Report a cura di Chiara Franchi, Giovanni Mascherpa e Simone Vavalà
Fotografie di Emanuela Giurano
Eccovi il report della quarta e ultima giornata del Brutal Assault 2018. Potete leggere qui il report della prima giornata di festival, qui quello della seconda e a questo link quello della terza.
INTEGRITY
Pare di stare stretti in un tugurio soffocante e maleodorante, seppure si stia all’esterno e con il sole sfavillante, quando sono di scena gli Integrity. L’hardcore-metal dello storico ensemble dell’Ohio è di quelli che non si è ingentilito col trascorrere delle stagioni. È rimasto un pugno al basso ventre, una maledetta imprecazione che stordisce e sotterra, tenendo in poca considerazione la voglia di orecchiabilità e strutture di ampio respiro. Nonostante su disco, come testimoniato dall’ultimo “Howling, For The Nightmare Shall Consume”, Dwid Hellion e soci amino a volte esplorare sonorità lente e avvolgenti, dal vivo queste ultime sono abbastanza trascurate. Le tinteggiature sludge esacerbano un lotto di episodi costanti nell’opera di distruzione, qualche raro frammento groovy si erge a preambolo di sassate metalcore bastardissime e prive di aperture melodiche. I musicisti, in particolare il carismatico e incarognito frontman, tengono il palco come un manipolo di intolleranti guerriglieri, che mai fuggirebbero di fronte al nemico anche sapendo di andare incontro a morte certa. Confessiamo di essere rimasti parecchio prostrati da un concerto di tal fatta, monolitico nella sua buia furia cieca, e di aver fatto più o meno le stesse considerazioni nate durante e al termine dello slot degli Exhorder due giorni prima: bravi, efficaci, terribilmente unidimensionali.
(Giovanni Mascherpa)
ORIGIN
Per l’esibizione odierna degli Origin si potrebbe utilizzare una sola parola: dedizione. Per motivi non chiariti giungono a Jaromer solo in tre, senza bassista, e non solo offrono uno spettacolo comunque potente e violentissimo, ma giocano sulla situazione invitando a metà set un ragazzo del pubblico a unirsi a loro sul palco e fare ‘air bass’, appena prima di partire con la devastante “Saligia”. Certo, l’assenza delle quattro corde di Mike Flores si sente in termini di potenza, ma come detto i restanti tre membri non fanno mancare un briciolo di energia e tutto sommato il calo si nota giusto durante gli assoli di Paul Ryan. Scaletta senza sbavature che pesca solo tra gli album più recenti, ma più che sufficiente per un plauso alla band e per scaldare il parterre fin dalle tre di questo assolatissimo pomeriggio.
(Simone Vavalà)
UNLEASHED
La band di Johnny Hedlund non ha forse mai ricevuto il riscontro di pubblico che meritava, come testimoniato dall’inserimento nel bill in un orario alquanto infame, ma per i presenti poco importa, giustamente; la macchina da guerra che va sotto il nome Unleashed è una certezza assoluta, che si conferma tale sia su disco, visto che non ha praticamente mai sbagliato un colpo, sia in sede live. Anche questo pomeriggio sciorina sugli astanti una serie di riff ormai memorabili e trascinanti, mentre Hedlund – sempre più grosso e carismatico – guida il pubblico sia col basso pulsante che, soprattutto, con la sua timbrica inconfondibile lungo i cori di anthem come “Don’t Want To Be Born” o “The Longhships Are Coming”: due perfette e adrenaliniche sintesi del loro sound e delle loro tematiche. Non ci sono momenti morti, e oltre a scuotere le teste forsennatamente ci godiamo, come sempre, l’approccio assolutamente rilassato e divertito con cui i quattro svedesi ci intrattengono. Gran finale affidato alla doppietta “Into Glory Ride” e “Before The Creation Of Time”, estratte dal loro immarcescibile esordio e che ancora costituisce una forte ossatura delle loro esibizioni; perfette per chiudere la celebrazione di sangue ed epos vichingo che li caratterizza, con annesso brindisi dal corno di ordinanza – e lancio di birra sul pubblico estasiato.
