10/08/2019 - BRUTAL ASSAULT 2019 – 4° giorno @ Jaromer - Jaromer (Repubblica Ceca)

Pubblicato il 06/09/2019 da

Report a cura di Simone Vavalà, Chiara Franchi, Giovanni Mascherpa, Giuseppe Caterino, Giacomo Slongo e Fabio Meschiari

Eccovi il report della quarta e ultima giornata del Brutal Assault 2019. Potete leggere qui il report della prima giornata di festival, qui quello della seconda e a questo link quello della terza.

La scelta di mettere in apertura dell’ultimo giorno i GUTALAX, paladini cechi della scatologia, ha dato ragione agli organizzatori. Lo stage dell’esibizione era infatti pieno di spettatori svegliatisi apposta e magari tornati a dormire subito dopo nelle tende circostanti, ma pochi se la son sentita di perdersi lo show. Tra pulzelle e cavalieri bardati di scopini per il water, magliette inneggianti la defecazione, gadget tipo ciambella del water attorno al collo, qualsiasi tipo di oggetto che volava sul pubblico e quattro Toi Toi sul palco dal quale i Nostri sono usciti sotto le note della sigla di Baywatch, il concerto è stato un trionfo di trash e divertimento. L’esibizione si è svolta come da copione in un tripudio di grind vomitato senza sosta, battute volgarissime, la presentazione di un elegante video intitolato “Shitbusters” e una delle immagini dell’estate metal 2019, ovvero il bagno chimico lanciato, in barba a qualsiasi norma di sicurezza, sulla testa del pubblico, per un dignitosissimo crowdsurfing. Non il concerto più fine ma sicuramente il più spassoso di questo Brutal Assault (GC). È agli sgoccioli, salvo ripensamenti dell’ultima ora, la storia dei NECROS CHRISTOS, che hanno da tempo annunciato lo scioglimento al termine dei concerti di supporto all’ultimo, gigantesco, full-length “Domedon Doxomedon”. Quasi come se avessero già effettuato uno sgombero completo di quanto necessario a suonare, eccetto gli strumenti, i quattro si presentano privi di scenografia e ogni altro riferimento al mondo intensamente spirituale e intriso di suggestioni occulte di cui la loro musica è ricca. La band si concentra, spietata, su un death metal tetragono, martellante, perennemente severo e poco propenso a spostarsi da tempi medi asfittici. Per gli amanti del genere, è tutto al proprio posto, a partire dal growl profondo ed espressivo di Mors dalos Ra, passando per il malefico solismo chitarristico, finendo con una sezione ritmica che non fa altro che picchiare duro (GM). Sono invece dei diavoli scatenati i brasiliani VIOLATOR, thrasher fra i più apprezzati nell’underground fra gli act fioriti negli anni 2000. La loro ricetta non contempla innovazioni o grandi pretese contenutistiche, il tributo agli anni d’oro del genere è schietto e sincero e contempla essenzialmente mitragliate di concitazione, violenza e bramosia come se ne proponevano i giovani Exodus, Slayer, Dark Angel e Sepultura. Rispetto a cotanti numi ispiratori, i Violator adottano un approccio più vicino al crossover, una manna per i ‘drogati’ di mosh, che sotto la pioggia battente se le danno di santa ragione. Il bassista/cantante Pedro Arcanjo sprizza gioia per essere davanti a una platea tanto entusiasta e non risparmia invettive contro il governo del suo paese (Bolsonaro raccoglie consensi dappertutto), evidenziando la carica eversiva, di pura ribellione, della propria musica (GM).

