6-10/08/2024 - BRUTAL ASSAULT 2024 @ Jaromer - Jaromer (Repubblica Ceca)

Pubblicato il 12/09/2024 da

Probabilmente la domanda “ci vediamo al Brutal Assault?” è una di quelle che abbiamo sentito più volte quando ai vari concerti in cui abbiamo assistito durante l’anno, con le amicizie da concerto instauratesi tra una data e l’altra nel corso del tempo, e infine la fatidica settimana di agosto è arrivata anche nel 2024!
Ventisettesima edizione per quello che è diventato uno dei festival estivi per eccellenza, in Europa, che pur essendo diventato abbastanza centrale in termini di importanza, riesce a starsene coi piedi per terra e confinato, senza strafare, all’interno delle proprie mura, quelle della fortezza Josefov, situata a Jaromer, allegro paesino della Repubblica Ceca che per una settimana all’anno diventa centro di raccolta per metallari da mezzo mondo.
Mura, dicevamo, che permettono a questo festival di restare vivibile giocoforza, in termini di affluenza (lo spazio quello è!), non lasciandosi magari tentare dal salto a festival da folle oceaniche soffocanti, cosa che permette agli organizzatori di concentrarsi sempre di più su bill ed offerte extramusicali.
Anche quest’anno è tutto andato molto bene: dalla gestione dei pagamenti cashless (che qui vanno avanti da quasi dieci anni senza token o importi pilotati), veloci, senza intoppi, tutto gestito da un chip sul braccialetto, con possibilità snella di refund delle cifre non utilizzate (unica commissione, un 2% per ogni ricarica con carta) e che ci ha permesso di utilizzare il braccialetto per pagare qualsiasi cosa all’interno del festival, dalla proposta di cibo e bevande a dischi e magliette.
Abbiamo trovato birra a prezzi estremamente popolari (dalle 65 alle 90 corone, fate voi il cambio!), qualsiasi tipo di cibaria vi venga in mente – dallo sdigiunino con una fetta di pizza a veri e propri pasti completi da mezzo mondo – con un’intera area, anche quest’anno, per le proposte vegetariane e vegane.
C’erano diverse fonti di acqua potabile gratuita disseminate per la fortezza, aree relax, zone d’ombra e poi ancora: bancarelle di dischi e merchandising dove dilapidare i nostri sudati risparmi (con alcune chicche interessanti in termini di potenziali acquisti), un cinema horror, una sala lounge con tanto di musica techno, gare di mangiatori di peperoncini e tanto altro.
Il bello è che il tutto si svolge in uno spazio ampio e ben studiato, non si corre il rischio di incappare in qualcosa che non interessa (chi scrive nella sala techno ci è arrivato all’ultima sera), entrata e uscita sono libere e veloci quante volte si vuole e volendo si può passare il tempo curandosi solo della musica.
E già, la musica; perché se è vero che l’extra non è malaccio, il numero di concerti proposti è stato davvero enorme, con alcune esibizioni imperdibili e almeno un paio di live-capolavoro. La gestione dei concerti ancora una volta si è rivelata ottima, senza problemi di sorta e buon suono generalmente (a parte alcuni intoppi non imputabili all’organizzazione, come vedremo), l’affluenza calmierata (i pass giornalieri erano limitati, proprio per evitare ammassamenti) e forse esagerata solo coi nomi grandissimi (e comunque solo nel main stage, da cui era possibile defilarsi in un attimo) come nel caso dei Behemoth.
Ci sembra sempre un sogno poter tessere lodi così audaci, eppure ogni dettaglio è stato previsto, così come le salvifiche piogge d’acqua fredda sparate dai pompieri durante i caldissimi pomeriggi (a parte due occasioni, infatti, c’è stato sempre un gran sole), o gli spazi all’interno della fortezza, i tendoni per rifocillarsi e anche solo i leggendari vespasiani a fronte palco per fare la pipì senza perdere il concerto, rendono questo uno dei migliori eventi di metal possibili, con il ritmo scandito solamente dalla voglia che si ha di seguire un concerto o un’attività o di starsene sul prato a guardare le nuvole prendere la forma di loghi black metal.
A quanto pare, insomma, è possibile ‘vivere bene’ e a livelli di dignità accettabili anche restando truci metallari! Ed ecco a voi il nostro report-fiume su com’è andato questo Brutal Assault 2024!

MARTEDÌ 6 AGOSTO 

Quando sentiamo i primi vagiti di distorsione che ci accompagneranno per i prossimi quattro giorni, stiamo ancora sistemando il nostro campo base visto che, a dispetto dell’anagrafe, chi scrive ha ben deciso di vivere il festival, ancora una volta, in tenda nel boschetto che fa da corona alle mura della fortezza Josfeov.
E dunque è con una certa calma post-viaggio in auto che ci accingiamo, ormai nel tardo pomeriggio, ad entrare all’interno del festival, ancora al giorno meno uno, festa di warm-up dedicata prevalentemente a gruppi cechi più un headliner.
Il tutto si svolge all’Obscure Stage, un palco che ai tempi del nostro primo Brutal era certamente più piccolo, e che ora, facendo a meno del tendone che lo rendeva, per l’appunto, Obscure, somiglia più al main stage di qualche festival più piccolo che non ad un palco secondario.
Sono i LAID TO WASTE il primo gruppo che vediamo dunque su questo palco, band boema che ci ricorda immediatamente i Sodom, per proposta ignorante, chiodo e circle pit gagliardo di fronte al palco. Scontatissimi e dozzinali – ma hanno anche dei difetti – i Nostri non sembrano interessati ad altro che spaccare timpani e cervelli (ci riescono grazie ad un basso dai volumi criminali) e fanno divertire i presenti con la canzone che ha il nome del gruppo. Simpatici, ma probabilmente se non fossero stati il primo gruppo che abbiamo visto al festival saremmo stati meno positivi.
C’è già un bel numero di persone a godersi questo pre-festival, e quell’adrenalina da primo giorno è ben respirabile tutta attorno a noi, tra bancarelle ancora non posizionate, lavori in corso, camion che passano e birrette che iniziano ad essere spillate senza sosta apparente.
L’adrenalina rimane alta con l’ingresso degli HELLRIPPER, che forti ormai di una certa fama sempre più ‘oltre’ underground ottengono un vero e proprio tripudio all’avvio, con uno dei loro cavalli di battaglia, “All Hail The Goat”, che rompe il ghiaccio senza troppi indugi.
James McBain, t-shirt degli Zeke e l’immancabile Flyng V (che da dove siamo noi sembra un po’ bassa all’inizio), è sempre al comando del carrozzone che gestisce tutto da sé, e la resa live si presenta ancora una volta inossidabile e violenta.
Lo speed metal dello scozzese è molto dritto e brado, molto “Kill’em All” e compagnia sanguinante, impossibile non scapocciare di fronte a riff come quelli di “Nekroslut” o “Goat Vomit Nightmare”, sparati sulla folla con consapevolezza e pervicacia. Il pubblico sembra lì apposta per raccogliere tanta grazia, lasciandosi andare a circle pit praticamente perenni e headbanging forsennato.
L’unico appunto da fare, almeno per chi scrive, è che gli Hellripper, su questo palco da festival all’aperto, perdono un po’ della virulenza mostrata quando visti in un club, e perdendo tale aspetto i brani mostrano un po’ il fianco di una certa ripetitività, ma probabilmente saremo davvero in pochi a voler fare tale appunto. Infatti è un trionfo di mani a salutare la band che, senza più una goccia di sudore in corpo, alla fine di “Headless Angels” saluta tutti e lascia il palco tra gli applausi.

 

MERCOLEDÌ 7 AGOSTO

Ci svegliamo al cospetto di una mattinata calda e assolata, e decidiamo di fare una passeggiata rilassante tra le bancarelle e gli stand gastronomici (che sembrano quadruplicati rispetto a poche ora prima), trovandoci come sempre molto felici di vedere proposte sempre molto ghiotte, si tratti di CD e vestiario o di scelta alimentare, che va dai classici panini, bratwurst, langos, noodles alle molte opzioni vegane e vegetariane (le kofta della Vegan Road saranno fonte infinita di spuntini quotidiani).
Il main stage si sta preparando per accogliere il primo gruppo ufficiale del festival con un soundcheck dai volumi micidiali, e siccome l’ottica del festival non vede classi d’importanza (tolti i nomi eclatanti) nella composizione della scaletta giornaliera, l’onore di aprire le danze spetta ad una band che sta vivendo da un bel po’ un ottimo momento, gli SKELETAL REMAINS, che alle 11.28 in punto si fa introdurre da magmatiche sonorità perfette per aumentare la temperatura del sole, già bello potente su Jaromer.
I suoni sono un po’ stravaganti, almeno per i primi due brani, e le casse sembrano coprire soprattutto la chitarra di Mike De La O, per poi assestarsi più o meno all’altezza di “Beyond Cremation”. A dispetto dell’ora, i californiani si compattano per bene, e con in mano già le prime birrette sul palco, non perdono tempo a incenerire gli astanti, grazie soprattutto ai brani del loro disco più acclamato ad oggi, “Devouring Mortality”, da cui la devastante “Catastrophic Retribution” suona come picco della performance. Band che conferma l’ottima forma che sta vivendo e che vedremo moltissime volte aggirarsi per le bancarelle (e i bar!) del festival durante la giornata.

