Report di Denis Bonetti e Vanny Piccoli
Foto di copertina dai canali ufficiali del Brutal Assault
Quando ad un festival che dista dieci ore dai nostri confini (o almeno, da quelli più vicini) si inizia a sentir parlare fin troppo spesso italiano, significa che la missione è stata compiuta.
Il Brutal Assault, al pari dei più grandi Hellfest, Wacken ed un pugno di altri, ha oltrepassato i ‘limiti’ della zona geografica in cui si trova e anche mediaticamente è diventato un festival di richiamo in grado di attirare persone anche da altri continenti. D’altronde, la line-up di quest’anno parla chiaro: non ci sono headliner che accontentano tutti (i primi e gli ultimi forse, furono gli Slayer nel 2016 in una edizione fin troppo affollata) ma ben centocinquanta band in grado di soddisfare sia i gusti sacrosanti di ogni appassionato di musica sia gli utenti più curiosi e in cerca di sonorità nuove.
Se pensiamo anche alla cornice della fortezza di Josefov che permette di avere zone relax e bar, una sterminata area food e merch, la tentazione è sempre troppo grande, anche sapendo che non sarà possibile vedere tutto, viste le contemporaneità dei vari palchi (ben cinque, considerando anche il Kal Stage dedicato esclusivamente all’elettronica e all’ambient). Ecco quindi il nostro racconto ad alto ritmo, aiutato nella sua realizzazione dal tempo atmosferico che ci ha dato l’ultimo residuo di pioggia solamente nel primissimo giorno, permettendoci quindi di godere di una temperatura accettabile per essere a metà agosto.
Per l’edizione di quest’anno, l’organizzazione del festival ha messo in piedi una serata di warm-up, che si è tenuta sempre all’interno della fortezza, la sera precedente all’inizio delle danze vere e proprie. Quindi si può dire che il Brutal Assault sia iniziato martedì 8 agosto con una manciata di band che si sono esibite all’Obscure stage, uno dei palchi secondari.
L’area del festival è stata per questa occasione ridimensionata per accogliere circa duemila persone, utilizzando solamente un’entrata più defilata come punto d’ingresso e chiudendo tutta la zona dove si trovano i main stage e le vie adibite per vendere street food.
A causa di una lunga giornata di viaggio in furgone direttamente dallo stivale, facciamo il nostro arrivo solamente in tarda serata, giusto in tempo per assistere allo show di REDZED. Il producer di alternative hip-hop sembra giocare in casa nonostante il fatto che la sua proposta musicale si discosti molto da quella degli artisti che ogni anno si esibiscono al Brutal Assault: l’atmosfera che si respira è quella del party più totale, sia sopra che sotto al palco. L’artista, accompagnato da vari musicisti, propone un set alternando brani trap e hip-hop con altri che richiamano vagamente il nu metal dei primi anni ‘2000, mantenendo comunque una forte componente elettronica ad ogni sezione.
Notiamo che il pubblico di fronte all’Obscure conosce molti brani proposti e balla con disinvoltura, quasi come si trovasse ad un evento in discoteca, eccezione fatta per l’apertura del pit tra mosh e 2-step a tempo di drum’n’bass. Possiamo esporci nel dire che Zdeněk Veselý con la band al completo, ha tenuto perfettamente il palco e il pubblico senza una virgola fuori posto nonostante qualche capillare parere discordante tra la folla.
Questo riscaldamento insolito del festival ha caricato i presenti con un mood di divertimento e smania, in attesa che sorga il sole per il primo vero giorno di Brutal Assault. (Vanny Piccoli)
MERCOLEDI’ 9 AGOSTO
Il meteo purtroppo non gioca dalla nostra parte, un temporale ha colpito la zona durante la notte e al nostro arrivo in tarda mattinata troviamo altra pioggia, vento e fango praticamente ovunque.
La prima esibizione a cui assistiamo è quella dei FEASTEM, con il loro grindcore genuino e vecchio stile. Abbiamo già avuto modo di vedere in azione la band finnica in altri contesti la differenza si nota: in un palco piccolo e più accogliente (ci riferiamo all’Obscene Extreme) ci hanno sorpresi con esibizioni caotiche e folli, mentre in un contesto molto più grande e in orario mattutino riduce ovviamente il loro impatto, anche se il loro grind coinvolgente, molto orientato verso il fastcore e il crust è sempre piacevole. (Denis Bonetti)
Sopra il Sea Shepherd Stage iniziano i DEVOID OF THOUGHT che stanno affrontando un tour europeo con gli Artificial Brain, i quali si occuperanno di chiudere questa prima giornata di festival. Il quartetto di Varese mescola death metal puro con atmosfere caustiche che rendono molto bene con il maltempo di questi giorni. I nostri chiudono una performance energica dalla prima all’ultima nota che ha un buonissimo impatto sui presenti, i quali non tardano a spostarsi verso il palco adiacente per la prossima esibizione degli ANGELUS APATRIDA. (Vanny Piccoli)
E’ difficile considerare i thrasher spagnoli una nuova band nonostante siano in giro da ormai un ventennio. Pur scarsamente originali nei natali, con il loro thrash debitore dei Death Angel riescono però a coinvolgere facilmente il pubblico di Jaromer che inizia a scaldarsi, complice anche una stabilizzazione del meteo (che sembra voler chiudere definitivamente con la pioggia), per cui i presenti pian piano iniziano a spogliarsi da spolverini e impermeabili di fortuna. Il limitato tempo a disposizione concede agli Angelus Apatrida comunque sette/otto pezzi in cui riconosciamo parecchi apprezzabili estratti dall’ultimo eponimo disco del 2021. (Denis Bonetti)
Prima di spostarci verso l’area bar, osserviamo l’inizio del set dei FIT FOR AN AUTOPSY e il loro deathcore carico di stacchi e breakdown. Erano diversi anni che non avevamo modo di rivederli dal vivo e li abbiamo trovati ancora più energici e divertiti. La loro proposta rimane, a quel che sentiamo, piacevole ma piuttosto immutata e ci chiediamo quindi che tipo di impatto stia avendo su band come loro, l’ultima ondata deathcore ‘giovane’, guidata da nomi come i Lorna Shore, visto che i nostri musicisti dal Jersey sono ormai attivi da più di quindici anni. Che sia giunto il momento di dividere il metalcore e il deathcore in generazioni distinte?
Con la nostra birra in mano per la prima volta in questa prima giornata ci spostiamo verso l’Obscure, il terzo palco per importanza nel festival, e siamo piacevolmente colpiti dall’organizzazione che inizia a spargere paglia sulle pozzanghere. (Denis Bonetti)
Attraversata l’area food e quella dedicata al merch, ci imbattiamo nella proposta stoner dei giapponesi CHURCH OF MISERY, un nome piuttosto noto anche dalle nostre parti (e infatti sono appena tornati in occasione dell’edizione 2023 del Solo Macello Fest). Dopo il thrash degli Angelus Apatrida, le sonorità si alleggeriscono, grazie al loro stoner ben suonato e alla voce piacevole e non urlata del singer Kazuhiro, mai domo sul palco.
Il loro stile si muove tra Pentagram, Kyuss e ovviamente Black Sabbath regala un po’ di calore all’ancora umida fortezza Josefov e infatti a tratti inizia ad uscire il sole, ben accolto da tutti i presenti. (Vanny Piccoli)
Nonostante festival come il Brutal Assault siano ormai contenitori di generi molto diversi fra loro, è evidente ad un occhio allenato come l’hardcore sia più che ben rappresentato in questa edizione, equamente diviso tra vecchie glorie e nuove generazioni.
I primi ad esibirsi per questa categoria sono gli statunitensi SLAPSHOT, sicuramente non dei novellini, che si rivelano comunque subito un’ottima parentesi piena di energia e di impatto. I suoni sono perfetti per il loro show, guidato dallo storico ‘Choke’ Kelly, ultimo membro originale rimasto. Nell’ultima decade il combo di Boston è rimasto attivo in maniera discontinua e con formazioni più che rimaneggiate, ma il nerboruto cantante resta un collante più che sufficiente a rendere gli Slapshot più che credibili e a farci godere dei classici per primissimo periodo, estratti in gran parte da “Step On It” e “Back On The Map”.
Sempre sullo stesso genere, ci rendiamo conto che per poter mangiare qualcosa e avere un po’ di relax ci perderemo invece qualche ora dopo i Lionheart, altra solida hardcore band che avrebbe meritato un’occhiata ma d’altronde, la quantità di band in contemporanea fin dal primo giorno in festival con più palchi diventa a volte difficile da gestire, perché i veri appassionati devono a volte fare scelte dolorose. (Denis Bonetti)
Alcuni di noi decidono di andare a verificare lo stato di salute degli australiani BE’LAKOR. Se c’è un gruppo che da studio sta offrendo prove sempre più convincenti ma paga la propria posizione geografica, è proprio la formazione di Melbourne, che ha saputo incantare il pubblico del Brutal Assault ancora una volta a colpi di progressive melodic death.
