Introduzione a cura di Chiara Franchi
Report a cura di Simone Vavalà, Chiara Franchi, Giovanni Mascherpa, Giuseppe Caterino, Giacomo Slongo e Fabio Meschiari
Sold out: basterebbero queste due parole a descrivervi il Brutal Assault 2019. Stando a fonti vicine a una band, gli organizzatori avrebbero staccato addirittura ventunmila biglietti: un record galvanizzante, per un festival che l’anno prossimo celebrerà il suo primo quarto di secolo. Un successo meritato, indubbiamente, sia in ragione della sempre eccellente selezione musicale che dell’organizzazione, confermatasi all’altezza anche con un buon 20% di presenze in più rispetto all’edizione 2018.
A dirla tutta, per quanto non abbiamo molto da eccepire sulla qualità dei servizi offerti e sulle possibilità di vivere quasi tutti i live da una buona posizione, questa quantità di persone aggiuntiva in più ha forse tolto qualcosina in termini di atmosfera. L’area della fortezza di Josefov è più o meno sempre la stessa e la recente apertura del Bastion X non aiuta moltissimo a decongestionare l’aumentata densità umana. La pressione (metaforica e letterale) si è sentita soprattutto all’Octagon Stage, ossia il ‘vecchio’ Oriental, che in alcuni momenti è stato soffocato dalla vicinanza con l’area meet&greet. La situazione rimane comunque vivibilissima e molto tranquilla, anche grazie alle tante proposte alternative alla musica che permettono di svagarsi e riposare: cinema con ricca selezione di film horror, arcade room, mostre storiche e artistiche, una nuova e gettonatissima zona post-apocalittica con spettacoli in stile Mad Max, la miglior offerta gastronomica che possiate immaginare ad un fest e tante aree relax, sia all’aperto che tra i freschi cunicoli della fortezza.
Prima di lasciarvi alle nostre considerazioni sui concerti, un paio di brevi note sulla selezione musicale. Su un piano più tecnico, abbiamo notato un leggero taglio sui programmi dell’ex Oriental e della sala ambient Kal, a favore del fu Metalgate (ora Obscure) e dei due palchi principali. Su un piano più emozionale, non plaudiremo mai abbastanza lo spazio e la visibilità che il Brutal Assault dà alle band emergenti o comunque più underground, protagoniste dell’evento tanto quanto i nomi di punta. Non c’è anno in cui non si torni da Jaromer senza aver fatto delle belle scoperte e questo, secondo noi, è il vero spirito di un festival pensato per chi ama la musica.
Si parte sul mainstage, dove le band meno di cartello ci mostrano che se non si arriva al top con il talento, si cerca di sopperire con impegno e costanza. Un motto al quale paiono ispirarsi gli sforzi dei danesi HEXIS, una formazione che non ha dalla sua idee memorabili e chi ne conosce i dischi sa bene quanto il suo operato discenda, in maniera molto evidente, dai più avvincenti Celeste e in generale dalle atmosfere claustrofobiche e sfibranti del black metal compromesso col post-hardcore. Gli Hexis vantano una discreta tenuta di palco e composizioni che, pur annoverando diversi alti e bassi e un’emulsione imperfetta di tirate brutali e ondeggiamenti catatonici, sanno almeno a sprazzi destare le attenzioni (GM). Le cose migliorano con i TOSKA, trio anglosassone che si configura come uno degli ensemble più melodici in cartellone. Gli organizzatori sono ben attenti a dare spazio alle nuove tendenze, accanto agli spartiti consolidati, e quella del progressive djent, talvolta in versione solo strumentale come in questo caso, è una evoluzione di sonorità tecniche e raffinate che merita se non altro di essere conosciuta. Guidati dal capellone Rabea Massaad, i musicisti inglesi mettono assieme un set moderatamente vigoroso, che prevede lunghe ed elaborate sortite in un progressive fluido, ritmato, carico di groove, nel complesso piuttosto concreto e lontano da elucubrazioni astratte, in cui lo spazio concesso agli assoli non travalica i limiti del buonsenso (GM). L’incontro coi CROSSFAITH vive su di uno strambo disequilibrio fra realtà e finzione. Annunciati da beat elettronici più adatti a una discoteca novantiana che a un festival metal, i ragazzi del Sol Levante si rivelano essere una trasposizione in carne ed ossa di uno squinternato manga, di quelli dove ogni azione, reazione, emozione e atteggiamento è raffigurato in maniera eccessiva, caricaturale, sovradimensionata. È metalcore di quelli volgari, coatti, ridondanti, quello offerto dai Crossfaith: infarcendo di chitarroni ipercompressi una proposta che punta al groove e alla sguaiatezza, la band vuole far saltare e scontrare le persone, ponendo poca attenzione alla sensatezza delle dinamiche. Divertenti sono divertenti, però all’ennesimo breakdown buttato nel mucchio, il gioco pare andare un po’ per le lunghe (GM).