La seconda formazione che ci accingiamo a vedere è in realtà la quarta in cartellone, e se anche non li conoscessimo, il fondale con una mano che spunta dall’oltretomba e il logo TERRORIZER ci danno un’idea dell’assalto di cui stiamo per essere testimoni: la premessa è infatti quella di suonare interamente “World Downfall”, album devastante di questa super-band del death metal.
I Nostri salgono sul palco a seguito del cantante, Brian Werner, intento a sventolare una bandiera della band con volto coperto, ma il vero boato del pubblico si ha quando salgono sul palco due pezzi grossi come Pete Sandoval e David Vincent, che senza troppo perdere tempo attaccano immediatamente con “Hordes Of Zombie”, unico brano non ricadente su “World Downfall” e a conti fatti saggiamente messo, secondo noi, per ‘fare i suoni’.
L’album da cui verrà estratto il seguito è un lavoro seminale, e quando delle ‘vecchie glorie’ decidono di prendere in mano dei classici di questo tipo il risultato può essere sempre rischioso (come ci toccò vedere in una deludente prova di qualche anno fa), ma non è questo il caso.
I Terrorizer, letteralmente, tirano giù tutto, sono tutti in formissima, la potenza sprigionata  rende davvero giustizia all’album dell’89, i suoni si assestano alla perfezione e si va a crescere in un tripudio di violenta ignoranza che trionferà con “Dead Shall Arise”, apoteosi dell’arroganza e del riffing serrato. Show essenziale a dispetto dell’aria un po’ scazzata dei due nomi grossi sul palco.

Ci spostiamo di solo qualche metro per l’inizio dell’esibizione dei GRAND MAGUS, una sorta di cuscinetto dopo la devastante esibizione della ditta Sandoval-Vincent.
Il sole è micidiale a questo punto, troviamo facilmente un punto all’ombra proprio sotto al palco (ci sarà molta meno gente infatti, almeno all’inizio, a seguire lo show) e ci apprestiamo a vedere la prima volta dei nostri al Brutal Assault.
Pochi ma buoni, si dice, e infatti sebbene come detto non sia un pienone quello per la band (parliamo di diverse centinaia di persone comunque!), i presenti supportano la band e cantano con convinzione. L’inizio vede il gruppo necessitare di un certo riscaldamento, ma che si riprende molto velocemente, incitato e aiutato nel canto dai molti sostenitori, in crescita grazie all’attitudine genuina del trio e all’epicità di alcuni brani come “I, The Jury” o la rockettare “Still Versus Still”. La band propone anche un nuovo brano, “Skybound”, che farà parte del prossimo lavoro in studio, “Sunraven”, in uscita ad ottobre, ben apprezzato anch’esso.
Il picco tuttavia si ottiene alla fine, con “Hammer Of The North”, quando come in un concerto da stadio che si rispetti tutti i presenti cantano in coro il tema principale del brano, che fa scapocciare un po’ tutti e si conclude tra braccia alzate e la band felice dell’ottimo riscontro. Live forse un po’ fuori contesto? Non siamo sicuri, ma ci siamo divertiti molto.

Il pubblico è decisamente più folto con i THE BLACK DAHLIA MURDER, forse anche per un senso di ‘inconscio rispetto’ nei confronti del fu Trevor Strnad, ma sicuramente anche perché fa certamente piacere rivedere in piedi, dopo il tragico lutto che l’ha colpita, una band che ha raccolto moltissimo nel corso degli anni, risultando sempre una sicurezza sul fronte live.
Certo, fa un certo che vedere Brian Eschbach al microfono, e restiamo giusto il tempo di vedere quanto veloci vanno questi ragazzi, che letteralmente assalgono lo stage con “Funeral Thirst”. Gli americani vanno a mille all’ora e la folla sembra essere con loro, a ragione, vista la potenza espressiva mostrata sul palco, e ancora una volta l’impressione è positiva.
Ci troviamo però di fronte a uno dei mille bivi della vita da festival, e quindi lasciamo gli americani per dirigerci per la prima volta oggi all’Obscure Stage, dove hanno già iniziato i FINNTROLL, che mancano da queste parti da una dozzina d’anni buona, e che ritornano armati di cattive intenzioni e orecchie elfiche sul palco del festival.
Il concerto è abbastanza eterogeneo per quello che riguarda gli ultimi vent’anni di discografia, con più brani dall’ultima prova, “Vredesvävd”.
Francamente, sarà stato il sole alto, piuttosto in contrasto con sound e aspetto dei Nostri, l’atmosfera molto poco consona, una sorta di piattezza del suono, e forse anche il fatto che non abbiamo mai stravisto per la band, ma non abbiamo trovato poi così entusiasmante lo show dei finlandesi, che pure hanno avuto la loro schiera di ammiratori, ma ci hanno lasciato piuttosto freddini con un concerto che sembrava sempre sul punto di partire per poi assestarsi invece su una certa mediocrità.
Siamo certamente tra i pochi, visto l’apprezzamento generale del pubblico presente, ma l’entusiasmo non ci è sembrato bilanciato all’esibizione.

Restiamo sempre dalle parti dell’Obscure in attesa di vedere almeno l’inizio dell’esibizione degli VLTIMAS, altro supergruppo nel quale rivediamo David Vincent, in compagnia di gentaglia come Flo Mounier e Blasphemer. Il progetto internazionale tarda qualche minuto l’ingresso, mentre la folla pian piano aumenta, visti i nomi in gioco.
La professionalità dell’ensemble è indiscutibile, e il quintetto suona sornione e ben conscio della propria caratura artistica, con Vincent sugli scudi a declamare, teatrale, i vagiti della propria opera. Il livello tecnico, anche come impatto, è notevole, e l’avvio dedicato all’ultimo “Epic” è abbastanza funzionale in sede live.
Tuttavia, i brani non sembrano avere, onestamente, la stoffa dei grandi classici, e ci fanno l’impressione che avevamo avuto anche su disco, ovvero di brani gradevoli e ben scritti (“Invictus”, ad esempio, fa davvero la sua figura), ma che senza i nomi coinvolti forse avrebbero fatto un po’ meno rumore.
Anche dal vivo infatti dopo un po’ il mordente inizia a scemare, e decidiamo che per noi è arrivato il momento di tornare verso il main stage per andare a tributare un nome tutelare del death metal americano.

Arriviamo verso la fine degli HATEBREED che, a giudicare dal tiro e dall’entusiasmo di fronte al palco, devono aver tenuto un concerto memorabile, e ci mettiamo in posizione pit di fronte all’altro palco, quello dove a breve farà la sua apparizione uno dei personaggi che, tra alti e bassi, motivi musicali e una personalità certamente particolare, ha accompagnato gli ascoltatori di metal estremo dagli anni ‘90 in avanti.
Glen Benton e i suoi DEICIDE salgono sul palco poco dopo le otto, dove senza tanti proclami si parte con una mazzata quale “When Satan Rules His World”, che devasta i presenti coi suoi riff indiscutibilmente, propriamente ‘alla Deicide’, appunto.
Un inizio potentissimo e devastante, con un Benton col fare scazzato come da copione e capace così forse di aumentare il livello di intensità della proposta, che riluce soprattutto dei suoi grandi classici (formati prevalentemente da brani dei primi tre dischi), ma non si tira indietro e mette anche qualcosa dall’ultimo, chiacchieratissimo, “Banished By Sin”.
Certo che, però, quando parte una “Once Upon The Cross” o una “They Are The Children Of The Underworld” o, ancora, “Sacrificial Suicide” non ce n’è proprio per nessuno, anche a livello di risposta di un pubblico fisicamente in visibilio. Che dire, la band fa il suo, i suoni sono ottimi, il pubblico si diverte e, al di là di Benton che sembra lì per obblighi di mutuo, va davvero benissimo così.