La lunghezza e le strutture del brano medio dei Be’lakor permette loro di eseguire solo cinque brani, ma la ricerca sonora e la melodia di piccoli inni come “Venator”, “Countless Skies” o “Abeyance” non hanno sicuramente lasciato indifferenti i tanti presenti accorsi a vederli. (Denis Bonetti)
Giusto il tempo di fermarci ad un chiosco per recuperare qualcosa da bere, e salgono sul Marshall stage gli IMMOLATION.
La band di Ross Dolan e soci mette in campo una scaletta che vede buona parte dei brani dell’ultimo “Acts Of God”. L’esecuzione tecnica del quartetto statunitense è perfetta ed i suoni rendono al meglio, richiamando moltissimo l’interesse dei presenti anche tra gli ‘addetti ai lavori’, infatti si intravede Tomas Haake dei Meshuggah a lato del palco, concentrato a seguire il concerto.
Purtroppo però il set è stato interrotto ben due volte a causa di problemi tecnici sul palco, totalmente esterni alle volontà della band e lasciandoli senza energia elettrica. A causa di questi episodi, la loro esibizione è stata tagliata di circa quindici minuti, lasciandoci un po’ l’amaro in bocca ma comunque, tra i presenti, ciò che emerge maggiormente è un’ottima e compiaciuta risposta, soprattutto in chiusura con “Let The Darkness In”. (Vanny Piccoli)
Dopo di loro nell’area dei palci principali prendono posizione gli AGNOSTIC FRONT di Roger Miret e Vinnie Stigma, che interpretano al meglio l’ennesima occasione di suonare dal vivo davanti ad un pubblico diversificato, coinvolgendo davvero tutti. Se abbiamo diversi esempi di ‘terze età’ di valore – Iron Maiden su tutti – è quasi incredibile vedere Roger e Vinnie muoversi come se avessero trent’anni di meno. La scaletta proposta è il solito greatest hits che ci godiamo dalle retrovie, riposandoci un po’ e riflettendo su come il tempo per alcune band, almeno dal vivo, non sembri passare davvero mai. (Denis Bonetti)
Nel frattempo, all’Obscure Stage alcuni di noi si godono l’esibizione dei CROWBAR che sembrano tornati a far quadrare il cerchio con il loro pesante sludge metal.
Ci è capitato di vederli in altre occasioni, nell’ultimo ventennio, ma dopo “Lifesblood For The Downtrodden” (disco che ha ormai due decadi) il loro percorso non ci ha mai convinto del tutto, soprattutto dal vivo.
Li ritroviamo invece in forma, divertenti e divertiti, e anche se il recente “Zero And Below” non ci ha fatto gridare al miracolo, vedere il tiro di Kirk Windstein sul palco è sempre un’esperienza, soprattutto quando vengono eseguiti live mattoni come “Negative Pollution” o “High Rate Extinction”. (Denis Bonetti)
Percorriamo il percorso che collega l’area principale e un paio di tunnel interni alla fortezza per sbucare nella corte interna che accoglie l’Octagon Stage, dove gli HEAVING EARTH hanno appena premuto ‘play’ per le campionature che fanno da intro al live.
La band di Praga vede Giulio Galati (Nero Di Marte) come turnista alla batteria e propone un death metal moderno con grandi dosi di tecnicismi. A quest’ora del pomeriggio il bastione riesce a contenere il giusto numero di astanti, rendendo vivibile il viavai di fan che riescono a raggiungere le prime file senza particolari difficoltà. Nel giro di mezz’ora, il quintetto ammutolisce i presenti con una prova tecnica perfetta, sparando cartucce al massimo delle possibilità fisiche, dalla voce, agli assoli di chitarra; e Giulio, infine, si riconferma una drum machine dalle sembianze umane. (Vanny Piccoli)
Si avvicina l’ora di cena e sui palchi principali è l’ora del metalcore matto e sregolato dei BEARTOOTH, di cui abbiamo apprezzato il percorso fino a qui – soprattutto l’ultimo “Below” ed i singoli usciti da poco, che proiettano il gruppo in una dimensione ancora più folle con parti acustiche e melodie vocali decisamente più pop.
Dal vivo il quintetto dell’Ohio si scatena come sempre, portando un’iniezione di melodia e spensieratezza notevoli. I nuovi pezzi vengono eseguiti tutti e sono un vero spettacolo, da “Riptide” a “Might Love Myself” passando per “Sunshine!”, e sono il proseguimento perfetto del percorso fatto da “Disgusting” fino a qui.
Tutta la band si dimostra entusiasta di essere sul palco, ma un plauso particolare va al cantante Caleb Shomo, vera forza della natura. (Denis Bonetti)
Un veloce cambio palco, come sempre nell’alternanza dei due stage principali, introduce i sempiterni SODOM di Tom Angelripper, da qualche anno in formazione a quattro con il rientro di Frank Blackfire. Chi scrive non ha gradito molto i cambi di line-up degli ultimi anni e purtroppo, complici suoni non adeguati, troppo bassi e mixati male, l’esibizione dei teutonici non ci ha fatto esaltare nonostante una scaletta piena dei classici che tutti si aspettano. Confidiamo sia stata una giornata storta, band come queste non possono essere giudicate da un solo show. (Denis Bonetti)
Ci sfamiamo velocemente con una fetta di pizza e attraversiamo tutta l’area del festival fino a raggiungere l’Obscure Stage dove stanno per iniziare gli I AM MORBID. Non ci sbilanciamo nel commentare le controversie del progetto e le questioni legate all’attuale formazione dei Morbid Angel, ad ogni modo David Vincent e compagni propongono un set principalmente composto da brani provenienti da “Covenant”, per festeggiare il trentennale del disco.
La loro esibizione è impeccabile e spingono come treni, soprattutto in “Vengeance Is Mine” e “Blood On My Hands”. Molto apprezzato dal pubblico è il break a metà scaletta che vede una battaglia di assoli tra Richie Brown e Bill Hudson, quasi a dare un tocco melodico alla loro esibizione e ad accompagnare il sole che tramonta, prima di ritornare nel classico vortice di mazzate ad alta intensità e chiudere la scaletta con “World Of Shit”. (Vanny Piccoli)
Torniamo all’interno dei tunnel che portano fino all’Octagon per vedere i MORK, ma ci rendiamo conto della quasi impossibilità della cosa: lo spazio di fronte al palco è totalmente riempito di fan, tanto da bloccare le persone lungo i tunnel percorribili.
Riusciamo a raggiungere un punto da cui possiamo allungare la testa e vedere l’esibizione della band norvegese: la formazione capitanata da Thomas Eriksen propone un black metal dalle atmosfere ipnotiche, orecchiabile e particolarmente godibile, nonostante la situazione quasi invivibile per via dell’affluenza all’Octagon. Le leggere aperture al sintetizzatore si incastonano benissimo tra ritmi midtempo e scatti di violenza pura, ottenendo un’ottima presa sul pubblico.
Purtroppo per noi, la nostra posizione rende praticamente impossibile seguire il concerto a causa del continuo andirivieni, che ci obbligherà ad abbandonare l’Octagon a metà scaletta circa. (Vanny Piccoli)
Nel frattempo, mentre ci facciamo strada fino ad uno dei due palchi principali e ottenere una giusta posizione in attesa che i Meshuggah inizino il loro show, ci ritroviamo davanti agli HEAVEN SHALL BURN che mettono in chiaro subito di non essere giunti per caso fino a Jaromer.
La band tedesca è ormai in tour quasi costante da diversi anni e “Of Truth And Sacrifice”, ne ha quasi quattro sulla carta d’identità.
Non intravediamo però stanchezza nei nostri, che aprono con una “Endzeit” carica di una forza portentosa, seguita da altrettanti classici come “Hunters Will Be Hunted”, “Godiva” e “Voice To The Voiceless”.
Anche l’ultimo disco è ben rappresentato, soprattutto come “Ubermacht”. Dalla nostra posizione, sulla collina, lo show è uno spettacolo di potenza e impatto, ma verremo poi a sapere che su un paio di pezzi, per qualche problema non troppo chiaro ai nostri occhi, è il tecnico delle chitarre ad essere sul palco con il gruppo. Straordinari, comunque. Realmente straordinari. (Denis Bonetti)
Ricevuta una mazzata, ne arriva in rapida sequenza una seconda con i MESHUGGAH.
Il quintetto svedese è considerato come il padre fondatore di ciò che nell’ultima decade si è affermato come djent, ma le loro performance vanno ben oltre a ciò che indica questo genere musicale. A tal proposito, in nostri propongono uno spettacolo dalla produzione scenografica studiata con precisione: dalle luci, che ormai da anni sono uno dei vari punti di forza dei loro concerti, alle visual e alla scenografia.