Spetta a THE ARSON PROJECT aprire il sipario dell’Obscure, il palco ‘estremo’ del festival, e la scelta pare decisamente azzeccata. I quattro svedesi si sono ormai guadagnati un posto di rilievo nella scena grindcore e sul palco vomitano violenza e adrenalina senza sosta. Niklas Larson, oltre alle linee vocali abrasive, mette in campo la giusta dose di follia con le sue continue scapocciate, sul modello dell’eterno maestro Barney Greenway, mentre Oscar Lindberg, dietro le pelli, offre cambi di tempo folli ed esaltanti. Come da nome, insomma, appiccano bene l’incendio musicale (SV). Un festival heavy metal che si rispetti deve prevedere show unici, esclusive assolute, e gli organizzatori dell’happening ceco, per questa edizione, hanno pensato di alimentare il culto degli avant-garde metaller FORGOTTEN SILENCE, gloria ceca che discende da tutto quel filone di extreme metal poco convenzionale fiorito a metà anni ’90, soprattutto in Scandinavia. La loro elaborata ricetta prevede incursioni in progressive, death, black e gothic metal secondo i canoni storti, avveniristici, arditi di compagini come Arcturus e In The Woods…, con questi ultimi a essere richiamati soprattutto per l’estensione vocale della singer Andrea Baslová, in contrasto al growl maschile. Il concerto è un crescendo di emozioni rare, con le tastiere a indorare di striature fuori dal tempo le complesse trame chitarristiche e il basso a vagare solitario in traiettorie tutte sue, un po’ alla Cynic se vogliamo. Highlight imprevisto (GM). Che dire dei VOIVOD? Otto i pezzi in scaletta, pescati abbastanza equamente nella lunga e prolifica carriera dei canadesi e volti più a regalare cinquanta minuti di ottimo intrattenimento che a promuovere ancora l’ottimo “The Wake”, uscito un anno fa. L’orario dell’esibizione è infelice (non sono neanche le 16:30), ma la cosa non sembra toccare né gli inossidabili veterani del prog-thrash fantascientifico, né i numerosi fan – che esplodono letteralmente al momento dell’esecuzione di “Voivod” –, anche se la sensazione complessiva è stata quella di un concerto sottotono rispetto ad altre occasioni (CF).
Imprescindibile un salto all’Obscure stage per i monumenti del death metal INCANTATION. Nonostante i suoni, di certo non tra i migliori di questo Brutal Assault, John McEntee e compagni danno una poderosa dimostrazione del perché hanno fatto scuola: trent’anni di carriera e non aver paura di farli sentire, in attesa di continuare la propria narrazione; che come sempre passa da momenti più truculenti ad altri più oscuri e sulfurei, mettendo in mostra tutto lo spettro della loro peculiare proposta musicale. Con una scaletta che tocca superficialmente diversi album ma che pesca maggiormente da “Onward To Golgotha”, causano una sicura e ‘fisica’ approvazione da parte dei presenti. Show che scorre come una rasoiata, nulla da eccepire (CF). Approfittando di una breve pausa, decidiamo di approcciarci al KAL, il palco più atipico e improbabile. A dirla tutta, non siamo nemmeno sicuri di assistere all’esibizione degli HYBRID FREQUENCY, dato che erano presentati come un progetto drone/harsh: quello a cui assistiamo dopo circa mezz’ora di soundcheck è una sorta di performance che ricorda vagamente dei canti mongoli con un sottofondo noise in down tempo, che per fortuna termina nel giro di dieci minuti. Iniziando a farci venire qualche dubbio sulla qualità musicale di quanto proposto in questa specie di area chill out (sempre piacevoli, però, i divanetti su cui stravaccarsi per un po’) (SV). I BATUSHKA (quelli del cantante Bartolomiej Krysiuk) risultano, purtroppo, una bellissima scatola priva di contenuto. La nuova, monumentale produzione Metal Blade è una festa per gli occhi, peccato che manchino le canzoni: la setlist prevede solo materiale tratto dal recentissimo “Hospodi” e la bravura dei musicisti non basta a nascondere il retrogusto di stantio. Oltre all’evidente vuoto compositivo lasciato dall’ex chitarrista Krzysztof Draibkowski, la performance paga anche un aumentato senso di farsa che svuota il concerto di qualsiasi portata emozionale. Che peccato (CF).
