Report a cura di Simone Vavalà, Chiara Franchi, Giovanni Mascherpa, Giuseppe Caterino, Giacomo Slongo e Fabio Meschiari
Eccovi il report della terza giornata del Brutal Assault 2019. Potete leggere qui il report della prima giornata di festival e qui quello della seconda.
Le conturbanti venature progressive e post-rock andate a impreziosire nel tempo l’operato dei THE CONTORTIONIST rappresentano un valido motivo per porre la massima attenzione allo Sea Sheperd, in un orario che, giunti al terzo giorno, diventa impegnativo per il fruitore medio del festival. Provano a facilitarci l’impresa gli autori degli apprezzati “Clairvoyant” e “Language”, album che hanno mandato in estasi gli appassionati di sonorità progressive metal moderne. La platea è ricettiva, anche se non particolarmente folta, mentre la band si destreggia leggera e concentrata nelle raffinate elucubrazioni di cui è da tempo protagonista. Si percepisce quanto di buono i Nostri siano in grado di offrire in termini di eleganza, cura per le dinamiche e melodia; la prova, tuttavia, è abbastanza fredda e poco energica e neanche la discreta prestazione del cantante Michael Lessard riesce a darle chissà quali impennate qualitative (GM). Confessiamo di aver dedicato mezz’ora del nostro Brutal Assault ai VUUR più per Anneke Van Giersbergen che altro. Aggiungiamo anche di aver avuto la netta impressione di non essere i soli, ad essere lì soprattutto per ascoltare quella voce. Non nascondiamo nemmeno che Anneke, col suo talento e la sua presenza solare si è dimostrata, di fatto, il vero valore aggiunto di questo progetto, altrimenti catalogabile come l’ennesima buona band melo-prog sulla piazza. Giusto per essere onesti fino in fondo: le vere emozioni del concerto sono state le cover dei The Gathering (CF). Gli ABORTED (esibitisi, ironia della sorte, proprio nel giorno in cui davanti alla fortezza sono ricomparsi i soliti antiabortisti coi loro demenziali manifesti) vanno dritti sul podio delle performance death di questo BA 2019. Capitanati da uno Sven de Caluwé decisamente in forma, fanno sguazzare il pubblico in una pozza di sudore, sangue e putrescenza varia con uno show energico e potente, tra i più divertenti di questa edizione. Segnaliamo il cammeo di Grimo dei Cytotoxin su “A Whore D’oeuvre Macabre” (CF).
Gli SLÆGT sono senza dubbio una delle grandi promesse del metal contemporaneo e dal vivo confermano di saperci fare. Con i loro brani offrono un perfetto amalgama tra le ritmiche classiche di Iron Maiden e Mercyful Fate (non a caso loro illustri connazionali) e le sonorità senza compromessi del black metal; Asrok è un frontman nato, e anche se lui e il bassista esagerano un po’ con le pose d’antan, i quattro ragazzi mostrano di avere in mano tutte le carte per una carriera fulgida. Nei pochi minuti a disposizione riescono peraltro a darci una riprova tangibile della loro evoluzione sonora, toccando pressoché tutti i lavori fin qui pubblicati, con finale dedicato all’ultimo singolo “Black Bombs”; un titolo che suona quasi come un manifesto d’intenti a cui i danesi tengono fede ottimamente (SV). Attraversiamo di corsa l’intera area del festival per assistere almeno parzialmente al concerto dei DESTRUCTION, e come sempre ne vale la pena. La band di Schmier gode di una ennesima fase di ringiovanimento con i nuovi innesti alla batteria e alla chitarra solista e, complice il nostro arrivo per l’esecuzione di “Betrayal” dal nuovo “Born To Perish”, possiamo constatare come le tetragone costruzioni della band teutonica non manchino mai il bersaglio. Scopriamo di aver perso l’iconica “Mad Butcher”, ma godiamo sul finale affidato a “Bestial Invasion”, un tributo dovuto a un passato glorioso e marcissimo (SV). Il death metal torna sul Sea Shepherd stage con gli IMMOLATION. Non c’è molto da eccepire sull’esibizione della storica band americana, che mostra di voler cavalcare ancora l’onda dell’ottimo “Atonement” con ben cinque estratti, ma ammettiamo che per qualche motivo non ci hanno particolarmente coinvolti. Probabile la colpa sia da attribuire principalmente alla resa sonora, non eccezionale, perché per il resto la qualità nella scaletta scelta – con il ripescaggio di brani anche dal seminale esordio “Dawn Of Possession” – e il vigore di Robert Vigna, Ross Dolan e compagni non sono mancati; peccato esserci allontanati dal palco con la sensazione di aver visto diversi concerti più convincenti (CF).