Iniziano con “Broken Cog”, opener dell’ultimo disco “Immutable” e i vari elementi scenici si sommano con le fiammate sparate ai lati e all’estremità superiore della fortezza, creando un’atmosfera infernale quanto irreale. I brani ruotano perfettamente uno dopo l’altro: “Pravus”, “Born In Dissonance” e la combo “In Death – Is Life”/”In Death – Is Death” ci spazzano via completamente.
Il sound è mastodontico e i Meshuggah prendono a legnate le migliaia di persone che si lasciano trascinare dai cambi di groove stortissimi. La chiusura del set vede “Demiurge” collegata con “Future Breed Machine” quasi in modo rocambolesco, ma questa si rivela essere una mossa assolutamente vincente vista la reazione degli astanti.
La quadratissima proposta dei nostri si chiude, come di consueto, alla perfezione e senza nulla da ribattere, ad eccezione fatta per la mancanza di “Bleed” in scaletta, ma soffermarsi su questo fattore non sarebbe assolutamente necessario e risulterebbe inutilmente critico. (Vanny Piccoli)
Dopo una sequenza letale come Heaven Shall Burn e Meshuggah, arriva finalmente un momento di calma con gli HEILUNG che, da un punto di vista strettamente musicale, offrono agli spettatori un grande viaggio, con il loro show particolare e suggestivo, legato moltissimo alla scenografia disposta su tre lati del palco richiamante scenari naturali e antichi.
Ancora più dei Wardruna, gli Heilung offrono musica ambient/rituale completamente slegata dalle strutture rock, ma il pubblico presente non sembra particolarmente intimidito e anzi, il finale di set è un continuo crescendo, con i musicisti che danzano e scendono dal palco per salire sulle transenne ed avere un contatto col pubblico.
Pur essendo lontano miglia dal metal, quello degli Heilung è uno spettacolo molto teatrale e coinvolgente che ci può solo che far piacere venga apprezzato moltissimo dall’audience dei festival come il Brutal Assault. (Denis Bonetti)
Ci dirigiamo, nonostante la stanchezza, per l’ultima volta verso l’Obscure, dove si esibiscono, ormai quasi all’una, i RUSSIAN CIRCLES.
La loro proposta strumentale è relativamente tranquilla per i canoni di quasi tutte le band che si sono esibite finora, ma i suoni messi in campo sono dei macigni devastanti e contribuiscono ad accrescere l’impatto del gruppo.
Molto importanti e suggestive le luci, che mai come in questo caso offrono qualcosa in più all’esibizione. Musicalmente, con il groove che resta un elemento fondante, i nostri si muovono fra post-rock e post-metal in modo molto disinvolto, e coinvolgono il pubblico presente: non ci aspettavamo sicuramente headbanging in una performance tutta strumentale, e invece veniamo smentiti. A nostro parere, tra i migliori della giornata. (Vanny Piccoli)
GIOVEDI’ 10 AGOSTO
Già dalla tarda mattinata si avverte il cambio meteorologico e, diversamente dalle giornate precedenti, il sole estivo splende alto nel cielo e fa aumentare la temperatura.
La prima band che abbiamo modo di vedere, nell’area centrale, sono i thrasher spagnoli CRISIX che ce la mettono proprio tutta per scaldare il pubblico presente e ci riescono benissimo, grazie ad una presenza sul palco decisamente superiore alla media e ad un medley di classici metal che non possono non ottenere risposte dal pubblico. (Denis Bonetti)
Dalle ‘nuove’ leve del thrash alle ‘seconde linee’ del primo movimento, con gli americani EVILDEAD che finalmente sbarcano in Europa dopo diversi rinvii del tour.
La formazione, a differenza di molte altre reunion, porta avanti un cospicuo numero di membri originali, tra cui Juan Garcia degli Agent Steel.
La scaletta riprende buona parte del debutto “Annihilation Of Civilization” e la completa con pezzi più recenti usciti nel discreto “United States Of Anarchy”.
Rispetto ai più giovani Crisix i nostri risentono degli anni e probabilmente anche di una presenza in tour molto più irregolare nell’ultima decade, ma la parte di spettacolo a cui abbiamo assistito è stata soddisfacente. (Denis Bonetti)
Ci spostiamo rapidamente verso l’Obscure dove i redivivi GANG GREEN portano il loro hardcore dalle influenze metal di Boston al pubblico europeo dopo tantissimi anni di assenza.
Vedere la band nel 2023 è più un atto di affetto e di completismo che altro, ma sentire live i pezzi di “Another Wasted Night” ha ancora un suo perché, nonostante le condizioni fisiche del cantante storico Chris Doherty siano a dir poco precarie, visto che si esibisce con metà corpo paralizzato da un ictus di qualche anno fa. Prevedibilmente, dopo qualche pezzo, Chris si fa aiutare, si mette a sedere e le parti vocali vengono gestite da più persone.
E’ una situazione piuttosto commovente e insolita, per chi scrive (e la sedia a rotelle di Jeff Becerra non è un paragone), ma resterà sicuramente un ricordo di questo Brutal Assault. Assistendo al set dei Gang Green siamo costretti a perderci quello dei Death Before Dishonor, hardcore storico stavolta di Boston, ma a differenza dei bostoniani confidiamo in un’altra occasione futura. (Denis Bonetti)
Tornando nella zona dei palchi principali, saliamo sulla collina per riposarci e così vediamo parte dell’esibizione degli inglesi INGESTED, altra deathcore band cresciuta molto nel tempo a livello di pubblico, ma non particolarmente innovativa.
Dopo di loro, tocca ai prezzemolini WOLFHEART di Tuomas Saukkonen, già mente di Before the Dawn, Dawn Of Solace e Black Sun Aeon: abbiamo sempre seguito Tuomas nelle sue avventure musicali ma l’esibizione dei Wolfheart, seppur formalmente inattaccabile, ci è sembrata come sempre piuttosto compendiosa.
Il death metal melodico dei finnici (in cui si sentono moltissimo gli Insomnium) è piacevole ma abbastanza privo di guizzi e, tra l’altro, è meno interessante dei tocchi gothic che avevano i Before The Dawn o le influenze doom dei Black Sun Aeon. Ci dispiace insomma che il nostro stia concentrando le sue energie sulla band che ci è, nel tempo, piaciuta sempre meno. (Denis Bonetti)
Intanto, all’Obscure Stage hanno appena iniziano i canadesi GET THE SHOT, e il loro hardcore mosh che richiama gli Expire fa aprire il pit al primo breakdown.
È uno spettacolo decisamente divertente e apprezzato, tra una cover di “For Whom The Bell Tolls” e continue accelerate che esplodono in vari breakdown. Jean-Philippe Lagacé al microfono è bravissimo a tenere il pubblico, trasmettendo la giusta spinta a muoversi al di là delle transenne e invoca efficacemente il primo wall of death della giornata, prima di concludere la scaletta urlando in crowd surfing. (Vanny Piccoli)
Muovendoci fra i palchi osserviamo con curiosità parte della prova dei britannici MALEVOLENCE: il loro groove metal sempre in tour negli ultimi anni risuona piuttosto bene nella fortezza di Josefov. Riconosciamo loro un gran tiro nell’esecuzione dei brani, ma allo stesso tempo la proposta ci sembra piuttosto standard se non si è realmente coinvolti nella musica della band. (Denis Bonetti)
Gli EYEHATEGOD non hanno certo bisogno di presentazioni e a Jaromer esibiscono tutto il loro repertorio più classico, con la sorpresa di chiamare sul palco Dan Lilker al basso per una canzone.
Questa è la prima apparizione di Lilker che notiamo, e il nostro si aggirerà per il fest facendo altre ospitate sul palco anche con i Cro-Mags e i Napalm Death, prima di esibirsi come bassista session per i Marduk in chiusura dell’ultima serata.
Per il resto, la band di New Orleans offre il suo solito grumoso sludge metal; della band classica rimangono ormai solo Jimmy Bower e Mike Williams, ma è più che sufficiente per garantire che il sound non si snaturi. D’altronde, gli Eyehategod vanno presi per quello che sono: una band stilisticamente ferma da tantissimi anni, sporca sia strumentalmente che spiritualmente, ma sempre efficace nel proporre quasi ormai uno stato d’animo più che uno stile musicale. Coi suoni perfetti del Brutal poi, li abbiamo visti meglio del solito. (Denis Bonetti)
Memori dell’esperienza difficile ai Mork del giorno prima, tentiamo la sorte (già un po’ rassegnati a dir il vero) verso il piccolo palco dell’Octagon per gustarci i finnici CONCRETE WINDS e il loro death/black che ha già stupito diverse platee europee.
Quello che riusciamo a vedere, nella calca, è una band molto giovane ma lanciatissima e furibonda, nonostante anche le condizioni climatiche siano avverse: il sole di una calda metà pomeriggio in piena luce non è certamente amico delle sonorità più oscure. Rimaniamo solamente per alcuni pezzi, apprezzando davvero il loro piglio e ripromettendoci di rivederli al più presto in situazioni migliori. (Denis Bonetti)
Il ritorno dei DISMEMBER dopo quindici anni di pausa è ormai realtà, anche se le date selezionate finora suonate da Estby e soci rendono la loro apparizione ancora un evento, e la quantità di gente presente lo conferma.
