemoth’ (cit.). L’affermazione – non nostra – era ovviamente faceta, ma nasconde un fondo di verità. In fondo, le due band hanno molto in comune: simile approccio black-oriented, stessa provenienza, stessa età, più o meno stesso numero di album all’attivo, stessa presenza con molti costumi e molto corpsepaint, stessa indiscutibile bravura. Insomma, gli Hate non sembrano avere molto da invidiare ai loro più quotati connazionali, eppure suonano nel pomeriggio. Tutto da imputare alla piacioneria dell’ormai rockstar Nergal? Da parte nostra, ci sembra che la combo di maggior successo abbia dalla sua parte soprattutto un songwriting più convincente, coadiuvato da una buona dose di riconoscibilità, modernità e (cosa che non guasta) ruffianeria in più. Insomma, volendo chiudere le nostre considerazioni sugli Hate con un’altra citazione: ‘per amanti del genere’.
(Chiara Franchi)
PESTILENCE
La seconda giovinezza dei Pestilence sembra ormai consolidata, con ben quattro album pubblicati dal ritorno sulle scene e, soprattutto, un’attività live che nell’ultimo anno li ha fatti girare il mondo con continuità. E si sente. Anche se resta il solo Patrick Mameli come membro storico, i tre musicisti che lo affiancano mostrano infatti un affiatamento notevole, con una sezione ritmica al metronomo e possente, perfetta per i momenti più tecnici – che del resto caratterizzano il sound della band olandese da anni. Al di là degli assoli affidati a Calin Paraschiv, Mameli intesse in scioltezza riff intricati e trascinanti e non mancano comunque i momenti di pura ultra-violenza; ben tre gli estratti da quello che resta, se non magari il loro capolavoro, il loro album più emblematico, ossia “Consuming Impulse”, con la doppietta “Dehydrated” e la conclusiva “Out Of The Body”, che fedele al titolo ci lascia quasi sospesi come involucri vuoti.
(Simone Vavalà)
GRAVE PLEASURES (atto secondo)
A distanza di qualche giorno possiamo dirlo: quello dei Grave Pleasures è stato IL concerto del nostro Brutal Assault 2018. Dopo aver consumato “Motherblood”, questo live si preannunciava già come uno dei nostri must e la combo anglo-finlandese non solo non ha tradito le nostre già alte aspettative, ma le ha addirittura superate. Sul piccolo Oriental Stage, ad un orario ben peggiore di quello inizialmente previsto, Kvohst e soci dimostrano di non avere bisogno d’altro se non del loro talento per infiammare la platea. Con una scaletta equamente divisa tra la carriera come Grave Pleasures e quella col moniker di Beastmilk, la band fa cantare e ballare il pubblico per tutta la durata del live. Grande intrattenimento ma anche qualche farfalla nello stomaco, in una performance che è frutto di professionalità e capacità espressive ai massimi livelli. Voto 10.
(Chiara Franchi)
TERROR
È come sempre di pregio la proposta hardcore sui Main Stage del Brutal Assault, e tocca quest’oggi ai californiani Terror: una band che pur in pochi anni si è garantita con sudore, capacità e tantissime esibizioni dal vivo l’assoluto rispetto della scena. Oltre che il recente passaggio su Nuclear Blast, elemento che non farà che favorire ulteriormente la loro visibilità, crediamo. La sintesi di cosa significhi HC c’è tutta, nella loro esibizione; dai movimenti tarantolati di Linkovich al basso ai continui passaggi dei brevi e acidi assoli tra le due chitarre, che offrono peraltro uno stomp continuo e trascinante, fino alla carismatica prova di Scott Vogel. E non a caso il frontman si è guadagnato da tempo la fama di intrattenitore e di testa pensante – elemento che favorisce sempre l’amore dei fan del genere. La scaletta spazia senza soluzione di continuità dall’opener del loro disco di esordio, “One With The Underdogs” (che apre anche il concerto), a brani tratti da ognuno dei loro album successivi, con l’ospitata di Jason McMaster dei Broken Teeth su “Keep Your Mouth Shut” e la canonica, ma sempre piacevole, salita sul palco di un ragazzo del pubblico durante uno degli ultimi brani. Non saremo, insomma, al cospetto di uno dei Mostri Sacri dello storico NYHC, ma i Terror confermano che anche nel nuovo millennio e sulla West Coast è possibile parlare il linguaggio della strada con sincerità ed energia.