(Simone Vavalà)
ARKHON INFAUSTUS
Vi è da andare in indigestione da libagioni luciferine con gli Arkhon Infaustus. La lercissima creatura di DK Deviant, personaggio incarnante come pochi nel vissuto il concetto di estremismo ideologico, è tornata a far parlare di sé con il composito ep “Passing The Nekromanteion”, giunto a dieci anni di distanza dall’ultimo album “Orthodoxyn”. È propriamente nell’ortodossia di un messaggio oltraggioso come quello professato a partire dagli anni ’90 che si muove anche il concerto ceco, un concentrato di death-black satanico così nevrotico, teso, bestiale da far impallidire e apparire teneri pulcini gran parte di chi si cimenta con sonorità similari. Incarnare il Male e farne provare il pericolo, il senso di minaccia, far immaginare cosa possa significare un tour nei gironi danteschi, è un obiettivo centrato con irrisoria facilità dai quattro francesi. Lo sguardo del leader basterebbe a far gelare il sangue, il tocco vezzoso della papalina ci fa abbozzare un sorriso subito trafitto dalle gesta impulsive e iraconde della formazione. Quella degli Arkhon Infaustus è una bolgia che non dà scampo come quella dei peggiori figuri del cosiddetto war metal, ma ha dalla sua il senso del riff e quel lieve, fondamentale, tocco atmosferico in dote al miglior death metal novantiano. Le evoluzioni più sofisticate colte nell’ultimo lavoro in studio sono spazzate via da uno tsunami di selvagge odi a Satana, padroneggiate alla perfezione da una line-up tremenda e allineata alle direttive di DK Deviant. In formissima sul piano vocale, magnetico, strafottente e dalla genuina aria criminale, il leader fa sfracelli e induce a comportamenti altrettanto parchi gli astanti. Il massacro è di proporzioni immaginabili solo in parte alla vigilia, lodevoli i parigini ad aver superato le nostre attese.
(Giovanni Mascherpa)
MESSIAH
Assistiamo per la prima volta a un concerto di questa mitica band, che quantomeno con i due capitoli centrali della loro carriera, ossia “Choir Of Horrors” e “Rotten Perish”, hanno saputo donare alcune gemme immortali del thrash virato a tinte più violente. La Svizzera, del resto, era quasi una garanzia di risultati strepitosi o quantomeno interessanti, in quella gloriosa metà degli anni Ottanta, e il loro ritorno dopo ben ventiquattro anni (a parte una singola esibizione in madrepatria) risulta quindi un must assoluto. La formazione sul palco quest’oggi è esattamente quella ‘classica’, fautrice cioè dei lavori summenzionati, che rappresentano infatti metà delle canzoni presenti in scaletta, col resto tratto dal più che gradevole esordio. Sarebbe scorretto esprimere un giudizio completamente negativo su una prestazione complessivamente dignitosa, in cui si nota sia l’impegno della band dal punto di vista esecutivo che dello spettacolo: per quanto scarno, vengono introdotti da un’accattivante intro pseudo-gregoriana e il cantante Andy Kaina interagisce abbastanza efficacemente col pubblico. Le noti dolenti vengono dal fatto che un quarto di secolo di lontananza hanno evidentemente arrugginito l’alchimia tra i membri della band, e i pezzi sembrano di conseguenza essere invecchiati maluccio. Un’operazione nostalgia, insomma, che non rasenta il ridicolo, ma che richiede di proseguire per un po’ per dare credibilità e buoni risultati.