Gli elementi classici ci sono tutti: il suono ‘HM2’ per nulla definito, lo stile retrò, la voce sguaiata di Matti Karki – ci accorgiamo ben presto che i presenti non chiedono altro. L’arma migliore degli svedesi non è mai stata la precisione, ma piuttosto un incredibile coinvolgimento esecutivo che mescola il death metal delle origini e qualche svisata death’n’roll, in occasione soprattutto di “Massive Killing Capacity”, qui ripreso con un paio di pezzi in più rispetto ad altre esibizioni di questa reunion.
Abbiamo avuto modo di vederli live un anno fa e siamo rimasti entusiasti nel risentire la furia di “Override Of The Overture”, “Skin Her Alive”, “Dreaming In Red” e “Of Fire”: stavolta abbiamo apprezzato “Life – Another Shape Of Sorrow” e “In Death’s Sleep”. Grandi. (Vanny Piccoli)
Per chi scrive, l’evento reunion dei BIOHAZARD è meno straordinario di quanto sembri, visto che i Biohazard ‘operai’ che hanno continuato a sfornare dischi dignitosi e un capolavoro come “Kill Or Be Killed” dopo l’exploit dei primi tre dischi e, magari per semplice fortuna, siamo pure riusciti a vederli in tour ogni tanto, quindi non abbiamo sentito una grande nostalgia.
Detto questo, sentire una setlist con tutti i pezzi migliori di “Urban Discipline” e “State Of The World Address” non capita tutti i giorni e quindi ne abbiamo approfittato. La forma fisica della band è invidiabile, nonostante gli anni che passano, e lo spettacolo offerto dai newyorkesi è coinvolgente e partecipato. D’altronde, canzoni come “Shades Of Grey”, “Black And White And Red All Over” e “Down For Life” hanno solo bisogno di un pubblico che le canti a squarciagola per rendere al massimo e il Brutal Assault è stato l’ambiente giusto. Molto divertente la cover dei Bad Religion “We’re Only Gonna Die”. (Denis Bonetti)
Dopo i Biohazard, decidiamo di ritirarci sulla collinetta per rifiatare ed è ben presto chiaro come i DYING FETUS abbiano ormai assunto una dimensione di pubblico imponente: vedere così tanta gente sottopalco, all’ora di cena, per una band che non propone di certo sonorità orecchiabili rafforza in noi l’idea che ci troviamo davanti ad un gruppo all’apice della propria carriera.
I suoni li aiutano fin da subito e la loro performance è ai limiti del possibile, dove tutto è tenuto in piedi dal muro sonoro creato dai tre. Lo stage è minimale, senza alcuna scenografia, ma Gallagher, Beasley e Williams spazzano via tutto senza esitazioni, forse anche più che in passato.
C’è spazio ovviamente per dei nuovi brani del disco in uscita in autunno, a fianco dei classici come “In The Trenches”, “Your Treachery Will Die With You” e “Praise The Lord” che creano l’immancabile mosh furibondo. Nella loro semplicità, i tre ringraziano più volte organizzatori e pubblico, che risponde meravigliosamente. Di sicuro uno degli show strutturalmente più semplici, ma sicuramente tra i più riusciti del festival. (Vanny Piccoli)
Al Sea Shepherd Stage notiamo moltissimi fan riunirsi nella zona adiacente al palco mentre accanto si stanno ancora esibendo i Dying Fetus.
Allo scoccare delle ore 21, puntualissimi, i SEPULTURA escono dalle quinte e iniziano con “Isolation”, tratto da “Quadra”, uscito in piena pandemia. L’impressione che abbiamo del quartetto brasiliano è molto positiva, considerando la prova strumentale che risulta impressionante, soprattutto il drumming di Eloy Casagrande, ed il tutto è impreziosito da un sound cristallino e definito, nonostante i volumi decisamente alti.
I nostri puntano molto su una scaletta formata da vari brani recenti – un esempio lo si ha con “Ali”, dedicato a Muhammad Alì da parte di Andreas Kisser, stacco molto apprezzato dai presenti.
Tuttavia la risposta più calorosa e partecipata del pubblico si presenta con i pezzi più storici e classici come “Territory”, “Refuse/Resist” e “Arise”. La chiusura con “Roots Bloody Roots” riesce a far scatenare il delirio nel pit, fino a quel momento molto limitato, a testimonianza del fatto che probabilmente ai fan rimanga un po’ di nostalgia per i primi album e per la formazione originale, nonostante l’ottima esecuzione in sede live. (Vanny Piccoli)
Tra una pausa e l’altra facciamo una capatina al quinto palco del fest, il Kal Stage, dove si esibiscono gli artisti elettronici e ambient e dove purtroppo non saremo (per le solite coincidenze di orari) con Of The Wand And The Moon, progetto folk/acustico di Kim Larsen, un tempo anche chitarra dei Saturnus.
Ci fermiamo per seguire parte del set di SVARTSINN, progetto dark ambient norvegese piuttosto noto: molte delle persone che si fermano nel capannone del Kal Stage lo fanno primariamente per sedersi sui divani e stare al fresco, ma un piccolo manipolo di appassionati c’è sempre. Da parte nostra apprezziamo la mise en abyme tipica dell’elettronica e dell’ambient, con le proiezioni visive ad accompagnare i campionamenti e i loop. Il suono di Svartsinn è impietoso, funereo, statico e privo di ogni speranza ed accoppiato alle disturbanti proiezioni ci mostra un lato sicuramente interessante della musica estrema. (Denis Bonetti)
Gli ultimi due slot maggiori di questo secondo giorno sono riservati ad IN FLAMES e Watain.
L’ultimo disco della creatura di Friden e Gelotte, “Foregone”, ha suscitato un certo interesse mediatico nel suo voler riportare indietro le lancette dell’orologio al periodo Stromblad e la prova dal vivo era da noi parecchio attesa. Quello che abbiamo visto è uno show ordinario degli svedesi, con una scaletta che non torna sicuramente più indietro del solito, ovvero da “Reroute To Remain” in poi, più le due solite sopravvissute “Behind Space” e “Only For The Weak”.
Ci aspettavamo una scaletta un po’ più retrò? Stavolta sì, magari trainata dai suoni del nuovo disco. Per il resto, i pregi e i difetti degli In Flames che abbiamo visto al Brutal restano sempre quelli degli ultimi quindici anni: da un lato la capacità limitata e fin troppo signorile di Friden di tenere il palco, dall’altro la precisione strumentale data da musicisti di spessore come Gelotte o Chris Broderick; al centro, le scelte stilistiche degli ultimi quindici anni che parte del pubblico non è mai riuscita a mandare giù. (Denis Bonetti)
Ci ritagliamo il tempo necessario per evitare di rimanere incastrati nei tunnel che portano all’Octagon e arrivare nel piccolo bastione con le tempistiche giuste per ottenere un posto dove riuscire a vedere ed ascoltare senza difficoltà i quebecchesi SPECTRAL WOUND.
Ci accorgiamo che, nel giro di cinque minuti, bastione e tunnel adiacenti si sono colmati di persone rendendo impossibile muoversi dal proprio angoletto e ci scappa un fortunato sorriso mentre la band dà il quattro per iniziare lo spettacolo.
Il black metal dei canadesi esprime una crudezza tagliente che fa alzare le mani dei presenti, soprattutto nelle sezioni più spinte e violente. L’acustica non è delle migliori a nostro avviso. Pensiamo che i suoni carichi di riverbero rendano un po’ troppo nebbiosa la proposta dei nostri, tanto da non riuscire a sentire con definizione cosa accade dietro le pelli. Ad ogni modo, l’impressione che abbiamo degli Spectral Wound è diversissima rispetto a quella di quando li avevamo visti sei anni fa: ad oggi dimostrano di aver macinato strada e ore in studio a perfezionare tutti gli aspetti strumentali, rendendo meritatissimo tutto il seguito che stanno ottenendo grazie ai due album pubblicati.
La conferma ce l’abbiamo analizzando la scaletta proposta, suonando “A Diabolic Thirst” in quasi tutta la sua interezza e terminando lo show con “Slaughter Of The Medusa”. (Vanny Piccoli)
Avendo saltato le ultime esibizioni nostrane dei WATAIN, siamo genuinamente curiosi di vedere come potrebbe essere il loro famoso/famigerato set con le fiamme.
L’allestimento di palco è impressionante sin da subito e sarà impossibile non rendersi conto che l’effetto globale della musica di Erik Danielsson passa anche dalle suggestioni visive. Fila di catene uniscono vari pannelli appuntiti, a coprire le casse e a collegare le strutture in ferro, decorate con il loro logo alato. Ovviamente non mancano croci rovesciate e su di ogni elemento le fiamme spuntano a illuminare lo stage. La band è in ottima forma, la scaletta è più che buona e riprende i dischi migliori (“Lawless Darkness” e “Sworn To The Dark”), con Erik completamente calato nella parte del vate oscuro.
