Introduzione di Giovanni Mascherpa
Report di Giovanni Mascherpa e Stefano Protti
Foto di murphyslavv (INSTAGRAM)
Sono diciannove anni che in uno sperduto angolo di Turingia, Germania, quasi ai confini con la Repubblica Ceca, va in scena un festival metal dal carattere speciale. Un luogo dove i generi – quelli ancorati alla tradizione – si mischiano e dialogano amabilmente, all’interno di un cartellone che fa convivere metal classico ed estremo, doom, post-punk, darkwave, nomi storici e giovani leoni.
Gli headliner sono generalmente compagini che hanno fatto la Storia del metal, ma non sono certamente diventati delle superstar internazionali col portafoglio zeppo di danari; appena sotto, una selezione attenta di talenti emergenti, realtà consolidate, band dal taglio eclettico, dal fascino arcano e misterioso, dato che di alcuni di costoro le informazioni sono rade e sporadiche.
Come Hell’s Pleasure prima – dal 2005 fino al 2014 – e ora come Chaos Descends, con le uniche interruzioni dovute al Covid nel 2020 e 2021, l’area naturalistica attrezzata di Ferienland nel piccolo comune di Crispendof, diventa allora durante la terza settimana di luglio l’epicentro di un vibrante terremoto metallico.
I numeri della manifestazione, nonostante la crescita di rinomanza della stessa, sono rimasti contenuti, perché il bacino d’utenza al quale si rivolge quello è, nonostante l’interesse per suoni classici ma ricchi di inventiva e passione come quelli qui offerti si sia negli ultimi anni consolidato; rimane quindi un festival, nel pubblico, a trazione teutonica, con gli stranieri molto limitati nei numeri.
L’area concerti e gli (spartani) servizi attorno, in rapporto ai presenti – quantificabili grosso modo in qualche centinaia di persone, ma onestamente non riusciamo a essere più precisi – è praticamente sterminata.
La zona dove si tengono gli show è un sogno, per chi ama assistere alle esibizioni vicino al palco in totale comodità: erbosa, con una parte di essa che resta in ombra grazie alla collinetta di fianco, circondata da stand alimentari e di abbeveraggio ridotti nei numeri ma assolutamente sufficienti e mai preda di lunghe code. Buono anche il numero di stand per vinili, cd e magliette, oltre a un tendone più grande dedicato al merchandise delle band, quello del festival e un’area drink/festaiola aperta fino alle quattro di mattina, per i più nottambuli.
L’area camping, come da tradizione per i festival tedeschi, è piuttosto grande e frequentata, chi ha l’abitudine di recarsi in Germania per manifestazioni simili sa bene che molti se ne stanno volentieri a gozzovigliare e oziare, distanti da dove si suona, per una larga fetta della giornata. Corollario gradito per gli animi fanciulleschi dei ruvidi metallari presenti, un trenino che compie un breve tragitto all’interno di Ferienland, passando anche di fianco ai palchi, contribuendo all’atmosfera festaiola e rilassata della rassegna.
Sul fronte meramente organizzativo è difficile trovare qualcosa che non funzioni: per chi non sta in campeggio, i parcheggi a bordo strada sono comodi e vicini all’entrata, la security è quasi assente data l’assenza di motivi per doverla rafforzare, l’ambiente è sempre disteso e gioviale.
L’offerta alimentare è tutt’altro che ampia, va detto, ma si sta pur sempre parlando di un festival che non ha alcuna intenzione di diventare enorme o di avere chissà quale apertura internazionale: pertanto, per quello che sono le esigenze di chi lo frequenta, va bene così.
Dal punto di vista musicale e della cura per quanto avviene sugli stage, anche qua nulla da eccepire: problemi tecnici grossi non se ne sono registrati, qualche inconveniente minore è stato in qualche maniera contenuto e i ritardi avvenuti – pochi per la verità – sono stati compensati con lievi slittamenti di orario di chi è venuto dopo. Tanto, andare a letto una mezz’ora prima o dopo, in tali occasioni, non è che faccia poi così tanto la differenza!