(Simone Vavalà)
DOG EAT DOG
Tra gli elementi che rendono sempre piacevole la partecipazione a un festival dalla proposta musicale variegata c’è sicuramente la possibilità di prendersi una birra e, approfittando di un momento di relativa quiete, dare una chance di ascolto a una band di cui si ha un vago ricordo adolescenziale, restando piacevolmente stupiti. È questo il caso dell’odierna esibizione dei Dog Eat Dog, formazione che nella memoria di chi vi scrive era rimasta ai fasti di “All Boro Kings” e dei suoi singoloni ballabili, ma che merita invece appieno la fama (fino ad oggi solo ‘per sentito dire’) di ottimo act hardcore. I due membri fondatori, cioè l’energico bassista Rocky Neabore e il carismatico cantante J.C. Connor sanno tenere il palco, eccome, perfettamente supportati dal batterista Brandon Finley, anche lui in formazione da più di vent’anni, e da nuovi membri, curiosamente di origine ceca, alla chitarra e ai fiati. Ecco, i fiati: il sassofono, anzi i sassofoni, che spesso intervengono nei loro brani contribuiscono a donare un’aura di unicità al loro sound, specie dal vivo, senza nulla togliere alla voglia di ballare e saltare che il loro mix di hardcore melodico e rap suscita nel pubblico. A tal proposito, merita menzione, se non altro come segno dell’evidente entusiasmo del pubblico, la presenza di uno smilzo ragazzo barbuto che si è aggirato nelle prime file per tutta la durata del loro concerto, nudo e adrenalinico; fatto salvo recuperare un paio di mutande (da dove non ci è dato di saperlo) dopo aver effettuato un crowd surfing graditissimo dal resto del pit; this is hardcore, this is fun! Come ripete più volte in varia forma J.C., un vero chiacchierone che, facendo a volte sorridere, nelle pause tra i vari brani oltre a ringraziare la scena HC, le band presenti (curiosamente con una menzione accorata per i Goblin) e incitare il pubblico, si occupa anche di far partire basi elettroniche o scratchate, in una sorta di happening festoso, in cui non è permesso un attimo di sosta. Anche se il pubblico si scatena mostruosamente sull’arcinota “No Fronts”, nessun pezzo risulta debole, compreso un estratto dal nuovo album, di prossima pubblicazione.
(Simone Vavalà)
ROLO TOMASSI
E ci facciam portar via dallo stupore, compiacendoci di una fantasmagorica scoperta. I Rolo Tomassi sono attivi dal 2005, hanno una corposa discografia sul groppone e il riconoscimento del loro valore nella scena alternative-hardcore internazionale; per chi scrive, al momento di recarsi al Metalgate, erano solo un gruppo dal nome buffo (una citazione storpiata di L.A. Confidential) e che si sapeva frequentare guazzabugli post-core. Quale allora lo straniamento quando dalla voce dell’esile e graziosa Eva Spence escono le candide vocalità, in un mare di barbagli azzurrini, del testo di “Aftermath”, bocciolo di liscio dreampop spennellato delle tastiere morbide di James Spence. Set tranquillo? Non proprio, perché con “Rituals”, sempre pescata dall’ultimo album “Time Will Die And Love Will Bury It”, scopriamo che i Rolo Tomassi avevano usato l’opener per farci abbassare le difese e quindi punirci con un’orda di pulsioni math-core ansiogene, scariche di psicosi belluina con al centro l’abbruttimento delle corde vocali della Spence, che quando sporca la voce si presenta come il più atroce dei demoni in gonnella. Messe le cinture, fondamentali, siamo sganciati sulle montagne russe di brani che smembrano e consolano con uguale efficacia, dove ad ogni angolo capita di avventurarsi in un contesto inedito. Languidi scampoli fiabeschi, ardite impalcature progressive, schegge funamboliche alla The Dillinger Escape Plan, attimi di fragilità, sono solo alcuni dei compartimenti non stagni dove la band si scatena, codificando nel suo turbinante eclettismo un sound unico e di accecante splendore. Si slanciano a turno la sola Spence in versione megera, il doppio urlato della signorina assieme al fratello tastierista, di nuovo la singer nelle sembianze di una ragazza spaurita ma dal cuore colmo di calorosa passione. Il sublime in arrivo dagli speaker contagia un po’ tutti, la compostezza iniziale si trasforma in un sormontarsi di entusiasmi singoli, che presto divengono un unico moto di approvazione. Al termine, gli applausi faticano a scemare e la band sgrana gli occhi per l’accoglienza ricevuta: uno show pazzesco, di gran lunga il più sorprendente di quest’edizione.