Personalmente li preferiremmo con dei suoni un po’ meno primitivi, visto che di black metal svedese si parla – quello denso di sinistre melodie come i Dissection ci hanno insegnato – ma lamentarsi dopo quello che abbiamo visto sarebbe ottuso. Consigliatissimi in queste situazioni all’aperto, dove sanno rendere al meglio. (Denis Bonetti)
Chiude la giornata sui palchi grandi il francese CARPENTER BRUT, ormai lanciatissimo verso una dimensione molto più rock rispetto ai primi tempi degli EP. “Leather Teeth” e “Leather Terror”, con le loro ospitate di celebri cantanti della scena metal e le loro connessioni visuali con l’horror anni ‘80, hanno ovviamente aperto una via nuova in cui synthwave ed elettronica si stanno mescolando sempre di più con l’hard rock.
Il risultato è, dal punto di vista dello spettacolo, una band ancora ibrida, ma sempre più consona alle abitudini del pubblico metal. Frank Hueso stesso poi, si sta ritagliando il proprio spazio anche a livello visuale, e dall’ombra in cui rimaneva in passato ora si muove fra un pezzo e l’altro, aizza il pubblico e interagisce in maniera più classicamente rock.
Per il resto c’è poco da dire, con la cover finale di “Maniac” che mette d’accordo tutta la spianata e la nostra felicità nel vedere che i confini fra i generi esistono solo nella mente delle persone. Grazie ad artisti come Carpenter Brut magari pian piano spariranno pure da lì. (Vanny Piccoli)
E’ quasi l’una di notte e corriamo verso l’Obscure Stage dall’altra parte del festival per assistere all’esibizione dei MIDNIGHT.
Il trio di Cleveland richiama moltissimi fan che riempiono tutta l’area del palco fino ad arrivare al primo chiosco vicino, posto quasi all’altezza dell’area merch.
Anthenar e soci infilano brani taglienti uno dietro l’altro in un flusso continuo che richiama lo speed metal dai contorni black, in stile Venom, ma suonato con grande attitudine punk.
Il pubblico risponde benissimo alla scaletta dei nostri tra “All Hail Hell”, “Black Rock’n’Roll”, “Satanic Royalty” e “Evil Like A Knife”; ciò che viene apprezzato maggiormente è il tocco di genio del trio per tenere il palco perfettamente e tenere viva l’attenzione, senza mai fermarsi. “Unholy And Rotten” chiude la scaletta e vede i tre che saltano da una parte all’altra dello stage, arrivando anche a ridosso delle transenne e caricando maggiormente i ragazzi nelle primissime file. Possiamo sbilanciarci nel dire che i Midnight si rivelano come la band giusta al momento giusto, per questa seconda giornata di Brutal Assault. (Vanny Piccoli)
Decidiamo di rimanere per gli austriaci ELLENDE e il loro post-black metal. L’atmosfera è decisamente ideale, con il buio e l’umidità della notte: siamo oltre l’una e l’Obscure, anche se non affollatissimo, risponde nella maniera migliore alle sonorità malinconiche dei nostri.
Gli Ellende, insieme ad altri epigoni della scena post-/black, portano avanti uno stile che è ormai in giro da parecchi anni grazie primariamente ad Harakiri For The Sky e Mgla, ma visto il successo che stanno riscuotendo, sembra che il pubblico non sia ancora sazio.
Da parte loro, se pure manca una originalità di fondo, è apprezzabile un songwriting molto curato che anche dal vivo ha fatto la differenza, insieme all’interpretazione vocale sofferta di Lukas Gosch, leader da sempre. Riconosciamo alcuni estratti dal recente “Ellenbogengesellschaft” e altri brani più datati e poi, stanchi ma soddisfatti, decidiamo di ritirarci, visto che ci aspettano altri due giorni musicalmente molto densi. (Denis Bonetti)
VENERDI’ 11 AGOSTO
Il nostro venerdì al Brutal Assault inizia in tarda mattinata con il mathcore dei THE CALLOUS DAOBOYS. La band di Atlanta intrattiene gli spettatori dei main stage con una proposta decisamente pazza a cavallo tra The Dillinger Escape Plan e War From A Harlots Mouth, incastrando breakdown, ripartenze sincopate e pause di tastiere nel giro di una mezz’ora scarsa. (Vanny Piccoli)
Il tempo atmosferico sembra farci dimenticare i temporali dei primi giorni e ci regala un’ottima temperatura estiva, che rende godibile e apprezzabile la strana proposta degli americani, i quali ringraziano calorosamente l’organizzazione e tutti i presenti, prima di lasciare spazio ai DEMONICAL.
La carriera dei Demonical ha sempre dipeso dall’attività dei Centinex, l’altra band di Martin Schulman. In questo momento, dopo che il ritorno dei secondi non ha portato chissà quali frutti, probabilmente Schulman ha deciso di tenere in piedi entrambe le realtà, visto che i Demonical, con i loro primi tre dischi, hanno avuto effettivamente qualcosa da dire nello swedish death metal. Quello che vediamo è una band con una formazione nuovamente rimaneggiata, debitrice pesantemente del suono nordico, ma che non si fa grossi problemi ad infilare le cover degli Entombed in scaletta. Riconosciamo anche diversi estratti dall’ultimo album “Mass Destroyer” e sopportiamo purtroppo i problemi ad una delle due chitarre per tutto il set. (Denis Bonetti)
Ci spostiamo di poco per vedere i soliti, demenziali e simpaticissimi thrasher austriaci INSANITY ALERT, che sfoderano tutti i loro soliti gimmick da palco tra cartelli, barzellette e battute politicamente non corrette. Musicalmente restano alfieri del più incontaminato thrashcore vecchio stampo, e in mancanza di un ciclone come erano i Municipal Waste degli inizi ce li facciano andare più che bene. (Denis Bonetti)
Ci spostiamo poi verso l’Obscure, per verificare una nostra intuizione riguardo una possibile sorpresa: parliamo delle KONVENT, all-female band danese dedita al doom metal.
Ci accorgiamo subito che ci avevamo visto giusto,e quanto è contenuto nei due album “Puritan Masochism” e “Call Down The Sun” (usciti un po’ in sordina per Napalm Records) è confermato da una bellissima tenuta di palco, dal growl profondo della cantante Rikke Emilie List e da una esecuzione molto interessante in un orario e una situazione comunque non ideali per il doom metal.
Assolutamente promosse, da segnalare come una delle sorprese del festival, per quel che ci riguarda. Ora è tempo di ascoltare per bene i due album, in attesa di un ritorno e magari di una notorietà maggiore sicuramente meritata. (Vanny Piccoli)
Mentre alcuni di noi rimangono per i SACRAMENTUM, altri si spostano verso i palchi principali: per quanto riguarda la formazione svedese, è la seconda volta in pochi mesi che abbiamo l’occasione di vederli dal vivo e in quel di Jaromer li abbiamo visti e sentiti decisamente meglio che in passato.
E’ chiaramente una band che sta riprendendo in mano il capitolo concerti e, a parte il leader Nisse Karlén e il suo show con la coppa con il sangue finto, non hanno molto da offrire a livello visivo; musicalmente ripropongono un disco quasi perfetto del black metal svedese dei tempi che furono, e quindi basta relativamente poco per riuscire nell’intento.
Se i Watain del giorno prima attualizzano un certo suono, i Sacramentum ci riportano alla mente da dove tutto è partito, garantendoci un bel viaggio nei ricordi. Speriamo che questa reunion porti frutti più importanti di un semplice tuffo nel passato: da fan ce lo auguriamo proprio. (Denis Bonetti)
Il tempo di finire un panino per pranzo e ci rechiamo al Sea Shepherd Stage, dove i canadesi ARCHSPIRE sono prossimi ad iniziare il proprio concerto.
Dean Lamb e compagni ci regalano uno spettacolo technical death metal estremamente divertente, colorato da continue battute tra un pezzo e l’altro. L’apice dell’ilarità avviene quando Oli Peters, alla voce, lancia un tappeto dai cerchi colorati del Twister tra il pubblico e fa giocare i presenti, prima di farli schiacciare con un wall of death. Comunque la scaletta dall’asticella tecnica altissima presenta il giusto equilibrio di pezzi da “Bleed The Future” e da “Relentless Mutation”, portando a casa un’esibizione perfetta. (Denis Bonetti)
Terminato lo show dei canadesi ci spostiamo verso il palco accanto in attesa dei KRISIUN.
Il power trio brasiliano dei fratelli Kolesne ha quaranta minuti di tempo a disposizione e lo sfrutta tutto con una scaletta ad hoc. Suonano al meglio un bel death metal classico, drittissimo e senza pause, inoltre è rimarcabile il mix di suoni e volumi perfetti che rendono benissimo la loro ottima performance. Tuttavia, durante una pausa a metà scaletta circa, Alex Camargo se la prende al microfono con il batterista dei Knocked Loose, prossimi ad esibirsi nel palco limitrofo.