Arriva un altro di quei momenti cruciali dei festival multipalco nel quale dover scegliere cosa guardare, visto che suoneranno contemporaneamente EXODUS, BRUTUS e DISKORD, e francamente, avendo visto abbondanti volte i primi, la scelta ricadrebbe sugli ultimi due dividendo il concerto a metà; come vedremo, però, l’eccellente show dei DISKORD prenderà il sopravvento e decideremo di non lasciare il loro palco, quello più piccolo e underground, denominato Octagon.
Avevamo davvero apprezzato troppo “Degenerations” per perdere l’occasione di vedere questo death metal act norvegese, tutto sghembo e dissonante, e anche l’ultima uscita, lo split con gli Atvm, è girata non poco sui nostri stereo.
Non tantissima gente – come del resto ci aspettavamo – e un inizio con suoni davvero molto confusi, non ci fa presagire un grandissimo show, e anche il fatto che dopo il primo brano il bassista, Eyvind Wærsted Axelsen, abbandoni il palco per qualche minuto per andarsi a prendere una birra (tutto vero!), lascia per lo più nello sconcerto molti, tra cui il chitarrista che non sa bene cosa dire e chiede bonariamente al pubblico se qualcuno sappia suonare il basso.
Non sappiamo se fosse una specie di bizzarra performance, ma i ragazzi sono ben consci delle proprie qualità, e dal ritorno di Axelsen incominciano seriamente e non lasciano prigionieri. Immersi in luci monocromatiche su cui svetta il verde, i tre iniziano un concerto che ci ipnotizza, a metà fra Demilich, Ved Buens Ende e dei Voivod del death metal, saltando di palo in frasca, irridendo e ingannando gli spettatori, introducendo contrabbassi elettrici e battutine, con un’atmosfera tutto fuorché dura e cattiva, senza orpelli e senza oggetti di scena, lasciando le parole ad un’esibizione imprevedibile, complessa e ossessiva, di quelle ben riuscite, che rende giustizia ai (pochi) lavori in studio.

Il caldo della giornata sembra volgere al termine quando vediamo dei lampi in cielo a coronare la Fortezza Josefov, e ‘già che siamo lì’ non ci muoviamo dall’Octagon, palco che essendo in un’area più minuta rischia di riempirsi all’inverosimile in un attimo col ‘concerto giusto’, e restiamo a vedere gli AEON WINDS, band che per chi scrive, su disco, non ha mai detto moltissimo, con il suo black sinfonico ben suonato e composto, ma sin troppo fatto su misura.
La grande presenza di spettatori sembra darci torto e, come vedremo, forse tra noi e gli slovacchi non è semplicemente mai scattata la scintilla, visto che anche in quest’occasione ci sembrano una band davvero sopravvalutata: composizioni che ripercorrono pedissequamente un certo sound anni ‘90 ed una voce bruttina non ci dicono davvero granché, ma possiamo comprendere, allo stesso tempo, un certo appeal soprattutto su chi ha frequentato un po’ meno l’ambiente in altri tempi.
Da segnalare un errore che ha fermato l’esecuzione del terzo brano, dopo del quale decidiamo di andare verso l’Obscure a vedere come se la cava Tom G. Warrior che sta suonando con i suoi TRIUMPH OF DEATH: che dire, sta bene lui, sta bene la band e stiamo bene noi!
Abbiamo già visto altre volte questo tributo alle origini del musicista elvetico e dei suoi HELLHAMMER, e sebbene questa volta abbiamo preferito guardare ‘da distante’ l’esibizione, classici come “Messiah”, o “Revelations Of Doom” fanno sempre la loro porca figura.
Uno sguardo veloce, tuttavia, per un’esibizione che abbiamo visto troppo poco per giudicare, perché dobbiamo corriamo alla volta dei Main Stage, visto che si sta avvicinando un’esibizione che non vogliamo perderci (a discapito degli eroici ARMORED SAINT a cui ci toccherà rinunciare).

ABBATH infatti inizierà a breve con il suo show tributante la band con cui ha letteralmente scritto – è bene sempre ricordarlo soprattutto ai meno scafati, che ne conoscono forse di più l’aspetto clownesco – pezzi di storia del black metal.
Per rendere ancora più old-school l’esibizione, Olve Eikemo (vero nome di Abbath) riprende lo stage name completo, aggiungendo quell’epico Doom Occulta al proprio nome e, nel dubbio, evoca gli dei dell’inverno e fa cadere la pioggia più fragorosa che sperimenteremo (per fortuna, ripensando alla nostra ttenda), per tutta la settimana. Piove a secchiate quando un backdrop raffigurante il faccione del Nostro eroe si illumina di un gelido blu e, una volta caduto, vede la band suonare “Mount North”, da “All Shall Fall”.
Il brano, forse in linea con le produzioni più recenti, sembra fatto apposta per settare i suoni, inizialmente un po’ scadenti, e per scaldare per bene pubblico (già fradicio) e musicisti, e serve da trampolino per un pezzo degli albori, uno di quelli che ci tramortì quando andavamo ancora a scuola col nostro giubbottino di jeans con le toppe, ovvero “Call Of The Wintermoon” – annunciata quasi nell’incredulità generale. Esecuzione micidiale di un brano micidiale, constatiamo con gioia che l’esibizione non puzza di operazione nostalgica raschiafondo e, anzi, esalta un po’ tutti i presenti (davvero moltissimi).
Sembra esserci stato anche un certo investimento economico, tra oggetti di scena, fiammate e pioggia di fuoco durante “At The Heart Of Winter”, ma avremmo apprezzato anche la ‘sobria’ immagine invernale nel backdrop (oltre alle asce bipenni infuocate che finalmente vediamo sul palco e non nel backstage durante i concerti degli altri gruppi!).
Certo, sembra che alcune parti siano suonate in maniera un po’ più semplice rispetto alle versioni studio, ma la cosa non disturba, la pioggia aumenta l’epicità di questo concerto che ripercorre praticamente tutte le tappe della band di Bergen, da momenti di puro olocausto (“The Sun No Longer Rises”, che ci demolisce), a momenti di perfetta epicità come “Damned In Black” o “Sons Of Northern Darkness”, la devastante “Withstand At The Fall Of Time”, sicuramente il brano della serata e capace di esaltare chiunque (e dove Abbath sembra avere un problema con la chitarra, nell’intro, che lo prolunga in un modo che non sappiamo quanto fosse voluto), e la gloriosa “Blashyrkh (Mighty Ravendark)”, chiusura perfetta di un concerto capace di confermare il posto nei libri di storia del metal che spetterebbe ad Abbath e Demonaz, quali autori di dischi imprescindibili.
Al di là dell’esaltazione del momento, possiamo davvero lodare l’esecuzione di tutta la band e del leader in particolare, che sa comunque come giocare col proprio pubblico e con l’immagine (non sono certo mancate le pose ‘da meme’). Peccato non abbiano fatto la nostra preferita, “Unsilent Storm In The North Abyss”, ma speriamo sia qualcosa che si ripeterà in futuro (magari con Demonaz? Sognare non fa mai male).
La pioggia finisce esattamente alla fine dello show di Abbath, confermando il fatto che fosse preparata dai norvegesi, e decidiamo di mettere la parola fine alla prima giornata del Brutal. Infatti, sebbene ci pesi perdere i DARK TRANQUILLITY, anche alla luce di quello che abbiamo sentito in anticipazione al nuovo “Endtime Signals”, siamo fradici come pulcini e decidiamo di concludere qui.

 

GIOVEDÌ 8 AGOSTO

Il primo concerto a cui assistiamo giovedì è quello degli OBSCURA, o meglio: quello che pensavamo di assistere. Infatti, quando alle 13 in punto parte l’intro che dovrebbe dare inizio allo show dei bavaresi, ci saranno diversi problemi tecnici; il concerto parte con un quarto d’ora di ritardo, una prima volta, ma si fermerà almeno quattro volte alla prima canzone, con l’intro ripetuta continuamente e brani interrotti: in definitiva, con un totale di quattro canzoni in circa tre quarti d’ora di sorrisi imbarazzati, è stato anche piacevole riscontrare un’attitudine positiva e comprensiva da parte del pubblico (probabilmente sarebbe stato diverso se i Nostri fossero stati headliner con biglietto non rimborsato perché comunque quattro brani li hanno fatti!). Da segnalare, come nota a margine, James Stewart dei Decapitated alla batteria.
Scorre invece ad alto tasso adrenalinico il concerto degli ESCUELA GRIND; gli americani giocano con il loro pubblico dandosi totalmente in pasto ad esso, come fa la cantante Katerina Economu, incitando in ogni istante, saltando, arrivando a fare balletti, buttandosi per terra e anche occasionalmente sculettando a favor di pubblico.
Va detto, vediamo molta più forma che sostanza, ma la platea pare divertirsi, e sebbene gli Escula Grind non siano qui a mostrare doti sopraffine di composizione erudita, non troviamo nulla che non sia stato fatto meglio e prima da molti altri nomi del comparto grind o extreme, e oltre a organizzare wall of death e circle pit praticamente di continuo, non ci resta poi granché.