(Giovanni Mascherpa)
BELPHEGOR
Che ‘tamarria’ sia! Palco bello pacchiano e suoni sullo zarro andante, i Belphegor fanno un po’ l’effetto di quegli horror che per quanto infarciti di smembramenti e incongruenze, alla fine, per qualche motivo, ti incollano al divano. Gli austriaci ribadiscono la propria fedeltà alla linea riversando sul pubblico lo spietato death black di cui sono alfieri indefessi, in un urlo di guerra che dura quasi un’ora e per una buona metà incentrato sul nuovissimo “Totenritual”. Poche sorprese, ma se ci si lascia trascinare dalle chitarre steroidee, dalla batteria un po’ finta e dal growl infernale del buon Helmuth Lehner lo show risulta parecchio divertente. Specie se ce lo si può godere dalla vetta della collina di fronte ai palchi, gustandosi la marcia demoniaca della band con una visuale pazzesca sul calar del Sole.
(Chiara Franchi)
HIRAX
Un po’ di sano spirito ‘denim and leather’ è quello che si respira all’interno del tendone del Metalgate quando appaiono gli Hirax. I californiani non sono mai riusciti a uscire dall’underground, rimanendo un gruppo di metallari per metallari, di quelli che girano in giubbino di jeans grondante le toppe più improbabili anche con quaranta gradi all’ombra. E di caldo, nell’ultimo giorno del Brutal Assault, ve n’è abbastanza, anche se inferiore alle prime due giornate. Il capitano della nave e, diciamolo, il motivo principale per il quale gli Hirax hanno guadagnato e mantenuto una certa fama dagli anni ’80 ad oggi, resta quel gran invasato di Katon W. De Pena. Uomo che riuscirebbe a convincere a passare alle forze oscure del metallo anche il più mite amante del pop, per via di un entusiasmo scellerato, esagitato e bambinesco che sfoggia appena arriva sul palco e non si scrolla di dosso per un secondo. Attorno a lui ha musicisti che sanno stare al loro posto e non si fanno pregare nello scatenarsi, il frontman di colore alza l’asticella dell’entusiasmo cantando con il suo inconfondibile stile, a metà fra un gracchiante cantato estremista e note alte priestiane. Il piglio hardcore getta benzina sul fuoco nell’animato pit, i discorsi inneggianti alla fratellanza metallica di Katon suonano perfettamente calati in un contesto di orgoglio e aderenza convinta a dogmi musicali non scalfiti dalle mode passeggere. Non fosse per le infusioni di follia di De Pena, si tratterebbe di un ‘normale’ spaccato thrash-core tutto sangue e ossa rotte, invece assistiamo a una divertentissima baldoria di metal old-school senza pretese, ma con tutte le caratteristiche per mettere di buonumore il prossimo. “El Diablo Negro” (soprannome di De Pena e titolo di uno dei classici degli Hirax proposti in Repubblica Ceca) colpisce ancora!