Kevin ‘Pacsun’ Kaine, batterista in questione, è alle prese con il proprio soundcheck, cosa normalissima a questo festival: mentre si esibisce una band in uno dei due palchi principali, sul palco vicino, la band successiva completa il proprio soundcheck, salvo particolari casi. Quindi Camargo gli ha riferito un paio di battute di cattivo gusto, che sono risultate eccessive e totalmente evitabili.
A parte questa caduta di stile e mancanza di rispetto, lo show va alla grande con “Combustion Inferno”, “Apocalyptic Victory” e una ruspante cover di “Ace Of Spades”. (Vanny Piccoli)
Il tempo di farci largo tra la folla e raggiungere il palco più vicino ed iniziano i sopra citati KNOCKED LOOSE. I ragazzi del Kentucky letteralmente spazzano via tutto, nonostante l’inutile cazziata appena ricevuta. Il suono e i volumi sono solidissimi e imponenti, inoltre il pubblico risponde alla perfezione, facendosi malissimo dal primo breakdown fino all’ultima nota.
Il loro hardcore metallico quadratissimo a tratti beatdown suona come delle pietre in faccia e vince il singalong generale, soprattutto su “All My Friends” e “Mistakes Like Fractures”. Sarà il loro stile un po’ cafone e il genere che suonano, ma senza dire una parola fuori posto il quintetto statunitense ha un impatto devastante, sia dal lato musicale che come tenuta del pubblico e, a questo punto, possiamo dire che Alex Camargo avrebbe dovuto tenere la bocca ben chiusa e tenere le proprie opinioni per se stesso. La scaletta termina quindi con il brano perfetto, “Everything Is Quiet Now”. (Vanny Piccoli)
Ci godiamo le ultime picconate prima di spostarci nuovamente al Marshall Stage, in attesa dei NILE. Questo pomeriggio soleggiato mantiene un’alta temperatura estiva e il sole, ora posizionato sopra il tetto del palco, acceca e brucia gli astanti, come se – coincidenza! – ci trovassimo nel caldo Egitto.
Il quartetto di Sanders e Kollias conferma le proprie qualità tecniche suonando alla perfezione una giusta combinazione di pezzi in scaletta, e tra accelerazioni verticali e rallentamenti quasi meditativi, confeziona un’esibizione molto ben riuscita e d’impatto, anche se caratterizzata da volumi abbastanza contenuti.
La opener “Sacrifice Unto Sebek”, “In The Name Of Amun” e “Black Seeds Of Vengeance” sono i brani che ottengono una maggior risposta da parte degli astanti. (Vanny Piccoli)
Mentre sui palchi principali martellano Krisiun e Nile, chi di noi è rimasto all’Obscure ha la possibilità di vedere una band piuttosto chiacchierata come gli LLNN il loro post-metal denso di riferimenti a Neurosis e Meshuggah, il tutto condito da una attitudine industriale.
E’ musica che non mette mai a proprio agio, quella dei danesi, ma è piuttosto affascinante vederli esibirsi. Siamo arrivati conoscendo alcuni pezzi della band e torniamo con la voglia di recuperare i due album finora editi dalla Pelagic Records. (Denis Bonetti)
Dopo di loro tocca ad altri danesi, i SATURNUS, che con i loro tempi (più di dieci anni!) sono tornati in pista con un nuovo album di buona fattura.
Dopo qualche minuto si avverte la magia: nonostante il caldo e il genere non propriamente da festival open air, il suono dei nostri si fa coinvolgente e veniamo idealmente trasportati in luoghi differenti.
Il minimalismo e la simpatia del cantante Thomas Jensen sono perfetti per questo viaggio e ci ritroviamo davvero ad apprezzare la tristezza, il dolore e la malinconia che emergono da brani come “Christ Goodbye” e “I Long”, ripresi dal passato, e dalle due nuove “Breathe New Life” e “The Storm Within”.
La proposta dei danesi è doom di scuola Peaceville condito di tastiere, lontano dalle esagerazioni del funeral e del drone: potrebbe essere uno stile ormai datato ma per chi scrive è stato uno dei momenti malinconici più densi dell’intero festival.
Speriamo davvero di non dover aspettare altri dieci anni per un nuovo disco. (Denis Bonetti)
Le prime avventure presso il piccolo Octagon non sono state per niente piacevoli, ma la curiosità di vedere dal vivo i MIASMATIC NECROSIS è troppa e decidiamo di provarci lo stesso. Per chissà quale coincidenza di esibizioni sui palchi riusciamo a guadagnarci un posto nelle prime file, e ci vuole molto poco per capire di essere nel posto giusto.
Abbiamo ascoltato “Apex Profane” fino allo sfinimento negli ultimi anni e il rullo compressore targato Miasmatic si riconferma tale anche dal vivo.
Come per Concrete Winds, il sole cocente picchia sui volti dei nostri americani, che però non se ne curano minimamente e anzi, il cantante Evan Harting ne approfitta per calcare la mano con la sua gimmick da psicopatico da palco. Il loro grind-gore monolitico che ci ricorda i migliori Disgorge e Regurgitate ha realmente qualcosa in più per rabbia esecutiva rispetto alle centinaia di band che popolano l’underground, e speriamo quindi in un nuovo disco al più presto. (Denis Bonetti)
Tutti noi abbiamo delle band che amiamo ma che ci perdiamo regolarmente quando passano dalle nostre parti, ed è così che ci dirigiamo verso l’Obscure per vedere finalmente i CRO-MAGS, tornati in mano a Harley Flanagan con una certa continuità.
La touring band è ovviamente differente dalla line-up annunciata nella reunion del 2019, ed infatti la speranza di vedere Rocky George alla chitarra svanisce subito.
La prestazione dei nostri però non è per niente male, se si accetta che stiamo vedendo uno show a trecentosessanta gradi di Flanagan con i suoi aneddoti, a volte un po’ pesantini, fra un pezzo e l’altro.
La scelta dei brani ricade ovviamente su “The Age Of Quarrel” con qualche puntatina un po’ più avanti, ma siamo tutti lì per risentire “We Gotta Know”, “Hard Times” (con il prezzemolino Dan Lilker che salta sul palco) e “Show You No Mercy”: ovviamente, veniamo accontentati. (Denis Bonetti)
Passando davanti alla zona bar in fila per una birra sentiamo che stanno iniziano i KATAKLYSM e ci fermiamo per ascoltare alcuni pezzi.
L’impressione che abbiamo per la band è quella che abbiamo avuto cinque anni fa e in continuità con quello proposto dai dischi: è presente una fortissima componente ‘-core’ nei pezzi, che insistono sui breakdown e con qualche parte dai cori più urlati, anche se, a nostro avviso, l’esecuzione di un singolo più recente come “Bringer Of Vengeance”, a confronto con la vecchia “In Shadows & Dust”, purtroppo vede molte più braccia alzate sul classico piuttosto che sul brano più recente.
Ad ogni modo i Kataklysm dimostrano di credere molto nella loro proposta: per noi rimane un po’ di nostalgia per un certo tipo di prodotti da studio che riteniamo migliori e soprattutto meglio proposti dal vivo. (Denis Bonetti)
Intanto, dall’altra parte del festival, si sono formate varie zone d’ombra dove la temperatura si è abbassata. Noi arriviamo all’Obscure Stage pronti per l’esibizione dei WIEGEDOOD.
Il trio fiammingo, nascosto da colonnate di fumo, propone una scaletta con brani tratti dall’ultimo album “There’s Always Blood At The End Of The Road”, salvo “Ontzieling” e “De Doden Hebben Het Goed II”, suonata con grande stile. Nel loro black metal si sente moltissimo il marchio di fabbrica del collettivo Church Of Ra di cui fanno parte e ciò impreziosisce la loro proposta. I presenti restano tutti immobili e muti per tutto lo spettacolo per poi, al termine, esplodere in un lungo applauso di apprezzamento. (Vanny Piccoli)
All’Octagon è il momento di DŐDSRIT e LAMP OF MURMUUR, due realtà black metal in veloce ascesa, così decidiamo di prepararci per tempo ed accamparci per un po’ per evitare brutte sorprese.
L’esibizione dei Dődsrit è fulminante in tutti i sensi: avevamo apprezzato le prove in studio dei giovani svedesi, ma non pensavano ad un risultato così cristallino sul palco. Il loro black metal, venato di hardcore e crust è eseguito perfettamente con una compattezza esecutiva non comune. Le voci di Christoffer in particolare, in perenne bilanciamento fra urlo puro e scream black metal, sono penetranti ed emozionanti e guidano uno spettacolo fin troppo breve.
Riconosciamo i pezzi migliori degli ultimo “Mortal Coil” come “Third Door” e “Shallow Grave” e ci auguriamo che i nostri possano tornare in pista con nuova musica e nuovi tour.