(Simone Vavalà)
AZARATH
Doppio impegno, in serata, per Inferno. Il micidiale batterista dei Behemoth siede infatti anche dietro le pelli degli Azarath, altro suo gruppo di lungo corso. Blackened death metal nella sua forma più pura e tirata, senza le concessioni mainstream degli headliner più noti, ma al tempo stesso tutt’altro che banale. La band può contare su una certa carica atmosferica e su un riffing che, seppure serrato, si apre su slarghi maestosi, talvolta addirittura melodici, che danno un tocco viscerale al massiccio songwriting. Il pubblico si è radunato in buon numero al Metalgate e fa bene: con un sound tra i migliori che abbiamo sentito sotto il nostro problematico tendone (il fonico è lo stesso di Behemoth e Bathuska, ci dicono), gli Azarath meritano senza dubbio mezz’ora delle nostre vite.
(Chiara Franchi)
AT THE GATES
Qualcuno dava gli At The Gates per morti? Mah. Per ragioni anagrafiche non abbiamo avuto il piacere di vederli ai tempi d’oro, quando spazzavano via tutto quello che si pensava di sapere sul metal con “Slaughter Of The Soul”, ma il gruppo che abbiamo visto al Brutal Assault non ci è sembrato nemmeno così moscio come qualcuno aveva paventato. Dato che lo show è dedicato per due terzi al nuovo materiale e per un terzo a “Slaughter…” mettiamo le mani avanti: il concerto ci è piaciuto anche perché ci sono piaciuti gli ultimi due album. Che non saranno nulla di epocale, certo, ma si tratta a nostro parere di dischi onestissimi, sui quali la formula ATG si riafferma senza troppi guizzi ma anche senza perdere in efficacia. Ed è un po’ questa, forse, la chiave di lettura anche di questo show. Siamo davanti ad una band ormai veterana della scena, che continua a portare avanti il suo stile e il suo messaggio senza smentirsi e senza tradire il suo pubblico, con grande dignità e professionalità. Live godibilissimo.
(Chiara Franchi)
ALUK TODOLO
Stretti attorno a un arredo scenico se vogliamo banale, una lampadina gigante sospesa a centro palco, gli Aluk Todolo officiano sull’Oriental Stage la loro funzione occulta, accattivando un’ampia platea attraverso l’astratto vagare della loro musica. Caso speciale della scena rock strumentale, i tre francesi ascendono nell’Olimpo degli sperimentatori inconsulti pur utilizzando strumentazione invero piuttosto scarna, cui non aggiungono catafalchi di effettistica o altri espedienti complementari. Quello che loro definiscono ‘occult rock’, esprimendo un’identità spirituale e concettuale che nella loro mentalità domina qualsiasi aspetto di quanto suonato, è uno scorrimento spigoloso, incostante, umorale di post-rock, progressive, black metal, noise, non riconducibile a una singola definizione. Un accavallarsi di timbri, risonanze, metodiche stilistiche che sparigliano il campo, dove le composizioni reinventano se stesse e si trasformano in pochi secondi, con chitarra, basso e batteria a prendere a turno in mano le operazioni. Con sguardo intorbidato da punte di pazzia, i tre musicisti transalpini gozzovigliano in un mare di sottili astrusità, dando l’idea di andare ognuno per la propria strada, staccandosi dagli altri ma avendo sempre presente che è l’incastrarsi del singolo in un insieme più ampio a dar vita a un suono così speciale, allucinato, scivoloso, quasi schizofrenico. L’aumentare di luminosità della lampadina-jumbo o il suo perdere vitalità vanno di conseguenza all’alzarsi e abbassarsi di intensità del baccano di strumenti; sul finale, il chitarrista Shantidas vi si avvicina in mosse spiritate ed ebbre di un’energia a noi sconosciuta, quasi abbracciando tale oggetto in pose enfatiche che, se da un lato paiono quasi grottesche, dall’altro comunicano un disagio e un mistero che mette ulteriore fascino all’esibizione. Una fiumana di note dal senso imperscrutabile, quella degli Aluk Todolo, che fa restare di sale tutti quanti.