(Giovanni Mascherpa)
NOCTURNUS AD
Se anche si fosse persa del tutto la memoria della straordinaria band che furono i Nocturnus, basterebbe citare i nomi coinvolti dietro la sezione ritmica, ossia Mike Browning e Daniel Tucker, alias due musicisti che – tanto per dire – hanno registrato gli esordi di Morbid Angel e Obituary. Ma torniamo ai Nocturnus, band che vide la propria fondazione oltre trent’anni fa e che rivoluzionò l’ancorché nascente scena death metal con l’introduzione di un approccio fantascientifico e l’inserimento delle tastiere, che ben si integravano con la perizia tecnica degli altri musicisti coinvolti. Resta oggi solo lo stesso Browning della formazione originale, costretto a bypassare qualche querelle legale con gli ex compagni con l’aggiunta di quell’ ‘AD’ finale, ma come si può ben comprendere i rimpiazzi sono di tutto rispetto; riascoltare le tracce del seminale “The Key”, che rappresentano sette brani su otto di quelli suonati in questa occasione, è quasi da pelle d’oca, e l’intersezione tra gli strumenti è strepitosa, con sugli scudi la perizia tecnica di Demian Heftel, di cui a volte ci è difficile cogliere quante corde suoni sulla chitarra. Browning, nel doppio ruolo di batterista e cantante, macina ritmiche folli e growl esasperati in scioltezza, mentre colpisce la ‘leggerezza’ delle tastiere rispetto allo sdoganamento che questo strumento ha avuto nel corso degli ultimi vent’anni in tutto l’ambito estremo; eppure funzionano ancora a meraviglia, e ben si integrano con il loro sound maligno e sospeso insieme. Ciliegina sulla torta finale è l’esecuzione di “Chapel Of Ghouls”, nostalgico ma doveroso omaggio all’altro pezzo di Storia scritto dal possente batterista; e per questo Brutal Assault il death metal ha avuto i suoi ennesimi rappresentanti d’eccezione.
(Simone Vavalà)
PAIN OF SALVATION
Una delle compagini sulla carta più soft dell’intera manifestazione, i Pain Of Salvation vengono osservati con la stessa sospettosa curiosità riservata agli animali rari, quando si presentano sul palco. L’approccio muscolare delle ultime apparizioni non può da solo colmare il gap con l’attitudine diretta e focosa di chi ha calpestato gli stage principali prima di loro. L’avvio con il freno a mano tirato dell’elaborata “Full Throttle Tribe” va addirittura a frapporre ulteriori ostacoli fra sé e l’audience, a causa dell’affossamento nel mix delle tastiere, così presenti e importanti nell’ultimo “In The Passing Light Of Day”. Così, il suono compresso e fin troppo spigoloso delle chitarre fa da barriera e non da gancio tentatore, si sente chiaramente che manca qualcosa, c’è un vuoto da colmare. Intanto che Gildenlöw gigioneggia furbo con le sue pose da seduttore, per la gioia del pubblico femminile, dal mixer ci mettono una pezza, ridando elasticità e se vogliamo pure ‘umanità’ a un suono parso freddo e fuori contesto nei primi minuti. “Reasons” dà allora calore, con quel coro a più voci divenuto uno dei simboli dell’ultimo full-length. Se non catturano propriamente delle ovazioni, succede almeno che i Pain Of Salvation entrino in maggiore confidenza con chi hanno di fronte. I toccanti intrecci vocali che a turno chiamano in causa un po’ tutti gli strumentisti, il taglio consolatorio delle tastiere, il raffinato dipanarsi di delicati labirinti emozionali di un gioiello datato come “Inside Out” (siamo nel ventennale di “One Hour By The Concrete Lake”, l’album che ha svelato compiutamente l’estro di Gildenlöw al mondo), possono farsi adeguatamente riconoscere e ammirare. Il ritorno in scaletta dopo qualche tempo di “Used” non poteva avere una sua interpretazione migliore, fedele al cerebrale rimpallarsi di durezza e leggerezza originario, rinforzato dall’indole metallica dei Pain Of Salvation attuali. “On A Tuesday” si scatena infine a pieno regime, dieci minuti di heavy metal esaltante, che sa essere struggente, disperato, maestoso, anche commuovente. Nonostante il loro essere fuori target per il fruitore medio del Brutal Assault, i progster svedesi non fanno brutta figura.