Dopo di loro, i Lamp Of Murmuur prendono posto sul palco con il loro trucco che fa intravedere come vogliano muoversi in territori più particolari del ‘solito’ black metal. Anche musicalmente in questi anni la loro visione di questo genere ha dimostrato una certa ricerca sonora, e in quel di Jaromer gli estratti dall’ultimo “Saturnian Bloodstorm” vengono alternati a brani più datati, per un risultato sicuramente interessante. (Denis Bonetti)
Compriamo del cibo per cenare e camminiamo nuovamente verso l’Obscure, dove tocca agli SKINLESS e ci fermiamo per ascoltarne qualche brano. I newyorkesi propongono una scaletta completamente vecchia scuola, tra cui “Tampon Lollipops” e “Crispy Kids”, che risulta ignorante e spaccaossa al punto giusto dove comunque qualche soluzione più tecnica trova il giusto spazio. (Vanny Piccoli)
I pezzi hanno il giusto impatto sul pubblico che sembra essere parecchio divertito dai nostri e probabilmente si rivelano essere un giusto riscaldamento prima degli OBITUARY, prossimi a salire sul palco principale. I primi headliner della terza giornata di questa edizione del Brutal Assault salgono sul palco puntuali e aprono le danze con “Redneck Stomp”.
Il quintetto della Florida dimostra di essere in grande forma: la prima metà della scaletta vede brani dell’ultimo “Dying Of Everything”, da “Inked In Blood” e dal self-titled. Seguono poi dei classici come “Find The Arise”, “Chopped In Half” e “Turned Inside Out”. John Tardy scherza divertito con i propri compagni di band sghignazzando, interagendo invece con il pubblico solamente in un paio di occasioni.
La loro esibizione vola via con estrema facilità che quasi non ce ne rendiamo conto. I nostri ci concedono un paio di brani come bis e chiudono con “Slowly We Rot”, lasciando una folla soddisfatta con le corna al cielo. (Vanny Piccoli)
Dopo l’esibizione apprezzatissima di Carpenter Brut, il compito di PERTURBATOR non è molto semplice per un ascoltatore ‘casual’ di sonorità elettroniche e la prima impressione evidenzia come l’approccio di James Kent sia ancora legato molto agli stilemi della musica elettronica.
Se escludiamo il singolo dell’ultimo “Lustful Sacraments”, la sua produzione è tuttora completamente strumentale e anche se è accompagnato da un batterista in sede live, quello a cui assistiamo è un set di elettronica pura ben poco rock, a differenza del piglio più sfacciato di Carpenter Brut.
Bellissimo l’allestimento di luci colorate al neon che cambia ad ogni pezzo disegnando e ridisegnando il logo del nostro, e interessante pure la scaletta che si muove fra diversi dischi, ma col passare del tempo notiamo come non tutti, attorno a noi, riescano ad entrare nella proposta del nostro. Piacevole sì, coinvolgente non del tutto. (Denis Bonetti)
E’ ormai tardi, oltre la mezzanotte, ma il clima più mite della giornata ci ha riservato un po’ di energie residue e ci dirigiamo quindi all’Obscure per i BELL WITCH.
Il duo americano è forse il nome più ‘caldo’ (si fa per dire) del funeral doom di questi anni e con dischi come “Mirror Reaper” e l’ultimo “Clandestine Gate” è riuscito ad imporsi all’attenzione del pubblico.
Certo, resta musica difficile da seguire ed apprezzare veramente e in sede live il duo propone uno spettacolo particolare: uno di fronte l’altro, basso e batteria alternano anche le parti vocali recitate e in growl e il batterista Jessie si occupa anche dell’organo. L’allestimento è notevole, con la batteria rivolta di lato e microfonata in modo inusuale per ottenere suoni viscerali in tandem col basso distorto di Dylan.
Il set è l’esecuzione del pezzo unico dell’ultimo disco, “Clandestine Gate” e i radi colpi di batteria e le note di basso si alternano nella notte con un effetto scenografico molto particolare, aiutato dai giochi di luce che, come nel caso dei Russian Circles, offrono davvero un elemento in più.
Concedetecelo: assistere ad un set dei Bell Witch non è da tutti, in quanto gruppi funeral ‘più canonici’ come gli Skepticism a confronto risultano una sorta di ‘passeggiata musicale’ – e con questo paragone abbiamo detto tutto.
Certamente, se si entra nel mood giusto e si abbracciano le sperimentazioni sonore del duo, l’esperienza è garantita. Il grande applauso finale dei presenti, una sorta di standing ovation, lo conferma. (Denis Bonetti)
SABATO 12 AGOSTO
Non nascondiamo di avere accumulato una certa stanchezza in questi giorni e quindi la nostra giornata conclusiva parte appena dopo lo scoccare del mezzogiorno, con l’esibizione degli ITHACA, metalcore band dai risvolti post- e nu-.
Guidati dalla carismatica cantante Djamila Boden Azzouz che si occupa sia delle voci pulite che dello scream, i nostri si esibiscono in un breve ma intenso set che non sembra essere apprezzato proprio da tutti, un po’ per la proposta particolare, un po’ perché il gruppo non è stato in grado, a nostro modo di vedere, di replicare le finezze stilistiche dei lavori da studio.
E’ difficile giudicare una band da una sola esibizione live di questo tipo, ma qualcosa non ha funzionato completamente per gli Ithaca. Speriamo di poterli risentire in un contesto un po’ più intimo magari. (Denis Bonetti)
I GATECREEPER negli anni sono cresciuti molto con il loro death metal old-school e ormai possiamo dire che il gruppo americano merita tutto il supporto che il pubblico può dargli.
Il caldo infatti non ferma moltissimi fan che accorrono sotto al palco, e loro rispondono con una esibizione notevolissima e con una scaletta con gli estratti migliori dai due album e dal più recente EP “An Unexpected Reality”.
Come in passato, il loro death metal sguaiato pieno di riferimenti al passato si avvale anche di una buonissima interazione col pubblico (avranno lanciato dozzine di plettri verso le prime file), ma è soprattutto la qualità dei brani a farli crescere costantemente. Tra i migliori, nel loro genere, visti qui al Brutal Assault. (Vanny Piccoli)
Al termine dell’esibizione dei Gatecreeper, passeggiamo per l’area merch del festival per poi allungarci all’Obscure Stage per ascoltare qualche canzone degli HYPNOS.
Il running order è stato modificato a causa dell’annullamento dei Mantar, assenti a causa di problemi di salute, quindi il quartetto dalla Cechia si è visto spostare su questo palco, più grande rispetto all’Octagon e soprattutto, attorno all’ora di pranzo.
Comunque, i nostri sono attivi da più di vent’anni (in quanto costola dei Krabathor) e propongono un death metal vecchio stampo, con uno stile vagamente riconducibile ai Morbid Angel, ma rendendolo proprio grazie all’aggiunta di sporadiche vene melodiche. La formazione è ben nota qui e ottiene una buonissima risposta dai presenti, che si aggirano intorno alle duecento unità. (Vanny Piccoli)
Sotto il sole cocente del primo pomeriggio tocca ai finlandesi OMNIUM GATHERUM tentare di coinvolgere il pubblico e, come sempre Markus Vanhala e Jukka Pelkonen con la loro semplicità e buon umore ci riescono in breve tempo.
Il melo-death degli Omnium Gatherum non è mai cambiato più di tanto nel tempo e, da bravi operai, loro insistono a proporlo alle platee di tutto il mondo. La scaletta, visti i limiti di tempo, è più ruffiana del solito, con le immancabili “The Unknowing”, la recente cover di “Maniac” (ancora una volta, il classico di Michael Sambello) e “Paragon” dal recente “Origin”. (Denis Bonetti)
Sorrisi, simpatia e mestiere li rendono, a nostro avviso, sempre piacevoli, anche se la cover di “Maniac” in growl è oggettivamente bruttina.
Rimaniamo all’ombra per un po’ e vediamo parte dello show dei redivivi DOWNSET. che sembrano realmente risputati dalla fine degli anni ‘90 con il loro rap-metal. La formazione con cui si presentano è più che dignitosa, con tre membri presenti sugli storici “Downset” e “Do We Speak A Dead Language?”.
Molte delle band di quel periodo non mollano del tutto e negli anni abbiamo potuto vedere (Hed)Pe, Stuck Mojo e altri ancora, non sempre con buoni ricordi da parte nostra, vista la differenza fra le prove in studio e la realtà sul palco, con il cantato rap che dal vivo non si amalgama al meglio alle strutture più metal. Nel caso dei Downset invece l’impressione è stata discreta, considerando anche che l’unico memorabile singolo dei losangelini è stato “Anger” e ci è parso abbia avuto un buona resa. (Denis Bonetti)
Definire gli ANAAL NATHRAKH, un gruppo ‘nuovo’ è sbagliato, contando i quasi venticinque anni di carriera alle spalle. L’aggettivo migliore, almeno fino a qualche tempo fa, sarebbe stato ‘innovativo’.
Comunque sia, erano diversi anni che non li vedevamo e l’impressione globale è quella di una band ormai conscia dei propri mezzi, con una dimensione live definita ma anche con meno sfumature che al tempo hanno reso il progetto così particolare.