Prendiamo un attimo di respiro e si fa l’ora degli INCANTATION, uno di quei nomi-sicurezza che difficilmente deludono, anche quando magari non si è troppo affini con il mortifero death metal degli americani: e questo perché un concerto degli statunitensi è obiettivamente sempre un trionfo di pesantezza e morte unita ad un’attitudine genuina che trasuda dal palco.
Ha anche piovuto un pochettino, poco prima, e durante l’esibizione degli Incantation torna un po’ di sole il quale, assieme al marciume che arriva dal palco, genera un’atmosfera umida davvero paludosa e annichilente. Moltissimi i presenti a tributare dei veterani rispettatissimi che, grazie anche a dei suoni ottimi, stanno letteralmente tirando giù il mondo e gettandolo addosso alle prime file.
Un vero massacro; decidiamo dunque di bilanciare con il sound strafatto dei DOPETHRONE, attivi sull’Obscure stage, che sotto una pioggerellina tornata incessante stanno massacrando i timpani dei presenti con il loro doom stoner drogato e putrido, debitore così evidente degli Electric Wizard.
Il suono è allucinato e violento nel suo marziale incedere, e i canadesi sembrano ben calati sul palco ceco, tra le faccette ‘fattone’ di Shawn e un’aria da punkabbestia imperterriti, capaci di prenderci a calci sui denti con giri ipnotici e sabbathiani. Impossibile non lasciarsi catturare, al di là che piaccia o meno il genere.

L’ignoranza dei Dopethrone fa un bel contrasto con la band che seguirà sul palco Obscure, vista la proposta radicalmente diversa portata dai GOD IS AN ASTRONAUT, alfieri di un post-rock ormai piuttosto codificato all’interno delle composizioni degli irlandesi.
La band dei fratelli Kinsella ha visto degli alti pazzeschi nella propria carriera, ma anche dei momenti di stanca, tuttavia dal vivo di solito è una sicurezza. I suoni sul palco sono cristallini e limpidi e l’inizio è davvero intrigante, ma complice anche la pioggia che riprende con una certa convinzione, sembra che la musica dei GIAA venga recepita un po’ distrattamente, forse anche per delle composizioni non ancora assimilate, estratte dal prossimo ad uscire “Embers”, e un palco/orario non troppo adeguati a farci calare in sintonia con le atmosfere trasognate della band.
Insomma, l’impatto è sempre gradevole, ma pur essendo estimatori della band iniziamo a percepire un certo senso da ‘gruppo di sottofondo’ per bere una birra; non manca il groove, non manca la professionalità, ma (a causa anche di un problema tecnico alla chitarra), il concerto singhiozza un po’. Un’altra cosa vederli nel contesto adeguato, sicuramente.

Abbandoniamo l’Obscure per accaparrarci un buon posto invece per l’imperdibile show dei FORBIDDEN: il gruppo di Craig Locicero non è esattamente di passaggio tutti i giorni, e rappresenta un caposaldo assoluto per tutto il thrash metal, grazie a due dischi storici quali “Forbidden Evil” e “Twisted Into Form”. Proprio con l’intro di quest’ultimo, “Parting Of The Ways”, la band fa il suo ingresso sul palco, trasformando l’intro nella micidiale “Infinite”, con la chicca di un sorridente Daniel Mongrane dei Voivod alla chitarra che fa da contralto a quella di Locicero (situazione che ci regala dei picchi chitarristici clamorosi, come in “Through Eyes Of Glass”). Che dire di fronte ad una prova maiuscola come quella offerta dai Fornbidden?
Certo, con il materiale proposto è difficile sbagliare (verranno presi in esame solamente i due dischi su citati), ma la prova degli americani è quasi perfetta: le chitarre sembrano uscire dai dischi, e in alcuni casi lasciano davvero a bocca aperta, grazie ad un tiro efferato e ad assoli cristallini, così come va evidenziata la prova di Norman Skinner alla voce, che fa davvero la sua figura.
I brani si susseguono uno dietro l’altro, divenendo sempre più clamorosi, fino alla culminante e più volte urlata dall’invasato pubblico “Chalice Of Blood”. Una vera e propria celebrazione del thrash metal storico, e sicuramente ad ora l’esibizione del giorno.

Prendiamo un po’ di respiro e decidiamo che è arrivato il momento per una veloce cena nella Vegan Street prima di andare a prendere posto al cospetto dei 1914, band che immaginiamo attirerà buona parte di ascoltatori, visto che in alcune occasioni è saltata all’ultimo e per la curiosità di vedere live gli estratti dai tre buoni lavori pubblicati a base di doom-black molto annerito.
Come era lecito aspettarsi, c’è anche molta politica nel live dei 1914 (chi segue i canali social della band del resto non si sarà stupito), con moltissimi proclami contro la Russia (anche piuttosto diretti e violenti) che si ripeteranno spesso e riferimenti alla guerra in Ucraina, ben in linea con i temi che la band porta da ben prima di questo conflitto.
Ci interessa poco parlare del nostro punto di vista sui proclami politici, ognuno si farà la sua idea, ma fa un certo effetto assistere a questo spettacolo tra colori della terra madre, bandiere, e una sofferenza che trasuda un odio non ‘scenografico’ ma genuino.
Musicalmente, secondo noi, il distacco tra i brani del terzo disco e il precedente, secondo noi migliore, “The Blind Leading The Blind” (non verrà preso in esame il debut) è piuttosto marcato, e la dimensione live sembra accentuarlo. La scelta di non ‘mischiare’ i brani può avere un suo senso, ma non nascondiamo che dopo un po’ il ‘muro di suono’ proposto ci appare un po’ carente per quanto a dinamica, e non aiuta lo svolgimento del concerto, che comunque invece ottiene una risposta molto importante.
Da segnalare un’ottima prova vocale e in genere una presenza molto compatta, ma forse dovremmo rivedere i 1914 con un po’ meno gente e al chiuso per apprezzarli di più.
Facciamo una corsa verso i main stage per vedere almeno le ultime battute dei CARCASS, e arriviamo proprio durante l’immortale “Genital Grinder”, come sempre un momento gradevolissimo di eleganza e raffinatezza.
I Carcass sono dei pezzi grossi del metal, e non ci stupisce vedere l’enorme numero di persone davanti al loro palco, e non ci va nemmeno male in termini di tempismo, visto che la parte finale è dedicata ad un altro paio di perle (“Exhume To Consume”, “Corporal Jigsore Quandary” e l’imprescindibile “Heartwork”).
Ha poco senso commentare la prestazione, se non per il suono del rullante, che non ci piace affatto; comunque ormai abbiamo visto i Carcass un numero imprecisato di volte, e mai sono apparsi meno che professionali, incluso questo pugno di brani che vediamo stasera. Sempre un piacere, che dire.

Chi davvero avevamo perso per strada, per quanto siano stati formativi in età più giovane, erano i TESTAMENT, che avevamo tolto dai nostri radar da diversi anni ormai. Con fare snob decidiamo di restare a guardare giusto un paio di brani, proprio in rispetto a Chuck Billy, ma come a volte accade, veniamo smentiti da un’inaspettata realtà.
La band è in forma smagliante, i suoni perfetti, e già quando parte “Eerie Inhabitants” ci sentiamo presi per il collo dalla perfezione esibita sul palco, dalle pennellate del duo Peterson e Skolnick, dalla prestazione maiuscola di Steve DiGiorgio e dall’ottimo lavoro dietro le pelli di Chris Dovas. Chuck Billy è inarrestabile e ci informa che il concerto prevederà unicamente brani dei primi due album, e a quel punto il live prende in brevissimo tempo dei connotati epici.
Siamo tornati ragazzi noi e sembrano sul serio dei ragazzi loro: tra una “The New Order” sparata sulla folla indifesa, pezzi come “The Haunting”, “Apocalyptic City” suonati da far tremare i polsi (e le caviglie!), e classici inappuntabili come “Disciples Of The Watch”, “Over The Wall” e la conclusiva “Into The Pit” non possiamo non constatare che, esattamente come successo coi Forbidden qualche ora prima – ma anche coi Carcass – l’esperienza a volte fa proprio la differenza (assieme ad un repertorio divenuto negli anni classico).
I Testament sembrano contenti della risposta del pubblico entusiasta, e raccolgono giustamente i frutti di un lavoro operaio che ha forgiato moltissimi dei presenti al festival. Giù il cappello.

