A cura di Maurizio “MorrizZ” Borghi
In un periodo dove il calendario concerti è fittissimo d’appuntamenti non potevamo farci scappare il Beastfest, mini-festival itinerante che unisce i big del metalcore tedesco – Caliban e Maroon – alle migliori sensation deathcore made in U.S.A. – ovvero gli attesi e amatissimi Suicide Silence e i pesantissimi Emmure. Le carte in regola per un concerto coi fiocchi ci sono tutte, e pure il New Age di Treviso appare ben disposto ad accogliere il movimento.
AFTER THE BURIAL
Il primo gruppo a calcare le assi del palco sono gli After The Burial, provenienti dal Minnesota e con in carico un interessante debutto su Sumerian Records. Il genere comprende, ovviamente, l’immancabile miscela di metal e hardcore, ma i toni sono molto ribassati e la tecnica della formazione è notevole, con assoli intricati e passaggi tra Meshuggah e il progressive. Il missaggio pompa adeguatamente i suoni gravi senza sacrificare la tecnica dei musicisti, facendo esprimere al meglio questi esordienti molto validi. Nulla da recriminare insomma, come inizio non c’è male davvero!
EMMURE
A sorpresa dopo gli After The Burial sono gli Emmure ad esibirsi, forti del massiccio Felony e di sostenitori davvero scalmanati. Ci vogliono pochi secondi a scatenare l’inferno: basta infatti un breve cenno del frontman Frankie Palmieri per far volare calci e pugni nelle prime file, distanziando l’audience più pacifica di qualche passo. “Bars In Astoria”, “Felony” e “Sunday Bacon” sono perfette per la dimensione live, e la band sembra goderne compiaciuta ad ogni violentissimo breakdown, glielo si legge negli occhi. I nuovi ingressi aumentano visivamente la componente nu metal degli Emmure: vengono in mente i Korn nel vedere i movimenti sconnessi di Mark e Mike, che ingurgitano il groove dei primi 2000 e lo sputano sotto forma di deathcore pesantissimo. Il combo del Connecticut mantiene tutte le aspettative, peccato sia costretto a suonare per così poco.
MAROON
Era da tempo che non vedevamo i Maroon così motivati. I tedeschi sembra abbiano trovato nuova linfa nel girare con le giovani realtà statunitensi che sembrano impazzare davvero ovunque, o forse vogliono solamente far bella figura davanti ai giovanissimi fans accorsi per i Suicide Silence, gente che di magliette ne compra parecchie. Sta di fatto che il frontman Andre Moraweck regala da subito il 110%, e risulta anche incredibilmente simpatico nell’aizzare i presenti, che rispondono bene e si divertono per tutta la durata del set. Completamente rimossi gli sperimentalismi di “When Worlds Collide” i tedeschi pensano solo ed esclusivamente a picchiare duro, sfruttando i pezzi del nuovo “Order” come le migliori tracce dal repertorio. Una formazione ritrovata, che riesce di nuovo a trasmettere energia come non riusciva a fare da tempo.
SUICIDE SILENCE
Molti dei presenti hanno pagato il biglietto principalmente per loro: i Suicide Silence sono una delle icone del deathcore anno 2009, essendo riusciti a confermarsi sulla scena col nuovo album “No Time To Bleed”, che ha incontrato gli unanimi favori del pubblico. Se è vero che solo sul palcoscenico si può esprimere un giudizio compiuto dobbiamo ammetterlo: i Suicide Silence ci sanno fare. Una tenuta di palco eccellente per una formazione under 25 che macina death metal in maniera naturale come respirare, guidata da un Mitch Lucker su di giri e sempre ricurvo nelle sue pose plastiche e malefiche. C’è da segnalare, purtroppo, che la loro performance (e solo la loro) è stata affossata da un missaggio davvero sfavorevole per quanto riguarda le chitarre, a tratti quasi inudibili anche a bordo mixer. Voce e batteria sono in ogni caso ben presenti, e agli invasati che si dimenano sotto il palco, ragazzine comprese, pare non importar nulla, basta scatenarsi sulle famigerate “Bludgeoned To Death”, “Unanswered” e “Wake Up”. In una setlist concentrata e molto intensa trova spazio un saluto ai cugini Emmure, con tanto di passaggio di una loro canzone, per poi tornare al massacro, a testa bassa, fino alla conclusione con “No Pity For A Coward”, dove coralmente viene raggiunto il climax della serata, al grido di “Pull The Trigger, Bitch!”. Una band reale, non solo una macchina da merchandise. Stasera si è avuta la prova.
CALIBAN
Dopo un’aggressione tanto brutale la musica dei Caliban ha un sapore quasi ingenuo. Forse a causa dei predecessori, forse per un Andy più effeminato che mai sotto il suo caschetto emo, le strutture semplici e ripetitive dei tedeschi appaiono tutto fuorchè aggressive, e di certo i ritornelli melodici di Denis Schmidt non addolciscono la pillola. Dalla svolta attuata su “The Opposite from Within” è innegabile una lenta discesa nella qualità delle composizioni del gruppo, ma la loro forte etica lavorativa e il loro impegno costante in prolificità e tour li ha aiutati a mantenersi tra i gruppi che contano, almeno nell’Europa continentale. Lo show dei Caliban non ha sbavature di rilievo, scorre liscio dall’inizio, firmato dalla nuova “24 years”, alla fine. A dire la verità il frontman è davvero poco incisivo nell’esaltare il pubblico (“Siete venuti al concerto e avete pagato, allora perché non vi divertite e vi muovete per noi?”), a nostro parere è però la ricetta a mostrare i segni del tempo: non siamo davanti ai Killswitch Engage, se i Caliban vogliono sopravvivere è tempo di cambiare. Ora.