La loro miscela di black metal e grindcore ha perso nel tempo a nostro modo di vedere l’elemento industrial, hanno acquisito una certa melodia e, lo diciamo chiaramente, non abbiamo gradito del tutto l’utilizzo delle voci pulite di Dave Hunt.
Questa linea artistica ha creato, dal vivo, una band piacevole, ma incapace di colpire a fondo e replicare la rabbia, l’oscurità e il disagio dei primi album. (Denis Bonetti)
La calura del sabato si fa proprio sentire ed è il camion dei pompieri, innaffiando la folla, a portare refrigerio. Appena tutti si sono bagnati adeguatamente, è il momento dello show dei TERROR, molto attesi anche dagli addetti ai lavori, con i lati del palco letteralmente gremiti.
Nonostante il caldo, il loro show è un continuo crowdsurfing e mosh, mentre i cinque, guidati come sempre da Scott Vogel, sparano una bordata old-school dopo l’altra.
La modalità ‘grandi classici’ è perfetta per la situazione e le hit dai nostri preferiti “Keepers Of The Faith” e “One With The Underdogs” si sprecano.
I ritornelli vengono cantati da moltissime persone, il mosh viene aizzato continuamente e si crea un’atmosfera veramente piacevole. Tra il pubblico vediamo solo grandi sorrisi euforici dovuti dall’aria di grande festa e divertimento ma soprattutto anche dalla performance del quintetto americano, capace di instaurare un grande scambio di energia che porta ad un’ottima intesa e complicità con tutti noi presenti.
Ancora una volta non possiamo che riconoscere agli organizzatori del fest che la scelta di includere molte leggende dell’hardcore è stata più che azzeccata. (Vanny Piccoli)
É l’orario dell’aperitivo ma noi proseguiamo al Marshall Stage per la performance dei DEICIDE: il quartetto di Tampa, tra i paladini del death metal made in Florida, propone un set con “Legion” in tutta la sua interezza e ordine dei brani, suonando con precisione chirurgica.
I nostri sono lanciatissimi e i presenti seguono Glen Benton ad ogni ritornello. Dopo otto brani, la formazione inserisce varie cartucce miste, passando dal self-titled di debutto a “The Stench Of Redemption”, infatti ci regalano varie perle, tra cui “Once Upon The Cross”, “Dead By Dawn” e “Homage For Satan” per chiudere la scaletta. Per noi e per il resto dei presenti interessati a questo slot del palco principale, non resta molto da dire se non una grande voglia collettiva di assistere nuovamente ad un set di Benton e soci. La particolarità di questa esibizione rende lo spettacolo dei Deicide uno tra i più apprezzati e memorabili di questo Brutal Assault. (Vanny Piccoli)
Contemporaneamente, dall’altra parte del fest all’Octagon, sono i BIRDS IN ROW a tenere in scacco il pubblico con il loro post-hardcore emotivo e rabbioso.
La band francese, quasi costantemente in tour, ha ormai proprio ruolo consolidato nel panorama delle sonorità moderne e capiamo benissimo come mai. L’ultimo “Gris Klein” ha ottenuto responsi entusiasti un po’ dovunque, e il grosso dei pezzi che riconosciamo proviene proprio da qui.
Rispetto alla versione studio, i Birds In Row sono più grezzi, istintivi ed arrabbiati. Sguardo spesso a terra, i capelli costantemente sugli occhi, i nostri sfoggiano un’attitudine punk intaccabile per tutto il loro show. Bravissimi, come sempre. (Denis Bonetti)
Rimaniamo in zona per goderci i PROFETUS, funeral doom band finlandese non semplice da vedere live. Avere poco più di tre quarti d’ora per una band come loro significa suonare tre/quattro pezzi al massimo, ma i nostri sembrano a loro agio e ci scherzano su, decretando a metà set, fra i sorrisi dei presenti, “questo è l’ultimo pezzo”.
Un po’ più morbidi della versione su disco, i cinque hanno intrattenuto bene i non tantissimi presenti in zona Octagon in cui finalmente si respira un po’, a dimostrare che la giornata della stanchezza forse è giunta un po’ per tutti. (Denis Bonetti)
I primi headliner dell’ultima giornata sono i TRIVIUM: la formazione è quasi al termine del tour mondiale che da due anni li porta sui palchi di tutto il globo.
La folla si riunisce lentamente di fronte al palco mentre i primi pezzi vengono suonati con pulizia maniacale.
La sensazione principale che abbiamo per Matt Heafy e soci è coerente con le ultime uscite: puntano e credono moltissimo sui brani più recenti e di tendenza più commerciale, per quanto possa valere questo termine, restando comunque all’interno dei canoni dei metalcore.
L’unica presenza dei ‘vecchi’ Trivium sembra comparire durante “Becoming The Dragon”, che infatti risulta essere il brano più datato della scaletta e quello con più efficacia.
Per il resto, il set ruota tra ritornelli puliti, orecchiabili e vari tentativi (più o meno imbarazzanti) di intrattenere il pubblico durante le pause.
Il quartetto americano porta a casa lo show in modo dignitoso ma nel pubblico i pareri sono molto discordanti, tra chi li ha apprezzati molto e chi non riesce proprio ad farsi piacere la proposta complessiva. In noi rimane solo il desiderio non esaudito di ascoltare più brani di “Ascendancy” e “The Crusade”. (Vanny Piccoli)
Con gli HYPOCRISY inizia il conto alla rovescia delle grandi band dell’ultima giornata e ci avviciniamo per verificare il loro stato di forma.
Il loro death metal svedese melodico è ormai un trademark sonoro ed è riconoscibilissimo in pochi secondi: ci viene da pensare, mentre sentiamo classici come “Don’t Judge Me”, “Fractured Millennium” o “Children Of The Grey”, quante band possono dire di aver fatto altrettanto.
Sorretti da suoni adeguatissimi, ci sono sembrati in forma anche se Peter giustamente mostra sul volto gli anni che passano. I synth ci sono sembrati più alti nel mix ed hanno aiutato a creare l’atmosfera giusta, capace di valorizzare i tipici midtempo costruiti sul modello di “Roswell 47”, mentre in evidenza, ci è sembrato di più rispetto al passato, il suono di Mikael Hedlund.
Forti di una scaletta molto bilanciata fra presente e passato, Peter e soci portano a casa un risultato incontestabilmente positivo. (Denis Bonetti)
Era qualche anno che non incrociavamo i CULT OF LUNA. Ce li ricordavamo diversi anni fa in un locale italiano gremito insieme agli onnipresenti The Ocean e li ritroviamo qui, nuovamente (grazie al cielo!) con l’atmosfera notturna più adeguata per apprezzarli. È passato quindi molto tempo dall’ultima volta che li abbiamo visti e ci godiamo l’esibizione della band svedese che, ci vien da riflettere, di strada ne ha percorsa molta dallo sludge/post relativamente semplice da assimilare di un disco enorme come “Salvation”.
I Cult Of Luna di oggi sono più complessi negli arrangiamenti, più delicati nell’approccio, ma hanno scelto di mantenere però le linee vocali sempre sporche come in passato: un elemento che, a nostro parere, fa perdere loro parte delle possibilità espressive della loro musica.
La band, al netto di problemi di impianto che fa interrompere lo show in un paio di occasioni, sembra a proprio agio e si concentra nell’esecuzione per la maggior parte di estratti dagli ultimi due “A Dawn To Fear” e “The Long Road North”.
La musica dei Cult Of Luna non ha mai vissuto di singoli, ed è necessaria una certa pazienza per farsi coinvolgere, ma ci pare che riescano a dire la loro anche in una dimensione di festival come il Brutal Assault. (Denis Bonetti)
L’ultima band per noi a chiudere questa edizione del Brutal Assault sono i MARDUK.: il quartetto svedese suona con violenza come se stesse combattendo una battaglia, riverberando l’attitudine in un sound generale tagliente come un rasoio.
La scaletta proposta punta tutto sull’estrema velocità annichilendo tutti gli astanti, senza mai rallentare: inarrestabili, danno legnate continue tra “Blood Of The Funeral”, “Werwolf” e “Throne Of Rats”.
L’unico episodio di apertura melodica nel loro black metal drittissimo viene concesso al termine della scaletta con “Wolves”, prima di abbandonare il palco.
I presenti reagiscono estremamente bene e urlano il classico “one more song”. I nostri concedono l’ultima “Panzer Division Marduk”, ricevendo un ottima risposta dai fan, anche se li porta a sforare di circa quindici minuti sul tempo concesso a disposizione.
Ad ogni modo, una chiusura di questo tipo, tutt’altro che noiosa, ci fa tornare a casa stremati dopo cinque giorni di festival ma con un’estrema voglia di tornare l’anno prossimo. Impossibile vedere davvero tutto quello che avremmo voluto, ma possiamo ritenerci più che soddisfatti. (Vanny Piccoli)