08/08/2019 - BRUTAL ASSAULT 2019 – 2° giorno @ Jaromer - Jaromer (Repubblica Ceca)

Pubblicato il 04/09/2019 da

Report a cura di Simone Vavalà, Chiara Franchi, Giovanni Mascherpa, Giuseppe Caterino, Giacomo Slongo e Fabio Meschiari

Eccovi il report della seconda giornata del Brutal Assault 2019. Potete leggere qui il report della prima giornata di festival.

A dispetto dell’orario mattutino (benché le orecchie fossero già state allietate dalle dolci note dei BRUTALLY DECEASED), più di qualcuno si è trovato a fare colazione di fronte allo Jagermaister stage per l’esibizione dei LETTERS FROM THE COLONY. Forse più adatta ad un palco minore, la band dichiara di trovarsi al suo primo concerto di sempre in orario antemeridiano e riesce, con un’esibizione avvolgente, a scrollarsi di dosso il peso di un disco un po’ troppo meshuggo-centrico, potendo mostrare il meglio della propria proposta, composta da alcune variazioni personali sul tema di uno djent a suo modo progressivo, e a lasciare un ricordo più che onesto ai presenti, che aumentano al minuto. Un buon inizio di giornata e prova tutto sommato discreta (GC). Se l’Europa è terra ancora tutta da conquistare, in Giappone e Asia i CRYSTAL LAKE sono una realtà consolidata, che dal 2002 porta avanti il discorso di un metalcore di larghe vedute e contaminato di elettronica, tanto catchy quanto devastante nell’impatto. L’entrata in scena pirotecnica ricorda quella dei connazionali Crossfaith del giorno prima (l’intro elettronica sembra quasi la stessa, ma è semplice suggestione…), il livello dei pezzi è di ben altra caratura. Modern thrash, tamarrismo, beat screanzati, vocalizzi ostili e sensibilità per i breakdown-polverizzavertebre sono i capisaldi imprescindibili attorno ai quali si muovono, a mille all’ora, i ragazzi di Tokyo. Baraonda sul palco, macelleria appena davanti (GM). L’esibizione dei SACRED REICH vince a mani basse il premio integrità e passione 2019 del Brutal Assault. Come sottolinea il paffuto Phil Rind, sono passati ventitré anni dal loro ultimo album e il nuovo chitarrista solista ne ha solo ventidue, ma la band di Phoenix non è evidentemente fatta per rimpianti o rimostranze su quello che poteva essere: ciò che conta è la musica e i brani prescelti esaltano loro e il pubblico, oltre a offrire l’occasione per incitare i presenti alla consapevolezza e all’amore per il mondo; da segnalare il ritorno dietro le pelli dello strepitoso Dave McClain, probabilmente più a suo agio, oggi, con queste sonorità che con i Machine Head. Ascoltiamo in anteprima anche ben tre estratti dal nuovo album, che sembrano decisamente confermare l’entusiasmo di chi l’ha registrato: compatti, orecchiabili, dotati dei loro tradizionali killer riff. Gran finale, ovviamente, sulle note di “Surf Nicaragua” con un circle pit infuocato e tanti sorrisi (SV).

Si direbbero in forma, i DECAPITATED. Con le ultime traversie legali ormai alle spalle, gli ex bambini prodigio del death metal (molto ex bambini e attualmente un po’ anche ex prodigio) hanno scaldato il già rovente pomeriggio con una setlist serratissima e per lo più dedicata al loro ultimo lavoro, “Anticult”, uscito due anni fa. Bravi, ma il confronto col vecchio materiale è abbastanza impietoso anche in sede live (CF). Verosimilmente, i WALLS OF JERICHO non hanno portato a casa né la miglior performance della loro carriera, né tanto meno la miglior esibizione del festival, almeno per quanto riguarda l’esecuzione dei brani. Ma l’energia travolgente di Candace Kucsulain, forse la più credibile tra tutte le frontwoman incazzate della scena metal, vale il metaforico prezzo del biglietto. Perché sì, a volte più dell’impeccabilità tecnica contano la genuinità e la passione che si sanno trasmettere. Nonostante qualche limite, la loro esibizione ha visto una delle platee più scatenate del Brutal Assault di quest’anno. E se l’è meritata (CF). Riprende la passerella del thrash metal storico con i METAL CHURCH, una band che ha proseguito negli anni a sfornare dischi più che onesti, e non a caso apre l’esibizione con la title-track del recente “Damned If You Do”. Nel corso dei tre quarti d’ora a disposizione non mancano estratti da lacrime nostalgiche, con addirituttra “Beyond The Black” dall’esordio eponimo. Mike Howe sembra francamente ringiovanito nel fisico e, sebbene mostri i limiti dell’età nella resa vocale, sopperisce ottimamente con una presenza scenica coinvolgente; in contrappunto con il sodale Kurdt Vanderhhoof, che è al contrario un po’ imbolsito, ma resta sempre un innegabile maestro di riff (SV). Durante l’esibizione dei THY ART IS MURDER, che ci pare dalla distanza più che onesta, manteniamo il posto nelle prime file del Sea Sheperd stage, pronti a ingurgitare violenza e ignoranza coi SODOM. La grande novità è chiaramente il ritorno in formazione di Frank Blackfire, il chitarrista che praticamente ha fatto la storia del thrash teutonico di fine anni Ottanta; e, coerentemente, Tom Angelripper e soci offrono una scaletta che, esclusa la recente “Partisan”, si ferma al 1994, per il godimento collettivo. Il risultato è il solito, mastodontico frullato di riff e urla (sul palco) e ossa e sudore (nel pit), con “The Saw Is The Law”, “Agent Orange” e la conclusiva “Bombenhagel” a segnare i momenti più devastanti; semplicemente immortali (SV).