(Giovanni Mascherpa)
ABYSMAL GRIEF
Assistere alla performance degli Abysmal Grief sull’Oriental Stage ci ha riempito il cuoricino di sano orgoglio patriottico. La formazione cult di casa nostra regala infatti un live veramente efficace e coinvolgente, cui nemmeno il chiarore del tramonto può sottrarre atmosfera. L’orrorifica tastiera e la voce cerimoniosa di Labes C. Necrothytus sollevano un olezzo di polvere e catacomba tra le antiche mura che circondano il palco, prendendoci a braccetto per una tetra passeggiata cimiteriale. Lungi dall’essere confinabile nella mera definizione di ‘doom’ o di ‘horror metal’, l’ormai ventennale litania funebre degli Abysmal Grief, forte anche dell’ottima fattura del recente “Blasphema Secta”, dimostra di aver mantenuto nel tempo un tratto riconoscibilissimo e di distinguersi per una carica evocativa tra le più accattivanti (e diaboliche) del festival. Siamo veramente felici che l’organizzazione del Brutal Assault abbia voluto dare spazio alla formazione genovese che, insieme ai Goblin di Claudio Simonetti, ha offerto a Josefov una pregevole ambasceria di una delle impronte musicali più caratteristiche e interessanti del nostro paese.
(Chiara Franchi)
CLAUDIO SIMONETTI’S GOBLIN
È raro poter parlare di Orgoglio Italiano senza cadere nella becera retorica, ma vedere il cortile dell’Oriental assiepato di pubblico e in attesa spasmodica per l’esibizione dei Goblin rientra meritatamente nella definizione. Quando salgono sul palco Claudio Simonetti e la sua band è un boato, che si trasforma in religioso silenzio, interrotto solo da applausi e urla entusiastiche nelle pause tra i brani. Cecilia Nappo al basso e Titta Tani alla batteria sono un orologio svizzero di precisione, ma anche una macchina di potenza straordinaria, che non fa proprio rimpiangere act dal suono più ruvido che si sono esibite qui; Bruno Previtali alla chitarra è un altro musicista dalla caratura elevatissima, perfetto nel condurre i passaggi ritmici e strepitoso quando deve dipingere pennellate che si vanno a intersecare al lavoro di Simonetti. Che, ovviamente, resta il Nume assoluto e uno dei più grandi compositori ed esecutori contemporanei, lo affermiamo senza timore di smentita. Vederlo destreggiarsi tra tastiere, moog e computer con una naturalezza assoluta è a tratti disarmante; aggiungete poi l’aplomb e l’assoluto affetto con cui si rivolge al pubblico frequentemente, con addirittura diversi scatti di fotografie e registrazione di video del pubblico durante lo show, e non si può che restare ammaliati. Citiamo solo per ultimi i brani proposti, ma solo perché quasi superfluo: i temi delle colonne sonore che vengono riproposti, da “Suspiria” a “Buio Omega”, da “Non Ho Sonno” a “Zombi” (con accorato omaggio all’amico George Romero) sono ormai immortali, da brividi – non solo per l’atmosfera horror, naturalmente – e resi in maniera magistrale. Una celebrazione del miglior prog italiano, o forse semplicemente mondiale, un viaggio (anche visivo, grazie alle continue proiezioni) attraverso incubi indelebili e un concerto sentitissimo. Che il pubblico straniero ha apprezzato come pochi show del giorno, e che i numerosi italiani presenti hanno sostenuto per tutta la durata. Tra gli assoluti highlight del festival, senza ombra di dubbio.
(Simone Vavalà)
CELESTE
Lo show dei Celeste ha gioco facile, con la scarsa visibilità del Metalgate. I francesi (inizialmente previsti nel pomeriggio, ma posticipati per le peculiarità del loro show dopo il calar del sole) si esibiscono infatti dietro una coltre di fumo grigio, nel buio quasi totale, indossando una luce segnaletica rossa sulla fronte. Come nel caso dei Dragged Into Sunlight, quindi, siamo davanti a una band che si sente, ma non si vede. La formazione d’Oltralpe (suoni non eccellenti, ma neanche malvagi) tesse sopra il suo pubblico una ragnatela sonora che è quasi un prolungamento del fumo di scena, calando sulle nostre teste il suo drappo di malessere post-hardcore, il cui focus principale è il recente “Infidèle(s)”. Pur da estimatori di questa band, ci sentiamo forse di appuntare come, rispetto ai già citati Dragged Into Sunlight, manchi alla loro esibizione quel carisma e quel groove che permettono di reggere uno show solo ‘uditivo’.