GIOVEDÌ 18 LUGLIO
Il pool stage, ovvero il fondo di una piscina abbandonata, in mezzo ai boschi della Turingia; gli strumenti e gli amplificatori posti a metà vasca; in un angolo, casse di birra e bibite, a mo’ di bar, un banchetto del merch improvvisato a fianco. Poche le luci, ma ce ne accorgeremo solo con l’avanzare della sera.
Il Chaos Descends Festival inizia così, in modo suggestivo e spartano allo stesso tempo, con i NUBIVAGANT, che, tra le numerose incarnazioni di Gionata Potenti (alias Omega), polistrumentista e volto noto del metal italiano e non (Chaos Invocation, Darvaza, Frostmoon Eclipse, tra i tanti progetti come titolare o collaboratore), è sicuramente una delle più accessibili.
Coaudiuvato da un batterista, Omega propone un set che pesca dai due album (il debutto “Roaring Eye” e “The Wheel And The Universe” del 2022), in un crescendo emozionale e melodico che ricorda quello dei Warning di Patrick Walker in versione black metal e, a tratti, l’epicità malinconica dei Primordial, il tutto opacizzato da un fondo depressive black metal che qui appare più denso rispetto alla più recente prova discografica, e che nel contesto del festival, non manca di affascinare (Stefano Protti).
Pur essendo attivi da quasi dieci anni, I CH’AHOM sono riusciti a pubblicare solo recentemente il proprio album di debutto (“Knots Of Abhorrence”, edito da Sentient Ruin nel 2023) rivelandosi al pubblico con una proposta musicale capace di mantecare il death/black asfissiante dei Grave Miasma (di cui si parlerà in seguito e con soddisfazione nel presente report) con una vasta gamma di influenze folk, ispirate alle tradizioni di antichi popoli mesoamericani quali Aztechi e Maya. Ogni possibile sospetto derivante dalla differenza tra il sound generato e l’origine del gruppo (la ridente Essen, Germania) viene cancellato sin dalle prime note di “Xibalba”, con il cui feroce afflato tribale apre un rito propiziatorio in grado di procedere senza sosta per cinquanta minuti di grande coinvolgimento, stemperato solo saltuariamente da frammenti death-doom e intromissioni tribali (“Knots of Abhorrence I”).
Un plauso agli organizzatori, per aver compreso quanto questa proposta musicale anelasse una così suggestiva ambientazione come quella offerta dal pool stage, mentre il consiglio ai lettori è quello di andare a curiosare nella pagina Bandcamp della band, che contiene una buona selezione dei demo che hanno preceduto l’esordio (Stefano Protti).
VENERDÌ 19 LUGLIO
Sotto un sole caldo, con una temperatura che starà sfiorando i trenta gradi circa, sono i canadesi REVERSED e il loro altrettanto focoso black/thrash ad aprire le ostilità di giornata: autori di un apprezzabile esordio quest’anno con “Wildly Possessed”, la band può vantare in line-up il medesimo duo Cam Mesmer-Al Lester alla guida dei più rinomati e lanciati Spell.
Con qualche trucco sul volto a sottolineare il carattere malvagio e selvaggio della proposta, i quattro vanno via dritti per la loro strada senza grandi concessioni a nulla che non sia aggressione, rabbia e malignità di grana grossa. Le derivazioni dal primo thrash metal ottantiano e dal proto-black metal sono facili da cogliere e non c’è da parte dei musicisti chissà quale rielaborazione di quei contenuti, ma sul palco quel che conta è la concretezza e in questo i Reversed non sfigurano affatto. In fondo il loro assalto non è così monocorde come potrebbe sembrare inizialmente, un minimo riescono a giocare con le atmosfere e le sottolineature macabre, iniettando adrenalina e morbosità in egual misura.
Si vede che ci sono esperienza e sfrontatezza a supportare le loro idee e davanti a un pubblico fattosi sempre più partecipe nel corso dell’esibizione la mezz’ora abbondante in loro compagnia si rivela un primo, piacevole, assaggio del ricco menù di giornata (Giovanni Mascherpa).
Di ben altra pasta ciò che ci viene messo gentilmente a disposizione dai WHITE MAGICIAN.