Storici portacolori del death melodico, approdati con il recente “The Burning Cold” all’ottavo album della carriera, gli OMNIUM GATHERUM si rendono protagonisti di una prestazione solida e onesta, in una seconda giornata contraddistinta da molto hardcore e thrash, rispetto ai quali i finlandesi sono un piacevole diversivo. O forse ‘sarebbero’, perché a dispetto del grande impegno e di una tenuta di palco nient’affatto disdicevole, quanto espresso all’Obscure fatica a catturare e iniettare adrenalina. Formalmente, la squadra di Markus Vanhala non demerita, però, rispetto a gruppi similari come Dark Tranquillity e Insomnium, la resa dei brani dal vivo è molto meno incisiva e un fastidioso senso di ordinarietà si fa strada abbastanza in fretta (GM). Si suda, se sei un hardcore kid, al Brutal Assault. Il giovedì non ammette pause per i cultori del genere, e se il grosso degli addetti ai lavori si concentra sui palchi principali, c’è gloria anche per i LIONHEART all’Obscure. Il loro è un hardcore metallizzato classicissimo, fatto di cariche a testa bassa, breakdown al tritolo, gang vocals e un cinghialismo così ostentato da apparire quasi una parodia, per i meno devoti a questi suoni. Ma, di fronte a una tale incrollabile foga, compattezza e voglia di far male, le chiacchiere stanno a zero e non si può far altro che farsi trascinare nel marasma generato dai californiani: una serie di mazzate niente male, prevedibili quanto si vuole ma assestate con la maestria di chi sa come e dove far male. Divertimento assicurato coi Lionheart, un carico di ignoranza che ci lascia soddisfatti (GM). Noti per essere un conglomerato di musicisti extreme metal dal nobile passato (Liam Wilson dei The Dillinger Escape Plan, Christer Espevoll e David Husvik degli Extol), gli AZUSA confermano all’Octagon pregi e difetti riscontrati nel discreto esordio “Heavy Yoke”. Propensi a dar fiato a voglie schizofreniche, umoralità vocali psicotiche e all’estro tecnico dei singoli, i musicisti all’opera permangono attualmente in un limbo, dove da una parte si tengono stretta l’arte progressive death metal degli Extol, dall’altra tentano di cavalcare le mosse isteriche della singer Eleni Zafiriadou. Quest’ultima purtroppo va ad intermittenza, e se ci facciamo due risate per le facce alla Anna Marchesini con cui stempera la serietà della musica, i vocalizzi, sia quelli urlati che melliflui, escono solo a tratti all’altezza del disco. Aggiungiamoci una prestazione complessiva degli altri strumentisti piuttosto frenata almeno per metà concerto e avremo un quadro grigiastro dell’operato degli Azusa (GM).