(Chiara Franchi)
DANZIG
Disclaimer: chi vi scrive prese il primo biglietto per un concerto di Danzig nel 1995: il festival si chiamava Sonoria, il nerboruto cantante defezionò all’ultimo, e da allora ancora aspettava di vedere dal vivo uno dei suoi miti assoluti. Con questa premessa, è doveroso essere completamente onesti su cosa sia vedere oggi Glenn dal vivo: un omaccione gonfio di steroidi (e anche un po’ sovrappeso), che a dirla tutta mette anche evidente energia nel correre su e giù dal palco, ma che al di là delle faccette minacciose non riesce a far uscire nulla. Soprattutto dalla sua ugola un tempo ammaliante. È quasi inutile girare intorno alla scaletta proposta, visto che dodici pezzi su quindici sono tratti dai suoi primi quattro e spettacolari album; sentir partire i riff di brani quali “Twist Of Cain”, “Dirty Black Summer”, “Mother” o i passaggi più intimistici di pezzi come “How The Gods Kill” è semplicemente da lacrime, anche perché il resto della band risponde ai nomi di Steve Zing, Johnny Kelly e Tommy Victor: un vero compendio della New York più sporca, acida e sordida riunito in una sorta di superband. Ma, purtroppo, Danzig non supera quasi mai il sussurro, qualche rara volta azzecca – rispetto a una sorta di continua declamazione – una tonalità più alta, ma quasi sempre è in affanno. Anche quando si rivolge al pubblico tra un brano e l’altro: e l’assenza di empatia che l’ha sempre caratterizzato, oltre al continuo masticare un chewing-gum, lo fanno apparire ancora più strafottente. Per i puristi, si può anche sottolineare come all’opposto Tommy Victor faccia pure più del necessario, aggiungendo alcuni passaggi nel suo tipico stop’n’go e i suoi armonici come una firma di troppo in certi momenti iconici, ma sono note tecniche persino eccessive; che conta è che ci è chiaro l’ammonimento a non tirare fuori i cellulari per foto o video, pena l’annullamento del concerto: solo i fan più masochisti possono convincersi a rivederlo.
(Simone Vavalà)
WARDRUNA
I Wardruna sono il classico gruppo non-metal che calza a pennello nei contesti metal, specie verso la chiusura di quattro giorni dedicati quasi ininterrottamente a sonorità estreme. L’ensemble (riduttivo parlare di ‘band’) norvegese culla il numeroso pubblico con il suo folk magico ed evocativo, cancellando per più di un’ora tutto ciò che la circonda: non siamo più in Repubblica Ceca nel 2018; siamo su una spiaggia ventosa al limitare di un fiordo, circondati da pareti di roccia scoscesa e dal verde intenso delle conifere, in un tempo arcano, remoto, più leggendario che storico. È chiaro come questo progetto sia il risultato non solo delle doti compositive di Einar Selvik e della magistrale bravura dei suoi musicisti (l’esecuzione è impressionante), ma anche di una ricerca culturale profonda, che va dalla ricostruzione di strumenti antichi alla rievocazione di un universo atavico e della sua weltanschaung. L’eleganza ‘barbarica’ dei Wardruna, infinitamente più intensa in sede live che su disco, e la loro eccellenza senza orpelli rimarranno uno dei ricordi più piacevoli di questo Brutal Assault. Parola di una che voleva andare a vedere i Full Of Hell.