Ancora decisamente poco noti in terra europea – non che negli Stati Uniti abbiano chissà quale notorietà, si intende – i Nostri se ne sono usciti nel 2020 con un piccolo gioiello che solo l’underground più libero da costrizioni sa produrre. Il loro “Dealers Of Divinity”, unico full-length edito finora, rielabora sapientemente NWOBHM, il romanticismo dei Thin Lizzy, echi di rock più datato e indole progressive in canzoni traboccanti sentimento e un idealismo metallico raro da ascoltare oggigiorno.
Sul palco potrà esserci qualche lieve sbavatura qua e là nel cantato non sempre imbeccabile del comunque bravo The Great Kaiser – anche chitarrista – ma una volta che si rimane intrappolati dalla rete di complessi passaggi strumentali, non si potrà più fare a meno di brani come “Magia Nostra” e “Mad Magic II: In the Absence of Gods (Bad Magic)”.
Pittoreschi anche nell’outfit uscito da un’altra epoca – su tutti il mantello del baffuto bassista Mofang Tengrand – i White Magician non tradiscono le nostre attese e suonano con crescente trasporto una selezione di canzoni dall’esordio, incantando per il mix di tecnicismo e feeling e l’evocazione di atmosfere realmente magiche e fuori dal tempo. Qualcuno che ha già assimilato il loro operato canta veementemente i ritornelli più semplici, sintomo che la scelta di averli in questo contesto era più che legittima. Un primo acuto (Giovanni Mascherpa).
I RAZE testimoniano, se mai ce ne fosse bisogno, quanto i metallari tedeschi abbiano a cuore la propria scena locale, anche quando, come in questo caso, parliamo di una formazione che non ha ancora fatto uscire nulla di ufficiale: per il trio di Berlino la discografia annovera infatti finora soltanto un demo di neanche un quarto d’ora uscito in digitale lo scorso anno, eppure non ci stupiamo di vedere le prime file piuttosto agguerrite quando la band arriva sul palco.
Chitarrista e batterista militano negli Occvlta, doom/black metal band con un disco all’attivo, mentre la cantante/bassista Liv ha fatto parte dei Maggot Heart: insomma, non sono alle prime armi.
La carica sfrontata della frontwoman ci mette niente a catapultarci nei reami sudati del thrash più oltranzista di Destruction, Kreator, Sodom, Holy Moses, con questi ultimi ben vicini ai Raze in virtù della voce femminea al vetriolo e di un approccio ruvido ai limiti di certo hardcore vecchia maniera. La concitazione e il divertimento scorrono a fiumi come le birre ingollate da una larga fetta del pubblico, complice una proposta che sfreccia a mille all’ora e brucia la pelle per il suo carattere iracondo e le strutture semplici e dirette.
Il materiale a disposizione è ancora pochino e il concerto si limita a una mezz’oretta vissuta nella baraonda, tra moti sussultori vintage, riff sporchissimi e un tiro micidiale, grazie anche a un batterista che per foga e potenza surclassa tanti diretti concorrenti in ambito thrash. Una bella mazzata (Giovanni Mascherpa).
Per gli SPELL ammettiamo di avere i livelli di trepidazione piuttosto alti: l’ultimo “Tragic Magic” ci ha spiazzato e sconvolto quando lo abbiamo incrociato e l’approfondimento di tutto quanto partorito in questi anni dal giovane act canadese ci ha convinto che sì, siamo di fronte a qualcosa di più ingombrante di una ‘buona band’.
Il pomeriggio di Ferienland ci conferma che gli Spell sono veramente di un’altra categoria, dando un’interpretazione unica dell’heavy metal, facendo riecheggiare per la campagna tedesca il loro apparentemente impossibile equilibrio di metal classico, post-punk, synthpop, dark rock.
Cam Mesmer a basso e voce è frontman carismatico e preciso nelle sue parti ed è ovviamente la sua voce flebile e mutevole, spesso virata a un sottile e sentimentale falsetto, a farla da padrona. I sintetizzatori che così bene dialogano con le chitarre su disco non vengono fortunatamente sotterrati dal vivo, anzi, grazie a scelte di suono che magari sacrificano un poco la potenza, ma lasciano spazio libero per le effusioni più dolci del gruppo, il loro aggraziato e variopinto dipanarsi si percepisce benissimo. A occuparsene il chitarrista Gabriel Tenebre, uno che sembra uscito da una vecchia formazione dei The Cure.