(Giovanni Mascherpa)
MINISTRY
Divenuti ormai degli ospiti quasi fissi del Brutal Assault (almeno quando si trovano da questa parte dell’Atlantico), i Ministry catalizzano anche quest’anno un pubblico enorme, che dalle foto che abbiamo potuto vedere a fine concerto lambiva la collina opposta ai palchi principali, entrambi peraltro assiepati di persone. Una bella – e triste – differenza rispetto alle circa duecentocinquanta persone presenti al Magnolia di Segrate appena due settimane fa, ma poco importa in questo momento; ciò che conta è la possibilità di assistere per l’ennesima volta al sabba lisergico offerto da Al Jourgensen e dai suoi sodali, che confermano di aver raggiunto una sintonia, sul palco, notevole. Non è facile, infatti, mettere insieme due chitarre, più l’occasionale contributo di Al stesso, un basso e una batteria assordanti, le magniloquenti tastiere di John Bechdel (mai troppo menzionato, ma impagabile presenza nei Ministry da quasi quindici anni) e un dj – senza mai sbavature ma al tempo stesso con una violenza che non ha pari. Ecco, i Ministry di questo tour ci riescono alla grandissima, ed era dai tempi dei concerti coi compianti Raven e Mike Scaccia, oltre a musicisti del calibro di Tommy Victor e Joey Jordison, che non li vedevamo in uno stato così smagliante. I pezzi del nuovo “AmeriKKKant”, ritenuto da alcuni detrattori troppo morbido e dub, dal vivo hanno una carica tribale e ipnotica notevole, perfetta per un crescendo che attraverso brani più vecchi come “Punch In The Face” o “LiesLiesLies” trasfigura il pubblico in un’orda al baccanale; guidati dalla batteria tuonante, dalla teatralità di Jourgensen e dagli splendidi ricami chitarristici di Sin Quirin, i Ministry offrono poi sul finale un poker d’assi strepitoso: “Just One Fix”, “N.W.O.”, “Thieves” e “So What”, che fanno sanguinare non solo in senso figurato i presenti; che quando si spengono le luci, dopo i selfie di rito di Quirin e di Tony Campos, si guardano attorno attoniti e quasi spaesati. Con tanti saluti a chi ritiene che i concerti più violenti e allucinanti siano appannaggio di band grind o brutal death.
(Simone Vavalà)
BEHEMOTH
I Backstreet Boys del blackened death? Pensatela come volete: i Behemoth la sanno lunga, anzi, lunghissima. Prima ancora che Al Jourgensen abbia terminato il suo monumentale show, sotto lo Jagermeister Stage si è già compattata la platea più gremita di tutto il Brutal Assault. L’hype è altissimo e possiamo anticiparvi che, nel complesso, il pubblico è stato accontentato. Certo, dietro un live di Nergal e soci c’è tanto, tantissimo mestiere: pose studiate al millimetro (sia per evitare gli imponenti pyro, sia per offrire il profilo migliore ai metal instagrammer), frasi di circostanza, gestualità provate e riprovate con perizia. Questo tuttavia non toglie spettacolarità al concerto, che nella sua pur patinata diabolicità ammalia lo spettatore, avviluppandolo nell’oscuro immaginario della band. “Demigod” e il maestoso “The Satanist” sono i capitoli più citati della discografia dei polacchi, ma non mancano incursioni sul finire dei Nineties (qualcosa da “Satanica”) e alcuni pezzi memorabili da “Evangelion” e “The Apostasy” (“Alas, God Is Upon Me”, “Ov Fire And The Void”, “At The Left Hand Ov God”). Le nuovissime “Wolves Ov Siberia” e “God = Dog” passano tranquillamente la prova live, forti di quella consolidata ‘ricetta Behemoth’ che riesce, scaltra come poche, a unire sonorità spinte e orecchiabilità. Un concerto scenografico, quasi teatrale, ma non per questo farsesco, potente e maligno quanto basta. Facile che ci scappi un altro appuntamento con questo tour.