E le cose peggiorano a seguire. Si può essere fuori luogo dopo quasi trent’anni di carriera? È difficile, ma è il caso degli ANATHEMA, in programma di pomeriggio. Il Brutal Assault, a dispetto del nome, offre spazio anche a band non necessariamente estreme, ma la band dei fratelli Cavanagh riesce in ogni modo a fare un concerto mediocre e non centrato. La prima nota dolente è l’assenza ormai consolidata di Jamie al basso: il ricorso alla doppia batteria non sopperisce per nulla alle sonorità troppo eteree residue, e le pulsioni prog desiderate restano un vago sentore. La scaletta si concentra sugli ultimi anni, a parte “Fragile Dreams”, ma con molte incertezze esecutive, in primis da parte di Danny Cavanagh: appesantito e poco lucido, è una presenza puramente di facciata e strafottente; quando poi nel giro di un minuto lui e il fratello fanno una parodia del growl e apostrofano il roadie che sta provando la batteria sul palco in fianco con ‘fottuto metallaro’, è chiaro che non è serata. Perché il rispetto e la fama la band di Liverpool, al di là delle aspettative da Coachella o Glastonbury, lo deve proprio ai metallari; se oltre a suonare male decidi di inimicarteli, non resta nulla da promuovere (SV). Abbandonando in parte l’alone di mistero che li contraddistingueva, gli ZURIAAKE hanno intrapreso un’attività live abbastanza intensa, e la cornice dell’Octagon – preso decismanete d’assalto da un pubblico numerosissimo – sembra fatta apposta per loro e le loro sonorità. Spesso nascosto dietro cortine di fumo, il combo cinese alterna lunghi brani di black metal essenziale e insieme ipnotico, su cui si innestano qua e là momenti di discreta epicità. Sicuramente il look a base di mantelli e cappelli da apicoltore fa molto per garantirgli attenzione e merito ma, rispetto alle prime esibizioni risalenti a un paio d’anni fa, la confidenza con la dimensione live è diventata evidente (SV). Con gli HEILUNG usciamo dai canoni del concerto e sconfiniamo a tutti gli effetti nella performing art o, come loro stessi la definiscono, in una manifestazione di ‘amplified history of early medieval Northern Europe’. La ricostruzione dei rituali di un’immaginaria civiltà nordica fa rivivere allo spettatore il trasporto estatico della magia sciamanica, catapultandolo fuori dal tempo e dallo spazio per tutta la durata dello spettacolo. Una delle rivelazioni di questo Brutal Assault, da vedere assolutamente (CF).
Altrettanto imperdibili, gli EMPEROR. Mai rimpiangemo di meno i Dimmu Borgir, sostituiti da Ihsahn, Samoth e soci neanche due settimane dopo l’annuncio della loro presenza al BA. Il concerto è di fatto un rimaneggiamento del tributo ad “Anthems To The Welkin At Dusk”, già visto due anni fa: ancora una volta l’album viene riproposto nella sua interezza, stavolta in ordine differente dalla release, mentre la chiusura dello spettacolo ricalca quella di “In The Nightside Eclipse”. Sulla bravura dei musicisti c’è poco da dire (piccola nota: non c’è Einar Solberg dei Leprous alla tastiera), sulla portata del repertorio anche. Rispetto al 2017, c’è stata forse un pizzico di magia in meno nell’aria, come è quasi inevitabile quando si assiste per due volte allo stesso gioco di prestigio (CF). Il pazzesco ping-pong sui mainstage prosegue con gli ELECTRIC WIZARD, un must per chi non li ha mai visti e una piacevole conferma per chi ha già fatto esperienza di un loro live. Live come sempre intensissimo anche dal punto di vista fisico, con le ultime tracce che affondano nel cervello del pubblico, accordo dopo accordo, a volumi impossibili. La produzione è meno ricca di quella di due anni fa, quando la band si presentò al Brutal Assault con uno show da vedere oltre che da ascoltare, ma sebbene i visual siano senza dubbio una parte integrante delle loro esibizioni, la