La scaletta mette in fila un highlight dopo l’altro, pezzi come “Fatal Breath”, “Ultraviolet”, “Fever Dream” sono già piccoli classici, e pazienza se, rispetto ad altre esibizioni, il pubblico non è granché fitto e, forse, è un po’ smarrito da uno stile così particolare e non esattamente roboante. Spicca l’ottima esecuzione di “A Waxing Moon Over Babylon” dei The Devil’s Blood, recentemente edita in un 7” in compagnia dei connazionali Pøltergeist; i ragazzi nordamericani sono dei fanatici della compianta creatura di Farida e Selim Lemouchi e il loro omaggio è davvero eccellente. Speriamo di rivederli ancora, con maggior minutaggio a disposizione e una scaletta ancora più ricca (Giovanni Mascherpa).
E poi arriva MARTHE, o meglio arriva Marzia Silvani, cantante e polistrumentista che sul palco del Chaos Descends è già salita, qualche anno prima, con la compagine dark rock/post-punk degli Horror Vacui (di cui consigliamo almeno il più recente “Living For Nothing”).
Fresca di un prestigioso contratto con la Southern Lord per l’album “Further In Evil”, la one-woman metal band si presenta per l’occasione live (la prima in assoluto e unica dell’anno) in forma di quintetto, coaudiuvata, tra gli altri, da amici e collaboratori provenienti dalla crew di Agipunk Records.
I problemi tecnici che, poco dopo l’inizio del concerto, affliggono le chitarre finiscono per affievolire la componente melodica delle canzoni, riducendo le influenze gothic-doom, ed esaltando una marzialità che in alcuni punti, per un suono più saturo e aggressivo che su disco, ed il tono declamatorio della vocalist, rasenta il cipiglio industrial ed il tono declamatorio dei Godflesh.
Curiosamente, questo inconveniente non mina in alcun modo l’emotività dei pezzi, regalando ai presenti una prova di grande potenza, illuminata dal sorriso raggiante della performer, che, data la (notevole) folla accorsa all’evento, non potrà certo più dire “I Ride Alone” (Stefano Protti).
Mentre le tenebre provano in qualche maniera a prendere il posto delle ore di luce, tocca ai GRAVE MIASMA accelerare il processo portando quella sana dose di morte e putrefazione agognata un po’ da tutti.
I londinesi sono di fatto i grandi ospiti di questa edizione, avendo a disposizione due set, quello del venerdì per una scaletta basata sui primi due EP “Exalted Emanation” e “Realm Of Evoked Doom”, quello del sabato dedicato a “Odori Sepulcrorum”. La truce proposta degli albionici non ha subito radicali modifiche negli anni, ma l’impronta stilistica è andata in ogni caso a evolversi da una pubblicazione all’altra, per cui si può dire che si vedranno nell’arco di ventiquattrore due prestazioni simili ma un po’ differenti l’una dall’altra.
Per il venerdì, abbiamo una rappresentazione più ruvida, serrata e sprezzante del death metal venato di arie black metal per il quale il quartetto è da tempo tra i migliori interpreti di settore. È tutto un ribollire di cadenze pressanti, urla atroci, ritmiche selvagge, ciò che arriva dallo stage, con i musicisti che si limitano a suonare torvi e preparati insane tortuosità come “Gnosis Of The Summon” e “The Tomb Is My Altar”. Uno show soffocante, che alterna implacabili parentesi monocorde prossime al puro war metal, e passaggi più tecnici e spiazzanti, in un concatenamento di suoni che non dà mai un attimo di riposo, se non nelle concise pause tra i vari capitoli della scaletta. Schiaccianti (Giovanni Mascherpa).
Eccoli qua, i SATAN, eroi della NWOBHM più proletaria, uno dei suoi fiori più robusti e splendenti, uno di quelli invecchiato meglio, che dalla reunion del 2011 in avanti ha sfornato album uno più bello dell’altro, entrando in una seconda giovinezza che al momento non pare volersi interrompere.