Si ritorna al NYHC sui main stage, con una delle band più rappresentative del lotto, ossia i SICK OF IT ALL. Niente di nuovo sotto il sole dal loro show, e per fortuna: Lou Koller arringa la folla saltando e sbraitando, perfettamente accompagnato dallo stomp dei compagni, e anche se il set si concentra abbastanza sull’ultimo, recente, “Wake The Sleeping Dragon!”, non mancano estratti quasi mitologici, in particolare da “Blood, Sweet And No Tears” e “Scratch The Surface”. Manca solo che compaiano magicamente delle bandane in fronte a tutti i presenti, e il viaggio nel tempo indietro di trent’anni sarebbe completo (SV). Ancora in preda allo sconforto per la cancellazione last-minute dei Deicide, stiamo prendendo in considerazione l’ipotesi di abbandonare il magico mondo del death metal. Per fortuna, direttamente da Los Angeles, ci pensano i giovani e determinatissimi SKELETAL REMAINS a farci rinsavire e a rifilarci una delle scariche di violenza più impressionanti di questo Brutal Assault. Temprata da un’attività live sempre più insistente, forte di uno stile che va progressivamente affinandosi (pur rimanendo nell’alveo confortante di primi Pestilence, Gorguts, Malevolent Creation e compagnia floridiana), la band trasforma il tendone in una bolgia di screaming vocals indiavolate, riff ‘a uncino’ e continui strappi ritmici, legittimando la popolarità underground degli ultimi anni e restituendo nel migliore dei modi le composizioni dei tre dischi finora pubblicati (GS). I TESTAMENT sono uno di quei gruppi a cui non si nega un breve pellegrinaggio, neanche se ormai è da un po’ che portano in giro la stessa setlist: del resto, siamo davanti ad una macchina da guerra storica con molte cartucce da sparare, sostenuta oltretutto dall’acustica del Sea Shepherd stage. Un buon live in cui non abbiamo visto nulla che non ci aspettassimo tranne, probabilmente, il notevole calo di peso di Gene Hoglan (CF).

Il black metal dei VARGRAV è fortemente radicato negli anni ’90 e nella sua espressione più sinfonica, con un occhio fisso verso i primi Emperor, e tutto sommato ci ha stupito un po’ il fatto di trovarci all’Octagon stage senza aver dovuto lottare per un posto, vista la difficoltà di assistere ai concerti in quest’area non prendendoli per tempo. Anni Novanta anche l’approccio dei finalndesi capitanati dall’unico effettivo membro della band, V-Khaoz, con tanto di soundcheck in facepaint e jeans. Dal punto di vista live, però, la band ha saputo ricreare egregiamente le glaciali esperienze sentite sui due dischi pubblicati, pur lottando un po’ coi suoni (troppi fischi dal palco); alla lunga un po’ di staticità si è fatta sentire, benché l’atmosfera venuta a crearsi fosse quella giustissima di un concerto black metal così come dovrebbe essere, con tutti i suoi difetti (GC). “You Won’t Get What You Want” è stato l’album del grande, angosciante ritorno dei DAUGHTERS, che scelgono di riproporlo quasi per intero al Brutal Assault, costringendoci a un doloroso viaggio all’interno della mente. Alexis Marshall, segaligno e nervoso, è il perfetto cantore del dolore e delle paturnie che emergono dai brani, una sorta di Nick Cave dei Birthday Party che salmodia e grida su derive no wave vicine ai Sonic Youth. La resa sonora non è impeccabile, e a onore del vero emergono stecche vocali e qualche colpo perso dal resto della band, ma lo strazio è onesto, e il loro salto musicale, rispetto al mathcore senza lode né infamia del passato, è evidente (SV). Restiamo sotto il tendone dell’Obscure sia per far rifiatare i neuroni, sia per assistere all’assalto sonoro dei KAMPFAR. La band di Dolk non è forse la prima che viene in mente pensando al norwegian black metal, complice un esordio leggermente successivo agli anni topici della scena, ma è indubbio come rappresentino tutt’oggi una certezza di integrità e di capacità di coinvolgere il pubblico dal vivo. Accompagnati da tastiere registrate, i quattro vichinghi ci offrono il loro black metal insieme diretto ed atmosferico; il palco è scarno e i musicisti suonano senza fronzoli, ma i campionamenti aggiungono una forte componente folk; è questa, del resto, la cifra stilistica dei Kampfar, resa particolarmente evocativa dalle involuzioni vocali da bardo del loro frontman (SV).