L’ultima volta che avevamo visto i SATYRICON avevano suonato per intero quel capolavoro totale che risponde al nome di “Nemesis Divina”. La scaletta proposta stasera è piuttosto equilibrata (l’avevamo intuito dal soundcheck delle 8.00 di mattina che ha funto da sveglia, a dire il vero…) tra alcuni episodi dell’epoca più acclamata dai blackster più incalliti a quelli, molto spesso criticati, più recenti.
Ottima come opener “To Your Brethren in the Dark“, che si insinua con suadente, apparente calma, tra le fila di un pubblico molto folto. I suoni sono davvero ottimi anche per i Satyricon, e la prova sembra essere davvero di qualità, cosa non scontata per una band inattiva da qualche tempo.
Fa un certo effetto vedere Frank Bello al basso muoversi avanti e indietro, a dire il vero, a contrastare le camminate e le pose ieratiche di un pur scapocciante e inquartato Satyr (e diciamolo, una buonissima prova da parte sua), e mentre i brani si susseguono in maniera oculata tra vecchio e nuovo (il secondo pezzo è la devastante “Forhekset”), fanno una loro figura pezzi da “Now, Diabolical” o “The Age Of Nero” (in questo caso: “Black Crow On A Tombstone”); ma è quando sentiamo il riff indimenticato di “Nemesis Divina” che tutti i presenti fanno sentire la propria voce, accompagnando la macabra melodia partorita nel 1996: con buona pace dei dischi moderni, sicuramente IL momento del concerto.
Concerto che dimostra ancora una volta il valore di una band che nella sua carriera è stata oggetto di discussioni e anche critiche, e che forse proprio in virtù di queste è sembre andata avanti per la sua strada, mantenendosi una forma invidiabile e sempre professionalissima.

Essendo ormai stremati e visto l’orario (le 1.00 oramai), andiamo giusto a dare un’occhiata allo show degli UADA in quel dell’Obscure Stage, ma lo spettacolo offerto ricade un po’ troppo in quel tipo di cliché da black metal incappucciato che si è fatto strada nei tempi moderni.
La proposta degli statunitensi, che pure agli inizi era più che dignitosa, è diventata pettinata il giusto per suonare sorniona e teatrale quanto basta per arruffianarsi parte dei ‘curiosi’ che sono presenti al loro live; mentre ci risuonano nelle orecchie ancora le cannonate di un’infilzata di mostri sacri, il sedicente ‘black’ patinato e laccato degli Uada dà l’ultimo colpo di grazia alla nostra stanchezza e ci manda in tenda a riposare.

 

VENERDÌ 9 AGOSTO

Ci svegliamo presto grazie al solito gradevole check delle otto del mattino, e ne approfittiamo per una passeggiata ristoratrice tra le vie del festival che si rianima e una colazione salata, per arrivare a vedere i PARTY CANNON, band che appartiene a quel filone di metal cazzaro tutto gonfiabili e divertimento.
In realtà gli scozzesi propongono un death metal brutale e violento ma non particolarmente entusiasmante, e la pur grande presenza di persone (alle 10.30 del mattino!) è dovuta prevalentemente all’’effetto Gutalax’, ovvero di quel concerto immancabile fatto di cialtronaggine e goliardia.
Quindi tra palloni da spiaggia sulla gente, enormi circle pit, mascotte incitante sul palco e il tentativo di ingresso nel guinness dei primati per il più grande set di flessioni al mondo (e davvero tantissimi sfidano il sole già caldo per fare push ups!) il concerto fila via in maniera decisamente più innocua di quanto si sarebbe voluto far credere. Però la gente sembrava divertirsi trucemente e di cuore, e quindi che dire, avranno ragione loro.

Vista l’esuberanza della band di apertura, decidiamo di metterci nelle retrovie, e seguiamo solo brevemente, cercando un posticino all’ombra, i LIK, che suonano un bel death metal di matrice svedese e ci portano alla mente un sacco di belle realtà dal suono a motosega, ma sebbene le composizioni sembrino interessanti, veloci, con un bel riffing e con dei breakdown piuttosto interessanti, non ci viene questa gran voglia di approfondire, probabilmente vista l’ora e la necessità di un po’ di pausa. Alla prossima volta, amici di Stoccolma!

Prendiamo dunque un attimo di respiro e ci presentiamo all’Obscure quando lo show dei nostrani UFOMAMMUT è da poco iniziato. I nostri compaesani, c’è poco da dire, ci fanno sempre fare bella figura all’estero: sebbene sia strano farsi accalappiare dal sound della band di Tortona sotto un sole alto e cocente e una luce che più chiara non si può, è un attimo che la psichedelia del trio ci sollevi da terra e ci porti a vagare attraverso spazi inesplorati.
I suoni sono strepitosi, la prestazione è cristallina e di grande qualità, ed è davvero un attimo che si rimane stregati. Molti sono i presenti, fino a dietro al mixer, che sembrano apprezzare le tutt’altro che easy listening evoluzioni dei tre, e l’esibizione si conclude tra vivi apprezzamenti e un repentino ritorno sul pianeta Terra.
Certo l’esperienza degli Ufomammut tra le mura di un club e con il giusto set di luci è tutt’altra cosa, ma la band dimostra ancora una volta, anche in un contesto meno suo, di essere tra le punte di diamante del metallo tricolore.

Dopo uno spettacolo di sostanza come quello degli Ufomammut, restiamo nello stesso palco in quanto curiosi di vedere, ancora una volta, una band che alla sostanza accosta senza alcun problema anche moltissima, non sappiamo quanto piena, forma.
Non ci hanno mai convinto, gli IMPERIAL TRIUMPHANT, né su disco né dal vivo, ma siamo qui apposta a vedere se il tempo può cambiare le opinioni.
I newyorkesi salgono sul palco come sempre in pompa magna, ben consci dell’hype che sono stati capaci di generare con le loro composizioni complesse, sbilenche, pompate, che sembrano tuttavia sempre senza un filo conduttore, e l’impressione è che gran parte dei moltissimi presenti sia qui più per la curiosità generata attorno al progetto che per la musica proposta. Non è la complessità a irretire, quanto l’idea, sempre costante, che gli Imperial Triumphant, sotto sotto, ci stiano prendendo per i fondelli, ridendosela sotto le loro belle mascherine.
Indubbiamente sanno suonare in maniera eccellente, ma la proposta sembra davvero buttata lì: un metal estremo votato all’avanguardia, figlio di un’immagine posticcia e di una tenuta del palco sicuramente intelligente e sopraffina, che a giudicare dall’apprezzamento dei presenti, dà ragione alla band e non a noi. Che dire, davvero, in fondo, la ragione appartiene al pubblico.

Abbandoniamo i virtuosismi in corso all’Obscure per dirigerci verso il più piccolo (e decisamente meno affollato) Octagon, dove stanno per iniziare i MALLEPHYR, band in cui milita (alla chitarra e voce) il chitarrista dei Cult Of Fire (che suoneranno la sera) e che eravamo davvero curiosi di vedere alla prova live.
La scelta si è rivelata vincente: il death metal (venato di black) dei cechi risuona, nella sua versione dal vivo, decisamente bene, con una prestazione di gran livello da parte dei quattro musicisti, che ripropongono , in circa mezzora, i brani dell’ultimo lavoro, “Ruins Of Inner Composure”.
La qualità del suono ha sicuramente il suo ruolo nella riuscita di questo bel concerto, ma la compattezza dei Mallephyr è evidente e rocciosa, e i presenti, cresciuti durante l’esibizione, sembrano premiare la band, comunque in giro dal 2013 e al terzo lavoro in studio. Con un fare che ci ricorda vagamente gli Obliteration, un riffing chirurgico, composizioni ben strutturate e bordate dissonanti, i Mallephyr probabilmente prendono la palma di band rivelazione del festival. Da recuperare senza dubbio.

Finito il pregevole show dei Mallephyr ci accingiamo a tornare verso l’Obscure per un nome a cui molti sono affezionati, quello dei maestri CYNIC, che negli anni hanno vissuto diverse fasi ma che in qualche maniera riescono ad accomunare sotto la bandiera della loro incontrovertibile classe appassionati di generi anche piuttosto diversi fra loro.
Tuttavia, chi sperava in un focus sullo storico capolavoro “Focus” (si perdoni il calembour) rimarrà deluso, in quanto da quel disco la band di Paul Masvidal (unico rimasto della formazione originale) proporrà solamente un brano, alla fine, “How Could I?”, concentrandosi sul passato più recente della sua creatura, e sarà “Traced In Air” ad avere gran parte del minutaggio, eroso dai problemi tecnici.
Il concerto parte infatti con un problema al vocoder, che blocca l’esibizione per una decina di minuti abbondanti, per poi iniziare il proprio viaggio attraverso le arie fluttuanti e incantate descritte dagli strumenti suonati immensamente bene dal combo americano. Giri di batteria emozionanti, chitarre che parlano, le melodie trascendentali di Masvidal lasciano sicuramente esterrefatti oggi come la prima volta che vedemmo la band, (una quindicina d’anni fa).
Vuoi però il contesto assolato, la mancanza dei brani di un disco che credevamo di risentire, e un mood un po’ troppo soporifero delle composizioni più recenti (ci perdonino gli irriducibili del gruppo!), dopo un po’ la sola perizia tecnica non ci basta più, e una certa noia inizia a farsi strada fra di noi (e forse non solo, visto che più di qualcuno, magari meno preparato alla band, decide di abbandonare le retrovie). Scelta comunque coraggiosa, quella di non giocare la carta ‘facile’ di incentrare lo show su “Focus” ad un festival, che premia Masvidal (che farà fare una mossa di yoga a tutti i presenti) lasciandogli di fronte un comunque folto stuolo di ammiratori sinceri.