La pioggia che ha scandito l’ultimo pomeriggio del festival è al suo acme quando una delle band più efferate in ambito thrash death, cioè i  DEMOLITION HAMMER, fa il suo ingresso sul palco. Come sempre il gruppo di New York regala una prova da spaccare i colli, aprendo con la velenosissima “Skull Fractured Nightmare” e passando in rassegna i due dischi di maggiore impatto della corta discografia dei Nostri. Tra brevi e taglienti discorsi tra un brano e l’altro (conditi da un numero di fuck che neanche Scarface!), un’attitudine genuina e la voglia di mettere a ferro e fuoco l’intero festival, ancora una volta i Demolition Hammer hanno lasciato lividi sul numero imprecisato di corpi gettati in uno dei moshpit più violenti di tutta la kermesse (GM). Nutrita la presenza umana all’Obscure per gli OCEANS OF SLUMBER, che grazie al contratto con Century Media stanno godendo di buona esposizione mediatica e conseguenti apparizioni in festival di rilievo. L’esibizione in terra ceca è a due facce, quelle che d’altronde caratterizzano anche le prove in studio. Se le escursioni nel metalcore e nel death metal, con tanto di growl e blastbeat, lasciano il tempo che trovano, insipide e qualunquiste, le divagazioni prog, le limacciose immersioni nel gothic-doom e la stupenda voce nera di Cammie Gilbert proiettano gli Oceans Of Slumber in territori di eccellenza. Così, la prima parte dello slot, dedicata più che altro al materiale estremo, scivola via tra alti e bassi, mentre la seconda, polarizzata dai vocalizzi a tutto campo della Gilbert, esotica e misteriosa, amara e suadente, riesce addirittura a stregare e portare uno scroscio di applausi tonanti quando la band, a questo punto troppo presto, abbandona lo stage (GM). Bistrattati o osannati, di certo i COMBICHRIST non possono lasciare indifferenti. Costretti ad accattivarsi il pubblico sotto la pioggia e alle sei del pomeriggio per un cambio di programma, i norvegesi si presentano sul palco in quattro – optando quindi per le tastiere campionate, e votandosi a un tribalismo dall’aura cyberpunk; tale risultato viene esaltato dalla presenza della doppia batteria, di cui una con il funambolico Shaun F ad alternare colpi, salti e facce da zombie buffo. Così, tra bolle di sapone sparate tra i brani e la carismatica prestazione del cantante Andy LaPlegua, il combo riesce a dimostrare di aver costruito, negli anni, una personale sintesi tra la matrice aggrotech, i grotteschi momenti appannaggio dei loro mentori Rammstein e la cinica crudezza del primo Marilyn Manson. Niente male (SV).

Approfittiamo di una breve tregua dal maltempo per ripararci all’Obscure stage, dove il violino dei SAOR sta scaldando le corde. Il progetto del polistrumentista scozzese Andy Marshall è piuttosto chiacchierato tra i fan dell’atmospheric black e ascoltandolo live si capisce perché: tra atmosfere trasognate e una suggestiva alchimia di black metal, folk e un pizzico di prog, la proposta dei Saor manifesta una personalità chiara ed intrigante, che i suoni infelici non riescono ad intaccare. Limiti? Difficilmente si lascia il concerto con un riff in testa (CF). Dalla Svezia con furore, i RAISED FIST calcano lo Jagermeister stage immersi in un tramonto da cartolina, con tanto di arcobaleno. Il romanticismo finisce lì, perché la travolgente ventata hardcore che soffia dal palco è carichissima e bella incazzosa. Esclusi i minuti in cui l’inarrestabile Alle Hagman predica il suo messaggio di pace al microfono, l’esibizione è un trascinante tour de force di pogo, urla e, ovviamente, pugni alzati (CF). Procedendo a piccoli passi e senza mai prendersi troppo sul serio (basti pensare all’atteggiamento sul palco del frontman Ben Wright), gli UNFATHOMABLE RUINATION hanno saputo diventare un faro da seguire per il circuito ‘brutal’ death metal europeo. Amanti delle trame iper-tecniche e convulse ma, al tempo stesso, fedeli discepoli del concetto di riff e forma canzone, i cinque londinesi ci investono con un carico di complessità e pesantezza che non prescinde mai dall’impatto dei singoli passaggi, rendendo fruibile ciò che solitamente, in altre mani, finisce per apparire onanistico o inutilmente oltranzista. Un concentrato di dinamicità ben immortalato dalla ‘hit’ “Pestilential Affinity” e da un inedito destinato a comparire sull’imminente terzo disco del gruppo (GS). I VED BUENS ENDE sono come ammantati da un’aura di culto difficile da dipanare, e la prova live di una band talmente ‘iconica’ nel panorama della musica estrema tutta – ma black di riferimento, con tutto quel che può voler dire ciò – fa si che l’Obscure stage sia stato ben riempito, sia da chi sognava di poter vedere da tempo la band, sia dagli ascoltatori più occasionali. Una proposta peculiare come quella offerta dai norvegesi non può prescindere da una resa sonora ineccepibile, e questo, assieme ad una prova maiuscola, portano i circa quaranta minuti dell’esibizione a volare in un attimo. La band, pur verrebbe da dire con l’aiuto di qualche campionatura qua e là (almeno così ci è sembrato), ha ripagato l’attesa con uno show incredibile per quanto a precisione e riuscita dei brani, dando lustro alla propria nomea. Da rivedere ad ogni possibile occasione (GC).

