E’ un mercoledì sera di Maggio in pianura Padana, in un mese denso di concerti per il centro-nord; siamo nella settimana del tour di ben tre date italiane di Watain e Bolzer, carrozzone che si ferma proprio nella medesima sera novanta minuti più a sud.
Di converso, i Celeste sono passati per Bologna, in occasione del Dev Death Fest, non più di sei mesi fa. In un periodo in cui il panorama dei live è argomento scottante tra cancellazioni, dubbi sui costi ed eventi che sulla carta avrebbero dovuto funzionare ma si rivelano poi interlocutori per i numeri, ci dirigiamo verso il Factory di San Martino non sapendo esattamente cosa aspettarci: il locale è un club di capienza medio/piccola vicino alla città di Verona e si presenta, agli avventori, come una location con del potenziale per i live. Di sicuro non è uno dei tanti bar/pub riadattati in qualche modo in cerca di introiti utilizzando la musica dal vivo, e non è nemmeno uno dei tanti capannoni industriali messi in piedi alla bell’e meglio senza un progetto acustico e dei servizi adeguati.
Ogni concerto, per chi come noi li frequenta abitualmente, è anche occasione di ragionare sulle strutture della nostra musica preferita e, riguardo la location, il colpo d’occhio che il Factory riserva lo qualifica come una buonissima aggiunta alla lista – sempre troppo esigua – di location adeguate.
Attorno alle otto e mezza, puntuali come annunciato, salgono sul palco i DUIR, atmospheric black/folk metal band locale che abbiamo già avuto modo di vedere in quel del Tower Music Meeting a Vicenza qualche settimana fa. Nel locale al momento sono presenti non più di un paio di decine di persone, ma i nostri non sembrano curarsene più di tanto, visto che sfoggiano un’attitudine professionale e eseguono buona parte del disco autoprodotto “Impermanenza”, esempio di folk/black cantato in italiano.
La prestazione è buona, priva di particolari sbavature e anzi colpisce una certa compattezza live e la già citata – da parte nostra – cura nel look sul palco, dettagli che riescono a costruire un concept preciso (legato principalmente a fantasie e a stati mentali, quindi non le usuali valli e foreste del genere) e una identità almeno parzialmente differente dalle tonnellate di band dello stesso tipo. I suoni si rivelano fin da subito buoni, e la riprova è aver potuto apprezzare appieno gli strumenti folk suonati da Thomas Zonato, primi a soccombere di solito quando le rese sonore delle location sono inadeguate.
Dopo un cambio palco abbastanza rapido tocca ai DIE SÜNDE, anche loro veneti, dediti invece ad un nominale post-black tetro e angosciante. Sul palco la band evidenzia, a parer di chi scrive, poco black e molto post, visto che l’impressione globale è quella di una creatura che si muove in territori più vicini agli Amenra per poi sorprendere, ogni tanto, con delle sfuriate black metal. Sono l’assenza, la pausa, il vuoto fra le note i cardini della musica dei Die Sünde piuttosto che la presenza, la compattezza e la sovrabbondanza di suoni tipiche del black metal. Capiamoci: non stiamo parlando di un difetto, e sono proprio le rasoiate alternate ai vuoti a colpire profondamente l’ascoltatore, a nostro avviso; gli intermezzi senza distorsione, gli arpeggi di chitarra, i tempi riflessivi e le linee vocali spesso scandite sono vere e proprie pennellate che disegnano un ritratto oscuro, disperato e rabbioso di nome “Strega”, l’ultimo EP della band uscito ormai un anno fa. Prestazione assolutamente positiva e piena di personalità per una band da tenere d’occhio.
Verso le dieci, con il Factory che registra poco più di una ottantina di presenze, è il momento degli headliner, i francesi CELESTE. I nostri sono una band decisamente tenace, approdata solo ora su Nuclear Blast con il recente “Assassine(s)”; prima di esso comunque c’è un elenco sostanzioso di uscite più underground e una fila infinita di live in giro per l’Europa, a riprova che non è sempre da escludere a priori una lenta e progressiva crescita dei gruppi nel mondo rapido e sovrabbondante della musica liquida e dello streaming.
Anche se non possono essere annoverati tra i nostri preferiti, i transalpini sono una macchina ben rodata sul palco e lo dimostrano praticamente subito al Factory: la loro esibizione è quasi priva di pause e di interazione col pubblico, ma è strumentalmente coesa ed efficace. Nella scaletta si riconoscono facilmente i brani più importanti del recente disco, tra cui “Nonchalantes De Beauté” e “Des Torrents De Coupes”, suonati con un piglio decisamente post-hardcore, più che modern black metal, filone a cui spesso i nostri sono affiliati. A dir la verità c’è anche del death metal moderno e un po’ dissonante nelle radici della band di Lione, tutte sfumature che emergono pian piano e confezionano un suono pesante e compresso.
Curioso (da vedere almeno una volta in sede live) il gimmick ricorrente di ogni loro concerto: l’impianto luci rimane sempre sottoutilizzato, con le lucette rosse frontali di ogni membro della band a fendere l’oscurità: una scelta decisamente particolare ma che nel tempo li ha caratterizzati e li distingue tuttora da dozzine di altri gruppi simili. Chi scrive nel complesso ha sempre apprezzato la musica della band ma l’ha sempre trovata più propensa alla quantità che alla qualità, anche se l’album del 2022 mostra una perizia compositiva superiore rispetto al passato. Non avendo i Celeste un carnet di brani particolarmente dinamici da offrire (e una presenza sul palco alla lunga sorprendente, permetteteci), la setlist di non più di sessanta minuti è piacevolmente adeguata, con i nostri che poco dopo le ventitré salutano sbrigativamente i presenti, mettendo così la parola fine ad una bella serata estrema in quel di Verona, grazie anche alla location di valore e agli opening act professionali.