Dopo la pulizia sonora vista durante lo show dei Cynic, ci sembra giusto andare, per la prima volta nel pomeriggio, verso il Main Stage, dove sarà un gruppo un po’ meno pulito a raccogliere il testimone: tocca infatti ai LEFT TO DIE, band che ripercorre le gesta dei primi due capolavori targati Death, rimettere in equilibrio l’universo con la violenza brada e irresistibile composta da Chuck Schuldiner ormai qualche decennio fa.
Che dire di un concerto del genere? Avevamo già visto all’opera la band, che vede tra le sue fila Rick Rozz e Terry Butler, intenta a riproporre “Scream Bloody Gore” (in questa occasione solo “Zombie Ritual”) e “Leprosy”, e l’esperimento, preso per quel che era, in una data unica, ci era piaciuto davvero assai.
In questo contesto abbiamo sperato di cuore che si ripetesse il miracolo ma, quando parte la devastante “Leprosy”, suonata perfettamente (e cantata anche questa volta da un Matt Harvey ai limiti della copia carbone) l’impressione è immediatamente quella di assistere ad una cover band fuori tempo massimo. Le canzoni e la loro esecuzione non si discutono, ma forse il tributo è vissuto già troppo, e l’atteggiamento da ‘gruppo’ vero e proprio che percepiamo sul palco ci dona un misto di fastidio e tristezza; e francamente le magliette con le copertine dei Death con su scritto Left To Die anche.
D’altro canto è bello vedere ragazzini esaltarsi e scatenarsi su brani come “Choke On It” o “Forgotten Past”, ed è altrettanto bello sentire dal vivo tali composizioni, ma lo show non ci cattura, anzi, per i motivi sopra citati, e non per un’esibizione francamente ineccepibile dal punto di vista tecnico. Insomma, forse va bene anche così, questo progetto è durato probabilmente il giusto, e a questo punto troveremmo più onesto tributare il Chuck-sound coi Gruesome. Ma forse è solo che quando si toccano i Death molti di noi si sentono un po’ richiamati all’ordine.

Dopo quello che abbiamo detto dello status di gruppo vero e proprio dei Left To Die pare quasi impietoso passare così di colpo ai CANDLEMASS.
Tutto fuorché dei novizi, tra sound, impatto ed esecuzione, questi svedesi sembrano migliorare ogni volta di più, mettendo in riga nuove leve e vecchie glorie: quasi non contiamo più le volte che la band di Leif Edling ci ha lasciato a bocca aperta, e anche questa volta i Candlemass non mancano di centrare il bersaglio.
Introdotti da “Marche Funebre” si comincia subito con “Bewitched”, con un sound profondo e potente e un’esecuzione chirurgica, per andare a ripescare, come ci hanno abituato, unicamente grandi classici, prevalentemente dai primi due dischi, senza disdegnare tuttavia un giro da “Tales Of Creation” (da cui viene prescelta “Dark Reflections”) e “Ancient Dream”, con cui ci permettono di cantare assieme a Johan Längquist, alla sua prima presenza personale al Brutal Assault, la perentoria “Mirror Mirror”.
Ormai è qualche tempo che il cantante di “Epicus Doomicus Metallicus” è rientrato nel gruppo, e la sicurezza con cui declama anche i pezzi dell’ingombrante ombra del Marcolin dà proprio l’impressione che la scelta di riportarlo a bordo è stata corretta. Il cantante è padrone della situazione, sa quando stare davanti e quando mettersi di lato, lasciando ad una delle migliore coppie d’ascia in circolazione il compito di farci salmodiare tutti assieme melodie quali quella di una “Crystal Ball” o di una “Solitude”, cantata da chiunque, che ci rimette in carreggiate, ci chiude la bocca aperta e ci saluta alla prossima calata dei maestri dell’epic doom metal.

Restiamo in zona, come si suol dire, visto che la prossima esibizione sul main stage ha sicuramente una ragione per essere vista: i CULT OF FIRE, infatti, si esibiranno con la Bohemian Simphonic Orchestra di Praga, e possiamo dirlo, non è proprio cosa di tutti i giorni.
E di esperienza vera e propria possiamo parlare, con questo numero inedito ad un festival metal, con i musicisti classici sul palco, a fare da contralto agli strumenti della band ceca, intenta, in questa occasione, ad omaggiare l’opera del compositore boemo Bedřich Smetana, di cui ricorre nel 2024 il duecentenario della nascita. Allora, diciamolo, l’esibizione, che praticamente rivede un concerto sinfonico con le chitarre e batteria (e blast beat!) è sicuramente azzardata, ricade certamente in quel tipo di situazione che qualcuno avrà amato moltissimo e qualcuno avrà trovato semplicemente ridondante e fine a se stessa (e si, le battute su una specie di “S & BM” si sono sprecate).
Chi scrive, forse anche per una non marcata connessione con la musica classica, non ha trovato il concerto la cosa più riuscita del mondo. L’impressione a volte ci è sembrata di un’orchestra lì più che altro per a fare da sottofondo agli arrangiamenti dei Cult Of Fire (che comunque non suonavano composizioni proprie), ma non ce la sentiamo di entrare nel merito tecnico visto quanto detto sopra.
Va detto che dopo un po’, per chi non ha dimestichezza con il tipo di musica proposta, il filo del discorso è facile da perdere. Sicuramente l’hype generato ha fatto il suo, così come vedere violinisti ben vestiti stare dietro ad un blast beat mentre il fuoco si scatena a bordo palco, beh, ce lo ricorderemo per un po’.

Non ci muoviamo da qui visto che il palco a fianco stava venendo allestito in modo molto importante per il concerto degli ARCHITECTS, e pochissimi minuti dopo la fine dell’esibizione dei Cult Of Fire, parte in registrazione “Don’t Stop Me Now” dei Queen (ormai la nuova moda sono le canzoni registrate pre-concerto, insomma) e pian piano si accendono, come una fiammella, i colori che mostrano una scenografia imponente, con palchi sovrapposti e led, per un’esplosione, sia sonora che letterale – viste le cannonate di coriandoli rossi – con l’opener “Seeing Red”.
Un impatto davvero notevole, che sembra parlare comunque ad un pubblico diverso da quello che si è avvicendato durante la giornata (un po’ come il concerto dei Cult Of Fire, del resto), ma in questo caso abbiamo visto molti dei più grandicelli abbandonare, almeno nelle retrovie, con un viso che parlava da sé. Insomma, certamente non sono l’emblema del metallo brutale e tradizionale di altri gruppi visti in questa sede, ma personalmente troviamo gli Architects più interessanti del magari ennesimo gruppo grind messo lì alle tre del pomeriggio.
Sicuramente eterogenei, sono comunque accolti come delle vere rockstar (quali sembrano essere, del resto) e non risparmiano una stilla di energia, e se è vero che soprattutto le nuove leve sembrano il target degli inglesi (ma quante nuove leve ci saranno, dopotutto? Il fronte palco è davvero gremito!), i Nostri, che tra l’altro sono in giro da un po’ più dell’altro ieri, tra estrapolazioni prevalentemente dagli ultimi due usciti, sembrano non aver bisogno dell’approvazione di nessuno per andar dritti per la loro strada.