Confermano quanto già sappiamo di loro i ROTTING CHRIST, che riversano le loro diaboliche litanie su una platea numerosissima ed entusiasta. Anche se “The Heretics” fatica a tenere il passo degli ultimi capitoli della loro discografia, la risposta ai nuovi pezzi ci è sembrata positiva e la debita iniezione di vecchi successi ha fatto della performance dei  fratelli Tolis e soci il consueto, piacevole spettacolo. Unico appunto, temiamo che le esibizioni coincidenti di due gruppi black (i Rotting Christ sul Sea Shepherd stage e gli Antaeus all’Octagon) abbiano penalizzato quello meno ‘mainstream’, togliendo pubblico alla meritevole performance della combo d’Oltralpe (CF). E quindi andiamo proprio all’Octagon. Dalle trame in odore di Origin e Defeated Sanity degli Unfathomable Ruination al black metal psicotico degli ANTAEUS il passo non è certo breve, ma la qualità in prossimità di questo palco non accenna comunque a diminuire. Anzi, con l’arrivo sul palco dei francesi – da sempre baluardo delle frange più intransigenti e violente del filone – il Brutal Assault registra uno dei suoi massimi picchi, restituendoci con lucida spietatezza il meglio della produzione di MkM e Set. La setlist è di fatto un ‘best of’ che non trascura nessuno dei capitoli-chiave della formazione transalpina, con il sound primitivo dell’esordio “Cut Your Flesh and Worship Satan” mescolato senza soluzione di continuità a quello chirurgico e implacabile degli acclamati “Blood Libels” e “Condemnation”, passando per gli influssi death metal del sottovalutato “De Principii Evangelikum”. Interpretazioni alienate e alienanti come quella del suddetto frontman chiudono quindi il cerchio sulla performance degli Antaeus, in grado di annichilire tutto e tutti e alzare un’asticella che (forse) solo i Mgla saranno in grado di raggiungere per quanto concerne la Nera Fiamma (GS). Metà del set dei NAPALM DEATH (almeno in termini numerici, se non di durata) è dedicato ai loro primi tre album e vorrà pur dire qualcosa; non che i quattro folli abbiano perso mordente, impatto o un filo della loro iconoclastia, tutt’altro. Semplicemente suonare quei pezzi, e per noi ascoltarli, è la conferma di quel motto ‘leaders, not followers’ che diede anche il nome a un loro album (di cover, ironia della sorte). Tutti i tasselli della loro decomposizione death-grind sono al proprio posto, come sempre: il gigantesco Shane Embury percuote il basso per spingerci le vibrazioni nello stomaco, perfettamente sostenuto da Danny Herrera; Mitch Harris ci corrode i timpani con la sua chitarra stridente; e Barney si muove come un tarantolato. Momenti topici sulla doppia esecuzione di “You Suffer” e su “Nazi Punks Fuck Off”, accolta da un sano boato di partecipazione del pubblico (SV).