In programma c’è una scaletta basata sul capolavoro d’esordio “Court In The Act” e gli inglesi, miracolosamente ancora con la formazione tipo degli albori, attaccano subito con il colpo da infarto “Trial By Fire”, canzone resa celebre dalla bella cover dei Blind Guardian, che la rifecero in modo molto fedele all’originale.
I Satan erano e sono una delle conformazioni più moderne di tutto il movimento del primo metallo inglese, capaci fin dal principio di suonare con una velocità, una distorsione e una pesantezza che il grosso dei coetanei dei tempi si sognavano.
Ancora più miracolosamente, possiamo affermare con serafica certezza che questi quarant’anni e passa trascorsi da “Court In The Act” ad oggi, sul piano musicale, non abbiano lasciato scoria alcuna su Brian Ross e compagni. Il viaggio nel tempo assume connotazioni irreali, tanta è la furia e la precisione che pervade tutti e cinque, mentre Ross, vero working class hero con la sua voce per nulla corrosa dall’età, la pancia prominente e una capigliatura folta e dal taglio anacronistico, ci esalta con un’interpretazione eccellente. I suoi convenevoli a base di salace humour inglese fanno piacere e permettono di ricaricare le pile quanto basta per suonare, in ordine rigoroso, tutte le tracce dell’esordio.
Da fuori di testa, veramente, “Break Free”, speed metal quando ancora il termine non lo si utilizzava, affrontata a ritmi perfino superiori della versione in studio. La risposta degli avventori è all’altezza di cotanta magnificenza e, dopo una roboante “Alone In The Dock”, è tempo per i bis, conclusi con preistorica “Kiss Of Death”, dal primo singolo degli inglesi. Qui gli argini si rompono definitivamente: un’apoteosi di cori e controcori, per terminare un concerto fenomenale per questi vecchi ma ancora energici campioni dell’heavy metal (Giovanni Mascherpa).
Assistere ad un concerto degli svedesi SATURNALIA TEMPLE è un’esperienza difficile da descrivere a parole, e si ha l’impressione che qualcuno (l’organizzazione o il gruppo stesso, non si sa) preferisca porre questo tipo di suoni a chiusura di una faticosa (e calda) giornata di concerto.
Mentre siamo ancora alle prese con lo stupore e l’entusiasmo per lo straripante show dei Satan ci troviamo, insieme ad uno sparuto gruppo di sopravvissuti, appoggiati alle transenne, con il leader Tommie Eriksson che si gusta tranquillo il soundcheck, prima di inondarci con un’ora piena di doom rutilante pesantemente influenzato, nell’andamento e nel salmodiare reiterato, dal blues e dagli Sleep.
Forte di un set che può permettersi di pescare da una discografia ormai nutrita (si segnala la presenza di un estratto dal debutto “Aion Of Drakon”, del 2011) e di una line-up rinnovata per due terzi che comprende ex membri degli In Solitude, i Saturnalia Temple riescono a coinvolgere i presenti con uno stile leggermente più ruvido e dinamico rispetto a quello mostrato su disco, con un incedere che può far pensare ad una band krautrock, mondata da qualsiasi orpello elettronico.
A dispetto della musica, Eriksson si dimostra un performer dal carattere solare e affabile, un perfetto compagno di bevute, per una serata protrattasi piacevolmente oltre il previsto.
Nessun rituale di liberazione, insomma, solo un lungo mantra stoner-doom, a ripagare delle fatiche della giornata. E va bene così (Stefano Protti).
SABATO 20 LUGLIO
Con i TAV osserviamo l’unico grossolano errore di valutazione del festival, e non ci riferiamo ovviamente alla proposta musicale della band tedesca, e al suo raffinato post-rock atmosferico ricco di venature dark, quanto alla scelta di porre questi suoni sul palco in apertura del terzo giorno, in pieno pomeriggio, sotto un sole affilato che mostra poca considerazione per titoli come “Snow Upon Our Graves” o “A Beggar’s Dream Of Death “.
Peccato, perchè il quartetto di Monaco dal vivo sembra confermare le buone impressioni offerte dall’ascolto del debutto omonimo del 2020, grazie alla capacità di mescolare elementi del post-metal romantico di Sólstafir e soprattutto Alcest (che emergono chiaramente nelle linee vocali, con pezzi come “Boundless Gaol”) con le atmosfere plumbee dei The Cure di “Faith”. Da risentire, in ogni caso, in condizioni più consone alla loro musica (Stefano Protti).