(Chiara Franchi)
CARPATHIAN FOREST
Ecco che, come accade periodicamente, Nattefrost riemerge dalla sua cripta e riporta sui palchi i Carpathian Forest, o almeno le tristi ceneri di una band un tempo sfavillante; sì, perché oltre ad aver perso per strada componenti eccellenti (non ultimo il pachidermico Vrangsinn, anche gran musicista) e buona parte della sua capacità creativa, il folle norvegese riesce in Repubblica Ceca a mettere in piedi una delle peggiori esibizioni live immaginabili – e siamo francamente gentili ad aggiungere ‘dei Carpathian Forest’, perché poco ci manca a salire su un podio assoluto. I quattro figuri che lo accompagnano appaiono francamente degli scappati di casa, sia come capacità tecniche che come affiatamento, tanto che alcuni pezzi anche memorabili li riconosciamo a stento dopo parecchi secondi dall’inizio; e stuprare brani come “Through Self-Mutilation” o “Carpathian Forest” risulta imperdonabile. Le due cover proposte, poi, riescono nel delicato intento di peggiorare le cose; “A Forest” dei Cure, già stravolta nella loro restituzione su disco, perde qui la sua aura di alienazione, spostando l’asticella del giudizio verso band dell’oratorio alla seconda prova, mentre “All My Friends Are Dead”, uno dei due brani con cui si sono riaffacciati su disco qualche mese fa e cover dei Turbonegro, viene completamente privata della sua carica punk e dissacrante, cadendo verso lidi di inutile autocommiserazione. Senza però né rabbia, né ironia. Si salva, a dirla tutta, l’istrionica presenza sul palco di Nattefrost stesso, che si dimostra sinceramente psicopatico: nell’alternanza di registri vocali quasi assurdi, nelle movenze da epilettico, negli sguardi degni di chi ha visto l’abisso (e sappiamo che è vero) che rivolge al pubblico. Ma non saper imbrigliare la band e fare di queste componenti un punto di forza e di spinta non permettono alcuna promozione.
(Simone Vavalà)
OBSCURE SPHINX (set Oriental Stage)
Tra gli eventi rinviati a causa del blackout c’è il secondo set degli Obscure Sphinx, che viene riproposto a mezzanotte in punto all’Oriental Stage. Dimenticate quello che avete visto sul palco principale, a cominciare dall’impatto visivo. Dal total black si passa al bianco abbacinante di tuniche, mani e volti dei musicisti. La cantante ‘Wielebna’ è una ieratica madonna completamente bianca (perfino negli occhi), che si mimetizza nella luce lattiginosa degli eleganti visual alle sue spalle. Sul piano sonoro, si passa dal doom abissale ad un ambient rarefatto, quasi immobile. Volendo essere poetici, sembra di stare fermi nel pieno sole di una mattina invernale, circondati da una natura congelata, in uno scenario raccontato da note dilatatissime, dinamiche impercettibili come modificazioni geologiche, tintinnii e vocalizzi sospesi. Un mood tanto ipnotico rischia tuttavia di scivolare nello statico e annoiare chi non ama il genere: spettacolo di classe, ma non per tutti i palati.
(Chiara Franchi)
DEAD CONGREGATION
Accogliamo con un profondo senso di giustizia e gratitudine la presenza dei Dead Congregation su uno dei palchi principali, a chiusura di una terza giornata di festival caratterizzata da clima fresco e performance indelebili. L’act ellenico si è issato sulle vette della scena death metal mondiale grazie a uno stile incompromissorio, debitore di Morbid Angel, Incantation e Immolation quanto si vuole, ma dotato di una verve e di una passionalità, oltre che di una patina di nera solennità tipicamente greca, degno dei veri fuoriclasse. I volumi stranamente molto bassi dei primi minuti, una rarità per il Brutal Assault, stonano con l’incedere tracotante e infernale della band, che da par suo passa oltre le problematiche iniziali e non stempera la furia dei suoi assalti. Con il passare dei minuti le cose tornano al loro posto e possiamo ammirare quella che è a tutti gli effetti una delle più mirabolanti espressioni del death metal contemporaneo. Riff stupendi, gigantescamente mortuari e predatori, si scaraventano su un uditorio nella maggior parte dei casi, almeno a guardare le reazioni compassate di chi abbiamo intorno, non così edotto sulle qualità del quartetto. Nonostante il valore di “Graves Of The Archangels” e “Promulgation Of The Fall”, finora gli ateniesi sono rimasti materia di esaltazione solo per i death metaller più appassionati. Ma esibizioni in questi contesti servono proprio ad allargare il raggio d’azione di musicisti che, come visto il giorno prima per i Blood Incantation, non hanno altro interesse che l’esecuzione del proprio repertorio nel modo migliore possibile. Anche se poi, come per i loro colleghi americani, sono anche la gestualità essenziale, gli strattoni dati al collo nell’headbanging, il cipiglio severo, segni del furente coinvolgimento nel proprio operato, a dare la misura del valore dei Dead Congregation. Il concatenarsi fra spire di assoli nero pece di “Only Ashes Remain” e “Promulgation Of The Fall” toglie il fiato, Anastasis Valtsanis solleva il braccio a richiamare occhi e cuori, difficilmente rimasti indifferenti a questa atroce marcia verso lo sterminio.
(Giovanni Mascherpa)