A giudicare da quante magliette con il loro logo si sono viste in giro, è evidnete come uno dei grupi più attesi al festival siano i MGLA. Il black metal della band di per sé non lascia dubbi sulla genuinità della proposta, eppure il look e lo stile musicale proposto dai polacchi ha fatto si che si creasse un intero filone ad essi ispirato, facendo così vivere ai fautori di questa ‘new wave’ una sorta di momento d’oro quasi in antitesi con il concept del gruppo stesso, con un’apertura impensata verso il genere da parte di persone che magari non avevano mai apprezzato un pezzo black in precedenza. Qualsiasi pensiero malizioso viene però spazzato via dopo pochissimi istanti dall’ingresso on stage. Glaciali, nichilisti, cinici. Senza un saluto o un ringraziamento, solo strumenti ed espressività. Quello che accade sul palco ricalca il ‘classico’ concerto Mgla, ma il contrasto tra palco e audience diventa a questo punto quasi tangibile, una lama invisibile sembra tagliare con le proprie ipnotiche trame ogni punto d’incontro tra la musica e un’immagine venutasi a creare indipendentemente, lasciando i presenti di sasso di fronte ad un ennesimo, infallibile live. Qualche anticipazione di quel che sarà il nuovo album e qualche ormai ‘vecchio’ pezzo da ’90, anche coi Mgla non ci accorgiamo del tempo passato ed eccoci già alla fine dell’ultimo brano (GC). Per gli ESKHATON, è rimasto un pubblico da piccolo club, neanche nei momenti di massima affluenza. Nonostante ciò, gli australiani si rendono protagonisti di un concerto vibrante, una chirurgica mattanza di onorabilissimo death metal cervellotico, ansiogeno e alienante, come si usa nel continente oceanico. Lievemente meno fuori di testa dei connazionali Portal e Grave Upheaval, allineati se vogliamo a quegli altri energumeni degli Impetuos Ritual, i ragazzi di Melbourne danno un saggio di bravura quale francamente non ci saremmo aspettati, condotto sapientemente da un drumming insieme viscerale e dettagliatissimo (GM). Difficile trovare gente in piedi al KAL al terminar del giorno, c’è chi non fa una piega neanche quando il duo polacco degli SZNUR va a seminar terrore. Un saliscendi di ondeggiamenti ambient e scariche harsh noise, quello di questi due ragazzi, che come vuole spesso il canovaccio di chi si dedica a tali amplessi sonici, prima di andare sul palco paiono personaggi miti, mentre quando incanalano nell’impianto audio i loro tumulti, sono delle iene irrequiete. Il doppio cantato, un vomitare d’urla filtrato con parsimonia, crudele e disperato come l’hardcore più bieco, diventa ancora più incisivo per lo stage acting facinoroso, con l’alta e pelata figura del più grosso dei due a incutere un sacrosanto timore d’aggressione (GM).