(Chiara Franchi)
PERTURBATOR
Per quegli imprevedibili casi del destino e di analogie fra mondi sonori che a posteriori uno le vede anche, ma in fase previsionale è impossibile immaginarsi, un artista come Perturbator è da qualche anno presenza fissa nei maggiori festival metal europei. L’infatuazione per la synth music da parte del metallaro medio europeo – per l’Italia non è dato sapersi, pensiamo sia assai inferiore – ha portato lungimiranti organizzatori a prevedere uno spazio dedicato per il nostro eroe, che trova ora in circolazione diversi epigoni (GosT e Carpenter Brut iniziano a essere nomi familiari per chi pasteggia a death e black metal). Accompagnato da un batterista che ne innerva la vischiosa miscela di campionature dark e lo avvicina a una concezione metal di un live show, James Kent inonda di scie luminose la notte di Jaromer. I fari di luce bianca puntati addosso trasformano lo spelacchiato prato, se già non bastasse la musica, in un gigantesco club di elettronica ammiccante ma non facilona, striata di brividi horror e di un suo credibile gusto estetico. Le scenografiche combinazioni dell’impianto luci sopperiscono alla presenza scenica nulla di Kent, che rivolge un po’ di attenzione a chi ha davanti solo nel finale. Ci sta, non è il momento di cercare empatia, solo di far scivolare via in una dimensione impalpabile, totalmente digitale, le fatiche dei quattro giorni. Perturbator diverte e porta un’esperienza uditiva diversa nel mare di rumore più o meno addomesticato del Brutal Assault, non possiamo che farci conturbare dal rassicurante moto industrial delle sue creazioni, ormai parte integrante del panorama metal contemporaneo.
(Giovanni Mascherpa)
ESOTERIC
Difficile immaginare una chiusura migliore, dopo quattro giorni di musica intensa, della proposta degli Esoteric; una delle band capostipiti del funeral doom, come noto, ma le cui esibizioni live rappresentano molto di più: un rituale mistico, emotivo, avvolgente. In cui oltre alla naturale quintessenza catacombale del loro sound è possibile riscontrare elementi di oscura psichedelia, in un caleidoscopio di emozioni e potenza quasi unico. Il lavoro di intreccio tra le tre chitarre, che lavorano su melodie, armonie e talvolta anche ritmiche tra loro differenti è semplicemente magistrale e permette in parecchi momenti del concerto di astrarsi seguendo alternativamente uno dei percorsi astrali che gli Esoteric paiono offrirci; naturalmente, senza nulla togliere alla loro dimensione ossianica e sofferta che la possente e maniacale sessione ritmica, unita alla voce cavernosa di Greg Chandler, sanno tenere sempre al centro di ogni brano. Brani che sono solo tre, peraltro tratti dai loro ultimi due lavori, ma poco importa: una media di 15/20 minuti di dilatazioni attraverso cimiteri siderali, e non ha nessun senso invocare dei ‘classici; perché questa è una band che è sempre stata e resta ancora dopo oltre un quarto di secolo di attività fuori e al di là dello spazio-tempo. Si può solo sperare di incrociare nuovamente il loro vagabondaggio musicale dal vivo presto.
(Simone Vavalà)
WIEGEDOOD
Anche quest’anno abbiamo fatto chiusura: l’ultima band a calcare il palco del Brutal Assault 2018 sono i Wiegedood, che suonano al Metalgate alle due passate. Siamo comunque in compagnia di parecchi altri die-hard, anche perché la combo belga è di quelle che meritano un ascolto – fosse anche la scusa per il bicchiere della staffa. Evidentissimi figli del collettivo nato intorno agli Amenra (del resto, a chitarra e voce c’è proprio Levy Seynaeve, coadiuvato da Gilled Demolder e Wim Sreppoc degli Oathbreaker), i Wiegedood sono l’ennesima incarnazione di quel post-black fiammingo affermatosi negli ultimi anni come una realtà riconoscibile e capace di fare tendenza. Pesantezza, oscurità, aggressività, stemperate però da una vibrante vena poetica: i caratteri della scena e delle band da cui provengono si affermano potenti nell’esibizione dei Wiegedood, i cui difetti soccombono nell’atmosfera un po’ malinconica della loro musica e di quest’ora conclusiva di un altro appuntamento a Josefov. See you in 2019.
(Chiara Franchi)