I WOE UNTO ME aprono le ostilità sull’Octagon, lo stage incastrato in un’area di passaggio fra i fitti corridoi di Josefov, spazio raccolto che offre un clima nettamente più intimo, quasi da club, rispetto ai palchi principali e all’Obscure. I nuvoloni grigi, il venticello minacciante tempesta, l’avvicinarsi della sera, sono elementi naturali che sembrano messi lì apposta per suffragare il carico di tristezze soffuse veicolato dai bielorussi, così come il pannello che a fondo palco mostra immagini tratte da “Melancholia” di Lars Von Trier. Il funeral doom della formazione, presentatasi in abiti d’altri tempi ed estremamente composta, aristocratica, nel porgersi all’audience, indugia volentieri in tempistiche ampie, ariose, la melodia scorre limpida senza compromettersi in drammi cruenti. Svetta indubbiamente il cantato pulito di Igor Kovalev, solo da quest’anno in line-up, infervorato da una passionalità trascinante e fiore all’occhiello di canzoni relativamente facili da seguire e non così ostili per chi è solitamente intimidito da questa forma di doom (GM). Assodata la formazione a quattro, gli EYEHATEGOD riversano il loro canonico malessere interiore con maestria; rispetto ai primi tempi post operazione, in cui la sobrietà forzata segnava inevitabilmente le sue performance, Mike Williams è tornato a essere il simbolo di questo disagio, e il fatto che riesca ad accompagnarlo con una miglior forma fisica è tutto di guadagnato. Appare invece sempre più imbolsito, e forse un po’ pigro, Jimmy Bower, ma i suoi riff carichi di bile e catrame sono come sempre una botta notevole (SV). Dopo un paio di esibizioni negli scorsi anni in orario pomeridiano, i PRONG trovano oggi posto in prima serata all’Obscure. La band newyorchese celebra in questi mesi i venticinque anni di “Cleansing”, il loro album di massimo successo, e lo fa con il solito approccio; Tommy Victor è una macchina da riff, perfettamente supportata dalla splendida sessione ritmica (Art Cruz dietro le pelli e il redivivo Jason Christopher al basso), e tra una battuta scanzonata e l’altra fa rivivere gli anni d’oro del groove metal scatenando un circle pit quasi ininterrotto. Dall’attacco di “Revenge… Best Served Cold” alla conclusiva “Snap your Fingers, Snap Your Neck”, il pubblico canta in coro con lo stesso entusiasmo dei tre musicisti sul palco, e dopo il selfie di rito della band, il tendone si trova in un silenzio quasi irreale dopo un’ora euforicamente massacrante (SV). Strano vedere un gruppo come i PARKWAY DRIVE così in alto nel bill del Brutal Assault: la formazione di Byron Bay presenta una scaletta che pesca a piene mani dagli ultimi due lavori, specialmente da “Reverence”, e col bassista Jia O’Connor costretto sulla sedia a rotelle causa problemi ai crociati. Musicalmente il gruppo è compatto e lo dimostra in un pezzo più datato come “Karma”, ma forse in questa occasione è il frontman Winston McCall a non essere al top della forma: in debito d’ossigeno durante i primi brani e decisamente stonato in alcuni punti sul finale, così da decretare una performance passabile ma nulla di più rispetto a ciò che i Parkway Drive sanno fare e che hanno saputo dimostrare al pubblico negli ultimi anni (FM).
I DÉLUGE hanno alle spalle un solo disco, “Æther” del 2015, nemmeno divenuto oggetto di chissà quale culto, per cui poco si spiega uno slot così elevato, seppure in concomitanza con altri pesi massimi sui mainstage. Le torbide ossessioni dei Celeste, le dissonanze dei The Great Old Ones, il malessere interiore degli AmenRa insozzano l’obnubilante aggressione dei Déluge, coesi e tremendi nell’artigliare, quando partono alla carica con un black metal denso e crudele di ultima generazione, misteriosi e affascinanti quando si placano, rumori ambientali si diffondono e una calma terribile striscia nell’oscurità. Il dosaggio di buio e vampate di luce è concorde con il placarsi e l’accendersi della musica, uno tsunami inarrestabile che si consuma chirurgicamente per cinquanta minuti, nei quali sentori di tregenda e quiete distensiva si intervallano magistralmente, facendoci capire perché la band abbia goduto di una tale posizione nel programma (GM). La curiosità era parecchia per la comparsa sul palco di Laurent Boulouard, alias SORC’HENN, tra i primi a dedicarsi alla musica ambient ed elettronica nel microcosmo delle Légions Noires francesi; con la componente di mistero aggiuntiva e mai risolta circa il suo ‘mentore’ Wlad Drakksteim: era forse Laurent stesso il musicista nascosto dietro questo pseudonimo e autore anche dei lavori dei Vlad Tepes? L’unica risposta che possiamo dare dopo questa esibizione è: speriamo di no. Boulouard si presenta infatti vestito come un triste ragioniere (non ce ne abbia a male la categoria), e si limita con aria compita a far partire loop sul suo Mac, riuscendo peraltro a sbagliare evidentemente la sovrapposizione di alcune tracce – e parliamo di campionamenti in due quarti. Il risultato è una cacofonia pretestuosa e per nulla ragionata, che preferiamo tenere lontana dal mito del seminale movimento francese (SV). L’arrivo sul palco dei CULT OF LUNA, cinque silhouette in un mare di nebbia e luci pulsanti, coincide indubbiamente con uno degli apici della giornata e dell’intera edizione del festival. Con il nuovo, attesissimo, “A Dawn to Fear” in dirittura d’arrivo sul mercato, il collettivo svedese affida proprio al singolo “The Silent Man” il compito di dare il via alle danze della performance, spiccando immediatamente per intensità dell’esecuzione e visionarietà della proposta. Il post metal dei Nostri è complesso e stratificato come da tradizione del genere, ma possiede una carica magnetica e una fluidità a livello di strutture e arrangiamenti che pochi altri possono vantare. Una cavalcata lunga un’ora, tra l’etereo e il roboante, il soffuso e il viscerale, splendidamente immortalato dalle atmosfere agresti di “Finland” e da quelle cinematografiche di “In Awe Of” (GS).