Dalla reunion e uscita di “Surgical Steel” qualsiasi buon metallaro ha visto i CARCASS un numero ormai imprecisato di volte, e magari qualcuno potrebbe iniziare a volere qualcosa di più dalla solita scaletta di Walker e soci. Pensieri che durano giusto quei pochi secondi che separano l’intro da “Unfit For Human Consumption” e la subito seguente “Buried Dreams”. Sarà anche la solita scaletta, ma quando i dischi sono dei capolavori e contengono praticamente tutti pezzi da novanta come ci si può anche solo appena lamentare? Un pezzo da best of dietro l’altro e una band in forma smagliante fomentano irrimediabilmente il pubblico del Brutal, dedito ad un pogo celebrativo divertito e selvaggio, con dei picchi niente male con pezzi come “Exhume To Consume”, “This Mortal Coil”, “No Love Lost” e la doppietta formata da “Corporal Jigsore Quandary” e la sempiterna “Heartwork”, che inizia a mandare a letto molti dei presenti con un sorriso ebete sulla faccia, qualche livido e la giusta dose di sudore e adrenalina (GC). Corriamo nuovamente all’Obscure per assistere allo show dei MIDNIGHT, una band le cui sonorità black’n’roll ci hanno sempre incuriositi alla prova dal vivo. Cappucci d’ordinanza, ignoranza di scuola quasi punk, il trio convince e diverte, grazie a un’attitudine caciarona – forse poco black, in effetti – ma che non lascia spazio a fronzoli, a parte qualche frase lanciata qua e là dal leader Athenar. Brani come “You Can’t Stop Steel” sono inni marci resi come dovuto: in maniera elementare e adrenalinica, per far sbattere la testa e svuotarla di ogni contenuto (SV). MARIA JIKU, giapponese stabilitasi da diversi anni a Berlino, come lavoro principale fa la… dominatrice. Qua, inguainata in corpetto di pelle e leggins che risvegliano taluni dal dormiveglia, propone un’apprezzabile scarica di torsioni elettroniche, selvagge e taglienti, rese isteriche e incontrollate da una prestazione vocale ben poco umana. La Jiku si dilania la gola in bestiali rantoli acuti, sovrastando un suono a volte piuttosto minimale, con i vuoti riempiti, oltre che dalla voce, dai movimenti epilettici di Maria. Sul finale, il dettaglio di colore che stavamo aspettando: scelti tre volontari tra il pubblico, la Jiku li frusta per bene, lasciando, al termine della fustigazione, vistosi segni sulla schiena di chi si è prestato a tale liturgia. Una mezz’ora di insensatezza, l’ultimo attentato ai nostri padiglioni auricolari nell’area più stramba del Brutal Assault (GM).

Lo spostamento nell’ultimo slot ai mainstage degli ANAAL NATHRAKH è quasi perfetto, sia per aggiungere il buio alla loro oscura proposta, sia per un’ultima, irrazionale botta di adrenalina. Il carisma di V.I.T.R.I.O.L. conquista e al tempo stesso azzittisce il pubblico come da tradizione, e la band aggiunge l’inevitabile dose di spiazzamento con le sue contorte variazioni tra industrial, grind e black. Lo show si concentra sugli ultimi album, anche se un paio di ripescaggi da “In The Constellation Of The Black Widow” completano quasi alla perfezione l’esibizione; ma la ciliegina sulla torta non è musicale, bensì ‘politica’: sul finale il cantante non risparmia sentiti ‘fuck off!’ verso Brexit e i sovranisti sparsi per il mondo, tenendo alta la bandiera dell’anarchismo che ha sempre contraddistinto la band (SV). Gli SHAPE OF DESPAIR confermano la scelta artistica degli ultimi anni di questo festival, ossia affidare la chiusura dei battenti a una band funeral doom. I sei finlandesi  arrivano forse un po’ troppo tardi rispetto alle nostre membra e meningi ormai sfiancate, ma grazie al loro sound sublime e malinconico, riescono comunque a emozionarci. Giocano il pezzo da novanta in apertura, con quella “Reaching The Innermost” che da sola valeva l’ascolto per ore e ore del loro ultimo album, e che si conferma dal vivo un dipinto straziante dei più profondi recessi dell’anima. Restano altre tre suite infinite e tormentate a seguire, sulle note delle quali ci lasciamo andare, alle soglie della privazione sensoriale; sono le tre passate quando attraversiamo per l’ultima volta l’intero Brutal Assault, tra banchetti chiusi come in un luna park abbandonato, salme sdraiate e altri esseri barcollanti come noi o come non morti, però felici di aver preso parte per l’ennesima volta a questa eccellente kermesse (SV).

 

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