Non finiamo il live degli Architects (li apprezziamo e ne riconosciamo il valore, ma non è proprio del tutto nemmeno il nostro pane quotidiano, e un intero concerto è pesantuccio anche per noi) e tentiamo di intrufolarci in un gremitissimo Octagon stage, dove hanno appena attaccato i KHOLD, band norvegese che propone un black metal dritto e basato sui midtempo.
Un gruppo abbastanza miracolato, vista la proposta sì piacevole, se sentita dal vivo, ma che tutto sommato, nella sua lineare semplicità, non ha niente di eccezionale, e stupisce per la sua resilienza.
Tuttavia l’area è sin troppo affollata, e non riusciamo letteralmente a vedere niente, pertanto decidiamo di dirigerci verso l’Obscure, dove stanno suonando i KAMPFAR, anche e più che altro – non ce ne vogliano i fan della band – per accaparrarci un buon posto per il concerto successivo. L’impressione, per quanto riguarda i norvegesi, è di una band in formissima e che ci sorprende per tiro ed estro sul palco, ma praticamente riusciamo soltanto a vedere l’ultimo paio di brani.
In generale, per questo come per altri concerti, si capisce bene che è venerdì visto il numero di persone che ci sono sembrate più dei due giorni precedenti, soprattutto in area main stage (e il giorno dopo sarà ancora di più).
Finita l’esibizione dei Kampfar ci mettiamo bene sotto il palco, visto che avremo la fortuna di veder esibirsi delle leggende dell’avantgarde black metal, ovvero i VED BUENS ENDE, che con le grafiche del capolavoro – nonchè unico disco – “Written In Waters” e un’avvolgente luce rossa, si presentano sul palco.
Chi scrive vede per la terza volta la band all’opera, eppure ancora una volta c’è da restare a bocca aperta: Aggressor, Victonik e Skoll danno vita ad un trionfo di perdizione sonora che sembra prenderci alla gola, accecandoci e facendoci fluttuare in un mare notturno.
Non sappiamo bene nemmeno come commentare tale maestosità, tra passaggi complicati, ritmiche sbilenche e passaggi vocali malsani e stranianti, i musicisti non perdono mai di vista il filo conduttore, ovvero la musica, i riff, la progressione, e sembra quasi che il suono sia visibile nella trasmissione dalle dita alle corde, dalle corde agli amplificatori e dagli amplificatori a noi.
Il miracolo di questa musica è di rimanere melodica e riconoscibile, di avere un vero e proprio senso, di essere costruita sotto forma di vere e proprie canzoni, laddove le intricate composizioni sono in funzione di ciò e non viceversa. Uno di quei concerti che andrebbero fatti vedere a tutti i sedicenti gruppi avantgarde impegnati a complicare suoni e vita a loro e a noi (Imperial Triumphant, diciamo a voi!). Da segnalare la cover di “Mesmerize” dei Celtic Frost, tanto per gradire, suonata egregiamente, e sebbene inaspettata ben inserita nel contesto.
Ci sarebbero ancora gli AKHLYS, sempre su questo stesso palco, ma sono quasi le due di notte, dubitiamo si possa avere di meglio dopo l’esibizione dei Ved Buens Ende, e decidiamo dunque di mettere la parola fine anche al terzo giorno del Brutal Assault.


SABATO 10 AGOSTO

E arriva anche per questa edizione il fatidico ultimo giorno, il sabato, quello di solito più affollato, e sebbene vi siano dei limiti imposti dall’organizzazione per il numero di biglietti giornalieri, cosa che quindi dovrebbe limitare questo fenomeno, l’impressione è che in effetti vi sia un giro di gente più vigoroso del solito, e visto il nome di punta della serata la cosa non stupisce più di tanto.
Facciamo le nostre consuete passeggiatine tra food stall e bancarelle di dischi, dove andiamo a dilapidare i nostri ultimi risparmi, e ci approcciamo all’altezza del main stage per quello che per noi sarà il primo show del giorno, ovvero quello dei GOROD. Fa molto caldo sotto il sole, e sebbene non si possa dire che il fronte palco sia gremito, alle tre del pomeriggio circa, i francesi ricevono comunque un certo calore da parte dei presenti.
Va detto che non siamo gli unici a percepire una certa stanchezza, all’ultimo giorno, e più di qualcuno oggi sembra viversi, almeno è la nostra impressione, il festival con più calma. Ad ogni modo i suoni e la professionalità dei Gorod convincono molto: la band abbraccia prevalentemente l’ultimo disco, “The Orb”, e districandosi tra riffing abbastanza velenosi e passaggi violenti, abbina con grazia delle partiture melodiche rinfrescanti, con il proprio afflato prog che ne esalta le qualità. Non siamo troppo fan del genere, ma lo show ci convince molto.

A proposito di rinfrescare, arriva un momento molto gradito del festival, visto che passa un camion dei pompieri che letteralmente lava il pubblico con acqua ghiacciata, e vista la giornata non poteva esserci cosa più gradita. Lavati a puntino, ci avviciniamo in posizione ‘vecchia scuola’, nel pit, per uno dei gruppi che ci hanno formato da ragazzini imberbi, ovvero i PESTILENCE, che avevamo avuto modo di vedere ben più di un lustro fa per l’ultima volta, e che all’interno di un club ci aveva convinto moltissimo, vuoi per il ritorno di fiamma più che per l’attualità della band in sé.
Il concerto e lo slot sembrano perfetti per un concerto-revival, ma va detto che, sebbene la scaletta abbia preso soprattutto dai pezzi da novanta, non è mancato qualche momento più moderno.
Quando Patrick Mameli in tuta, canottiera da tamarro della palestra e cartoncino di latte, appare sul palco coi suoi compagni, il pubblico accoglie con un’ovazione da superstar la compagine olandese. Diciamolo subito, l’impatto sonoro è notevole e a livello di mera esecuzione abbiamo poco da rimproverare ai Pestilence (unico vero neo: una voce non più all’altezza della situazione), ma l’alternanza tra vecchio e nuovo rende il confronto abbastanza impietoso.
Se di fronte a brani come “Dehydrated”, “The Secrecies Of Horror” o l’immortale “Land Of Tears” ci sentiamo piacevolmente partecipi all’assalto di riff e un muro di suono ben congegnato dalla compagine dei Paesi Bassi, in diversi punti dello show viene a mancare un po’ di sostanza; e questo, assieme alla sensazione che i nostri facciano un po’ ‘il compitino’, non ci fa godere quanto speravamo.

https://www.youtube.com/watch?v=8832wlUgrC8

Se però ci è solo sembrato di vedere delle vecchie glorie che brillano soprattutto con brani composti ormai trent’anni fa, la cosa si ripete e si acuisce con lo show successivo, sempre sul main stage. Avevamo gran voglia di vedere un altro di quei gruppi che non è mai mancato nei nostri ascolti, ma il concerto dei SADUS si è rivelato francamente una noia mortale.
Ovviamente non può non esaltarci un’apertura a base del classicone “Sadus Attack” e – precisiamo – gli americani non suonano mica male o goffi: semplicemente il nostalgiometro è davvero alle stelle, e quello che trasuda dal palco è la verve di un pugno di signori il cui meglio è datato a molto tempo fa, e che cercano ancora di ripetersi fuori tempo.
Troppo impietosi? No, perché formalmente il concerto non ha niente di male, Jon Allen batte come un fabbro, così come Darren Travis resta un buon frontman, ma a volte la buona volontà e una semplice ‘buona esecuzione’ non basta (ci vengono in mente ad esempio le devastanti esibizioni di Forbidden e Testament del giorno prima). E se da una parte si fa apprezzare il crederci ancora, si sarebbero almeno potuti evitare i brani di “The Shadow Inside”, vista l’occasione ‘di festa’, e farci sognare ancora un po’ col materiale dei tempi d’oro.
Poi ovviamente arriva una “Certain Death” e l’universo si riassesta, ma non basta a farci valutare come positiva la prova dei Sadus.

“Certain Death” che ascoltiamo in realtà da distante in quanto non vorremmo trovarci troppo distante dal palco dell’Obscure, visto che attendiamo al varco da un po’ il prossimo gruppo nella nostra scaletta, dato che in Europa non è che sia facilissimo beccare gli CHTHE’ILIST.
Attesa ben ripagata, visto l’ottimo show che Phil Tougas e arrembanti soci ci propongono, costituito da un death metal melmoso e sfibrante, che riluce grazie a dei suoni molto buoni. Dal vivo, ancor più che su disco (ad oggi l’unico full-length è il buonissimo, “Le Dernier Crepuscule”, oltre a vari EP) si percepisce ancora di più una certa predilezione della band per i Demilich (e non solo, anche qualche nome importante del death metal più recente, come Sulphur Aeon).
Un death asfissiante, cavernoso, suonato con precisione e una verve tangibile (e voce, a volte effettata, a letteralmente spuntar fuori dagli antri più fetidi del mondo). Voce ad opera del ‘turnista’ live Laurent Bellemare, che agisce da frontman a tutti gli effetti e che permette una riuscita da live sudato e d’impatto anche a fronte di un genere abbastanza intricato. Un concerto di ottima fattura, che si chiude tra gli applausi di un pubblico però non così folto.