Posizionati all’Obscure, i KADAVAR trovano le condizioni ideali per esprimere ciò che sono attualmente, ovvero un aggiornamento fumoso e torrenziale dei dogmi sabbathiani, perpetrati con uno spirito stoner/hard rock per fortuna lontano dalla spiccata filologia di altri colleghi. Barbe e capelli chilometrici (compatibilmente con le stempiature, si intende), abiti presi dagli anni ’70, ben più di altri personaggi dediti a suoni simili, i tre berlinesi paiono uscire da quell’era fatata per l’hard rock come se la stessimo ancora vivendo. I motivi sono squisitamente musicali, i brani fluiscono liberi da quella che pare una febbrile jam session, dove le strutture e le limitazioni imposte da un disco finito sembrano ben lontane. Il lamento osbourniano di Christoph Lindemann si affaccia lugubre fra cascate di fuzz e riff magnetici, l’hard rock dei Kadavar non ha nemmeno bisogno di chorus in bella evidenza per colpire, sono i piccoli dettagli, persino i filler della batteria e le sortite del basso che danno l’esatta percezione delle qualità del gruppo (GM). Più di qualcuno si è trovato a fuggire dall’Obscure per arrivare giusti giusti al gremito mainstage proprio quando le note di “Fractured Millennium” degli HYPOCRISY si stavano spandendo nell’aria. Accolti con tutti gli onori del caso, Peter Tagtgren e soci sono in effetti il primo gruppo con un vero e proprio palco da headliner, inteso come struttura e ‘costruzioni’, e ricambiano con un concerto dai ritmi sostenuti e suonato egregiamente, pur tuttavia non troppo sorprendente dal punto di vista della scaletta, che ha ripreso un po’ da copione i pezzi ‘imperdibili’, ricalcando quella già vista all’Infernal Forces l’anno scorso. Per carità, vista l’effettiva esibizione, non ci possiamo assolutamente lamentare (GC). Inizialmente in doloroso accavallamento con i Cult Of Luna, coi quali condividono un’ampia fetta di fan, i THE OCEAN sono infine spostati in orario che possa consentire a chi lo desideri di ammirare sia gli svedesi, sia il collettivo teutonico, che sta invece ancora cavalcando l’onda lunga dell’ottimo “Phanerozoic I: Palaeozoic”. In attesa della seconda parte del corposo concept messo in piedi, la compagine di Robin Staps dà un’altra impressionante prova del suo stato di grazia, nonostante il palco defilato e il tempo a disposizione sia meno di quello che meritino. L’abbagliante palinsesto luminoso, progettato dal tastierista/addetto ai sample Peter Voigtmann, si accorda perfettamente a una proposta che nel miscelare istintività, esplorazione, intellettualismi e potenza non ha quasi rivali e mostra oggi ancor più che nel passato una straordinaria levigatezza e unicità. Per chi scrive, il concerto più strabordante e incendiario dell’intera manifestazione, da parte di un gruppo al momento inattaccabile (GM). I FROG LEAP sono l’unica vera nota negativa, dal punto di vista musicale, della selezione di quest’anno del festival. Per quanto Leo Moracchioli possa essere talentuoso e divertente, siamo davvero ridotti a beccarci le coverband perfino ai festival? Una scelta artistica quasi inspiegabile, resa ancora più sconcertante dal fatto di fargli chiudere i battenti odierni su un mainstage; ad ogni modo, il pubblico è partecipe, ride e balla, quindi forse siamo noi ad essere tristemente integralisti… (CF)