qualità del concerto non ne ha particolarmente risentito (CF). Attendevamo con impazienza lo slot dei PRIMORDIAL e purtroppo ci siamo trovati di fronte all’unico concerto (che ha visto chi scrive, quantomeno) nel quale i suoni fossero davvero insufficienti. Non sappiamo come mai, ma per almeno tre quarti dell’esibizione le atmosfere e il decadente romanticismo degli irlandesi sono stati vittima di chitarre che non partivano mai e di strumenti sbilanciati fra di loro. L’esibizione ne ha risentito, almeno all’inizio, laddove lo stesso Nemtheanga sembrava armeggiare con gli amplificatori mentre cantava. Peccato, vista una scaletta che ha visto i presenti salmodiare quasi tutti i brani immancabili come “Empire Falls”, “Where Greater Men Have Fallen” e qualcosina dall’ultimo uscito (“Nail Their Tongues” e la cantatissima “To Hell Or The Hangman”). Il sound si è ripreso verso la fine, ma ci ha lasciato solo parzialmente soddisfatti, pur senza voler additare responsabilità alla sentita prova della band (GC).
Dominick Fernow, unico titolare del progetto PRURIENT, visto giù dal palco, fuori dal contesto concertistico, potrebbe apparire quale un timido nerd, chiuso nel suo mondo, innocuo e placido. Aria dimessa, occhiale da intellettuale, non ce lo si immagina a sbraitare efferato, indemoniato, come fa quando sale sul palco. Il suo urticante monologo, ben lontano da alcune rarefazioni e camminate nella darkwave compiute nel mastodontico “Frozen Niagara Falls”, si divide fra i momenti in cui passa a smanettare con gli effetti e quelli dove afferra il microfono e quasi lo polverizza a forza di urla. La furia del ragazzo in questi frangenti è una delle cose più estreme che si possano ammirare da parte di un musicista, o rumorista che lo si voglia chiamare: un’aggressione fisica raggelante (GM). La riesumazione degli HELLHAMMER (sotto il monicker TRIUMPH OF DEATH) è senza ombra di dubbio uno degli eventi di questo (e pochi altri) festival, e il loro show non delude le aspettative. Fa un effetto strano sentire i brani di quei demo polverosi e ingenui, tanto in termini di produzione che compositivi, lucidati e rimessi a nuovo, ma l’esito è esattamente quello che da appassionati ci ripetiamo da anni: il metal estremo, e soprattutto il black, era praticamente tutto in nuce già nelle intuizioni giovanili di Tom G. Warrior. Questa sera il genio svizzero sembra particolarmente di buonumore: scherza su se stesso regalando in sequenza i suoi iconici ‘UH!’ anche nelle pause tra i brani, non risparmia siparietti molto anni Ottanta spalla a spalla con la bassista (e compagna) Mia Wallace, ma nulla di questo toglie un briciolo di potenza, cattiveria ed emozione al concerto. La sezione ritmica, costituita oltre che da Mia dal batterista Algol (Forgotten Tomb) è un tritasassi d’eccezione, e un visibilmente emozionato André Mathieu completa le scarne ma taglienti parti di chitarra di Tom. Ci sarà un motivo se i titoli di metà delle canzoni proposte sono stati adottati da certi musicisti norvegesi a metà anni Novanta? (SV) Per quanto galvanizzati da questo tuffo nel passato, arriviamo all’esibizione dei GODFLESH stremati dalla giornata e dall’orario, ma come rinunciare a una delle rare uscite di G.C. Green e Justin Broadrick? Quest’ultimo, arrivato con un volo in ritardo e già passato dal KAL per un’esibizione solista sotto il monicker FINAL, a differenza nostra non mostra segni di stanchezza: è un’ora di ipnotismo crudele, in equilibrio sui visual ossessivi, la drum machine dal suono che rimanda alle industrie di Birmingham e il basso tuonante e distortissimo che proprio Broadrick imbelletta con le sua chitarra satura e fuori controllo, oltre al cantato belluino e oppressivo. Una scelta perfetta come band della buonanotte, a patto di essere pronti ad incubi postatomici (SV).