Si torna dalle parti del main stage per un nome che per chi scrive è da sempre molto importante e che difficilmente lascia a bocca asciutta, ovvero i PRIMORDIAL.
Il fronte palco è bello gremito, e gli irlandesi si fanno strada sulle note di “As Rome Burns”, che mostra un’ottima forma dei musicisti capeggiati dal narratore Alan Averill, che per tutto il tempo si muove, incita, mima quanto viene cantato.
Va detto che il concerto va in crescendo, sia di suoni che di intensità (ci erano sembrati un po’ freddini lì per lì), e se è vero che un concerto dei Primordial magari non sorprenderà, se si è vista la band all’opera altre volte, è impossibile rimanere impassibili di fronte alla disperante decadenza delle melodie suonate.
I racconti in cui immedesimarci sono fatti di impiccagioni e sbando, sconfitta e dolore, e come sempre pendiamo dalle labbra di Averill e soci per addentrarci in un racconto di massa dove, tra brani quali “To Hell Or The Hangman” o la sempre salmodiata “Empire Falls”, i Primordial eseguono un concerto ancora una volta impeccabile.
Il black folk della band potrebbe non essere pane quotidiano di tutti i presenti al Brutal Assault, e la voce sicuramente può essere un punto divisivo (chi scrive la adora), ma la classe, la tecnica e la presenza di palco dei quattro è fuori discussione anche per gli ascoltatori casuali. Come sempre, una sicurezza.

Abbiamo deciso di andare a rifocillarci durante il concerto dei TEXTURES in modo da farci trovare pronti di fronte alle ultime cannonate del festival (e che cannonate), e torniamo in zona main stage per una band che ha contribuito in modo tangibile alla forgiatura del black metal, e che avendo deciso di utilizzare un approccio ‘lavorativo’ attorno alla propria reunion, ha saputo mantenere un’aura di dignità sempre molto presente.
Gli EMPEROR, infatti, ‘fanno il loro mestiere’ ma con una capacità squisita, non sbagliano un colpo dal vivo, non si lasciano andare ad eccessi di spettacolarizzazione: semplicemente, prendono i loro brani più leggendari e li suonano come se fosse la cosa più importante del mondo in quel momento. E il risultato lascia sempre a bocca aperta.
Sarà la quinta o sesta volta che vediamo gli Emperor negli ultimi anni, e anche quando crediamo che la magia non possa essere la stessa che in passato, il mix di canzoni immortali e esecuzione brillante fino all’ultimo dettaglio ci fanno ricredere. Anche in questo frangente la compagine di Ihsahn, Samoth e Trym si rende protagonista di un live pazzesco, dove prendono vita gli spettri più oscuri degli anni Novanta, con l’accento sui primi due capolavori e un’escursione di un brano a testa da “IX Equilibrium” e “Prometheus”.
Che dire, impossibile non sentirsi parte di qualcosa di grande quando si intona “Thus Spake The Nightspirit”, o “Inno A Satana”. Non avrebbe nemmeno senso entrare nei particolari del concerto: tutto suonato con precisione ed un tiro micidiale, è davvero incredibile come gli Emperor ci facciano piombare in una dimensione extraterrena grazie a delle composizioni speciali, che vengono omaggiate da canti e cori dalla totalità dei presenti… Averlo saputo, negli anni, che ci saremmo ritrovati a cantare gli Emperor come ad un concerto dei Maiden!
Ancora una volta ripiombiamo nel mondo reale alla fine dello show, con la speranza di tornare a vedere questi brani suonati di nuovo quanto prima.

Ancora frastornati dalla grandezza degli Emperor, torniamo verso l’Obscure per l’ultima vera esibizione imperdibile del nostro Brutal Assault, quella dei DØDHEIMSGARD. Vediamo come una benedizione la concomitanza coi THE DILLINGER ESCAPE PLAN, concerto che immaginiamo avrà attirato tantissima gente, che ci permette di godere dei DHG in un ambiente di effettivi ammiratori della band, in ottima quantità, riuscendo a stare tra le prime file senza problemi.
Quando le note di “Et Smelter” aprono l’esibizione, tra luci colorate e immagini oniriche al megaschermo, entriamo immediatamente nelle trame oscure disegnate da Vicotnik (che assieme al batterista Myrvoll ha suonato anche la sera prima coi Ved Buens Ende) e soci.
Un Vicotnik mattatore trasognato che vaga sul palco coperto da una specie di mantellina, che ora si arrampica, ora si butta in mezzo al pubblico, che da primo attore della propria compagine detta tempi e funge da guida, gettando letteralmente fumo negli occhi ai proprio musicisti (sembrerebbe un incenso, a dire il vero!).
La scaletta prende in esame maggiormente l’ultimo, mastodontico, “Black Medium Current”, ma va a pescare qualcosa anche dal passato della band, con “Sonar Bliss” o “Traces Of Reality”. Un concerto che per  chi scrive ha raggiunto l’apice del festival, passando in rapida successione dal metal più estremo a cavalcate di insana quiete a cavallo di suoni progressive rock, tra declamazioni di morbosa bellezza e inaspettate ospitate di amici di vecchia data di Vicotnik a cui viene dato il microfono per fargli passare ‘la serata della vita’ (parole sue) su “The Crystal Specter”: l’ospite è il cantante dei cileni Gelal’s Dark Cult (saremo onesti, abbiamo dovuto fare ricerche in merito) – e una classe devastante nell’esecuzione di brani bellissimi e che ci lasciano esterrefatti come dei gatti di fronte ai fanali di una macchina di notte.
Quando finisce il concerto, con “It Does Not Follow”, non sembriamo gli unici a volere ancora un po’ di quanto ci viene concesso, e non possiamo che decretare questo show come un evento stupendo ma speriamo non irripetibile.

Si arriva infine a quello che almeno per chi scrive è l’ultimo gruppo del festival, gli ormai enormi BEHEMOTH.
Non c’è letteralmente modo di arrivare in zona palco, da quanta gente è arrivata per la band di Nergal e soci, e ci accontentiamo di metterci praticamente all’inizio dell’area grande e vedere qualcosa dai megaschermi.
I Behemoth sono ormai un’istituzione che travalica il metal underground, sono diventati – anche grazie alle capacità imprenditoriali di Nergal – una macchina da soldi e da grandi numeri, e a occhio anche il Brutal inizia a essere un po’ strettino per i polacchi.
Ovviamente il concerto è professionalmente ai limiti del maniacale, con suoni perfetti ed esecuzioni chirurgiche, una prova che che sebbene ponga l’accento sull’incarnazione più recente dei Behemoth, spazia sapientemente attraverso diverse fasi della loro carriera. Insomma, forse manca il cuore, ma non la capacità, ai nostri, e la legione di presenti a supportarli lo dice chiaramente.
A noi, a dire il vero, non fa né freddo né caldo (anzi caldo forse sì, viste le fiammate che sparano continuamente) la prova di forza dei polacchi, e pur essendo estimatori dei lavori più vecchi, non ci sentiamo più troppo attratti da un concerto dei Behemoth oggi, ma va detto che questi signori sanno come si fa uno spettacolo.
Nergal è un capobanda notevole, sa come intrattenere il suo pubblico tra salite sulle costruzioni di palco, incitazioni, movenze da vere superstar, riuscendo a fare breccia nei cuori più giovani e anche in quelli più attempati.
Insomma, sicuramente un trionfo per una formazione che è riuscita a fare un salto inimmaginabile qualche anno fa per un gruppo con queste tematiche (seppure magari tagliate un tanto al chilo) e queste sonorità. Nergal ci dice che questo è stato il miglior concerto di tutto il tour, ma ormai siamo stati ingannati troppe volte da Bruce Dickinson per credere a una frase del genere, ma comunque i Behemoth escono tra applausi da vera Serie A.

Ci sarebbero ancora almeno due band che avremmo voluto vedere, ovvero WORM e DARVAZA, ma la sveglia e la dozzina abbondante di ore che ci dovremo sparare in auto il giorno dopo ci impongono di chiudere questa ventisettesima edizione del Brutal Assault, un’edizione che sulla carta ci sembrava un po’ meno attraente e che invece si è rivelata ancora una volta di grandissima qualità.
Il festival, tolti i concerti dei nomi enormi – quali appunto i Behemoth- è riuscito ancora una volta a farci vivere un’esperienza a misura d’uomo, con moltissime attrazioni, concerti a volte meravigliosi, altre volte facendoci conoscere nomi fuori dai radar, facendoci rivedere facce che girano per l’Europa a caccia di metallo come noi.
Una festa, prima che un festival musicale, che è diventato punto d’incontro imperdibile per l’estate del metallo e per cui non smetteremo di tessere lodi, finché queste sono le condizioni – musicali e di vita – a cui ci sottopone.
L’ultima sera finisce qui, cala il sipario con già i primi nomi a spuntar fuori per l’anno prossimo (a proposito di nomi ormai grossi, ci saranno i Gojira), un’ultima birretta e tutti in branda. All’anno prossimo, caro Brutal Assault!

 

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