I MESHUGGAH sono stati tra i primi gruppi ad essere annunciati all’indomani dell’edizione 2018 e sono, certamente, tra i più attesi di questo BA. Attesa comprensibilissima e ripagata con un concerto pazzesco, perché c’è poco su cui discutere: i Meshuggah hanno provato a imitarli in tanti –troppi – ma nessuno è riuscito a eguagliarli. C’è un modo di essere funambolici, ma mai fini a sé stessi; complessi, ma godibili; tecnici, ma limpidi, che solo loro riescono a portare in studio e ancora di più sul palco. Un live impressionante da annoverare tra gli highlight del festival, baciato da un sound che, almeno dalla nostra posizione un po’ arretrata, ha reso vera giustizia ai labirinti architettonici della band (CF). Quando la fatica e l’alcol battono in testa, il KAL è un rifugio per tanti. Costoro si fanno appena destare dalle carneficine sul palco, come quella gentilmente offerta dal ragazzo coperto da passamontagna sotto il moniker di TEOREMA. Tavolata di manopole davanti a sé, su di un lato, microfono in mano e pannello alle spalle, l’oscuro figuro (impossibile trovare informazioni in rete) ‘intrattiene’ con un affastellarsi disordinato di rumori industriali, sul quale urla parole incomprensibili, pesantemente distorte e amplificate dagli effetti. I filmati sullo sfondo si riferiscono al dirottamento aereo operato da terroristi palestinesi della RAF il 13 ottobre 1977, che possiamo seguire in un tremendo amarcord. Una tragedia nella tragedia di Teorema, che mette a dura prova la nostra resistenza uditiva in un assalto noise senza requie alcuna, durato il giusto e appagante le nostre piccole perversioni (GM). Non male i WINDHAND, che dal piccolo Octagon difendono onestamente le loro suggestioni sludge. La resa live dei pezzi è un po’ impastata ma sicuramente più ricca di pathos rispetto all’album; protagonista indiscussa, la calda voce blues di Dorthia Cottrell, brava sia nel ruolo di sacerdotessa eterea che in quello di psichedelica voce catapultata tra noi dagli anni Sessanta (CF). È poi il momento degli ANTHRAX, una band per tutte le stagioni. Rivederli sorseggiando un’altra birra da mezzo litro a 1,50€ è un buon modo per prepararsi alle ultime battute della serata con leggerezza, specie se la scaletta prevede solo una divertente carrellata di vecchie hit; ma al tempo stesso lo stato di forma della band è tale da lasciarci a bocca aperta e costringerci ad un headbanging selvaggio durante la maggior parte dei brani. Il ritorno dietro le pelli in sede live di Charlie Benante è un vero e proprio valore aggiunto, così come l’ottima resa vocale odierna di Belladonna. Non a caso, la Storia del metal passa da loro (SV).

Come scritto, le ultime tappe della serata saranno serrate, a cominciare dal piccolo cult del math metal che va sotto il nome di CAR BOMB. Figli putativi dei sopracitati Meshuggah, i quattro newyorkesi sono a dir poco magistrali nel dare vita alla follia che propongono in studio ma, a nostro parere, patiscono un po’ l’acustica dell’Obscure stage, certo non la sede migliore per apprezzare al meglio tutto ciò che è ‘tech’ (CF). L’assenza dei Deicide è stata comunicata tramite l’app ufficiale del Festival solo all’ora di pranzo, anche se ci pare improbabile che le motivazioni addotte (un volo aereo perso) possano collimare con le tempistiche… A questo punto, il tempo per trovare un sostituto era quasi inesistente, e così gli organizzatori fanno l’apprezzabile scelta di offrire il main stage a un orario d’eccezione a una band poco nota, ma già apprezzata a livello locale. I BRUTALLY DECEASED si rifanno musicalmente alla scuola death svedese e sembrano mostrare discrete capacità tecniche e compositive, ma complice forse la stanchezza (si erano infatti già esibiti in mattinata) o l’ansia da prestazione, sembrano molto impacciati nel coinvolgere il pubblico del ‘prime time’. Da rivedere sicuramente, o in orario più consono, o lasciandogli il tempo di maturare (SV). CARPENTER BRUT chiude il primo giorno con una delle performance più entusiasmanti di tutto il festival. Migliaia di persone radunate sotto il Sea Shepherd stage hanno ballato per oltre un’ora al ritmo del suo trascinante beat ottantiano, illuminati da visual tributo al cinema horror d’annata e con picchi di puro godimento nei momenti karaoke. E a proposito di karaoke, finale in grandissimo stile con una cover di “Maniac” di Michael Sembello: qualcuno pensa ancora che i metallari non amino la dance? (CF)

0 commenti
I commenti esprimono il punto di vista e le opinioni del proprio autore e non quelle dei membri dello staff di Metalitalia.com e dei moderatori eccetto i commenti inseriti dagli stessi. L'utente concorda di non inviare messaggi abusivi, osceni, diffamatori, di odio, minatori, sessuali o che possano in altro modo violare qualunque legge applicabile. Inserendo messaggi di questo tipo l'utente verrà immediatamente e permanentemente escluso. L'utente concorda che i moderatori di Metalitalia.com hanno il diritto di rimuovere, modificare, o chiudere argomenti qualora si ritenga necessario. La Redazione di Metalitalia.com invita ad un uso costruttivo dei commenti.