Dalla quiete alla tempesta: non atmosferica, per fortuna, mentre il cambio di registro tra le raffinatezze degli opener di giornata e la stralunata devianza di chi arriva in seconda posizione è netto.
I VORTEX OF END trasudano concetti di barbara e intransigente violenza come i più noti connazionali Antaeus e Arkhon Infaustus, affiancando ad essi un lavoro chitarristico e ritmico saltuariamente più vario e controllato, non scontentando quindi anche gli amanti di un pizzico di atmosfera. Ma, come il trucco insanguinato fa presagire, è soprattutto nell’assalto all’arma bianca che i quattro danno il meglio.
Forsennati, intensi, inclini ad accelerazioni pazzoidi ma con un minimo di ordine a tenere il caos al guinzaglio, i francesi danno vita a un set forsennato, una vera e propria dichiarazione di guerra. Gli sguardi minacciosi e il portamento da belve predatrici fa il resto, per un gruppo che non mostra alcun distacco dall’uditorio, ma sembra quasi cercare lo scontro fisico con chi ha davanti.
È ancora presto, fa addirittura più caldo del giorno prima e il colpo d’occhio non è sicuramente fenomenale, per chi sta suonando. Eppure, poco per volta, il torpore che pervade ancora buona parte del pubblico va a scomparire. Solidi, selvaggi e con un pizzico di fantasia a oliare i meccanismi, i Vortex Of End portano a casa il risultato con pieno merito (Giovanni Mascherpa).
Altra ventata di metal classico, con gli americani DEMON BITCH.
Si tratta in pratica dei White Magician sotto altro nome, perché la line-up è quasi identica, con qualche variazione di ruolo per i singoli interpreti: l’elemento più rilevante in questo risiko è il passaggio di Logon (nei White Magician si fa chiamare Mofang Tengrand) dal basso alla voce. Si tratta la sua di una vocalità alta e acuta, in perenne insistenza sulle note alte, capace di richiamare il metal progressivo statunitense più datato, quello di Fates Warning e Crimson Glory.
La musica va in quella direzione, mantenendo analogie con i White Magician, pur avendo un taglio più classicamente metal e ritmiche più urgenti. I brani, presi dall’esordio “Hellfriends”, un paio di inediti e ripescaggi dei primi demo, scorrono al galoppo e con tanti piccoli incisi a plasmare la particolare idea di progressive dei cinque.
Le elaborate composizioni dei Demon Bitch e la concitazione dei fraseggi non rendono la musica dei ragazzi di Detroit molto facile da assimilare, almeno per chi non è uso a queste sonorità. Poco male a nostro avviso, perché nel tempo a disposizione, come accaduto per il gruppo ‘gemello’, è impossibile non apprezzare qualità compositive e strumentali nettamente sopra la media. Mettiamo pure quanto sia difficile oggigiorno ascoltare un tale connubio stilistico dal vivo, e avrete chiaro perché i cinque di Detroit abbiano rappresentato una vera leccornia per gli amanti di suoni classici parecchio ricercati.
Rimaniamo in attesa allora del secondo full-length, che dovrebbe giungere entro la fine del 2024 (Giovanni Mascherpa).
GEVURAH, secondo la cabala, è uno dei modi primari di agire di Dio, ovvero il rigore e la severa responsabilità. Fedele al nome che si è scelto, il duo canadese (sul palco, per ovvi motivi pratici, un quartetto) inscena un rito black metal feroce e liberatorio, fiottante sangue come quello che copre vestiti e pelle dei musicisti impegnati nella performance.
Con un discorso musicale difficile quasi quanto su disco, la band si contraddistingue per brani dalla struttura arcigna, frequenti cambi di tempo, e rarissime concessioni alla melodia, richiamando alla memoria i Misþyrming degli esordi in versione più oltranzista. La loro musica è l’ideale colonna sonora per un campo di battaglia tra eserciti entrambi convinti di avere il creatore dalla propria parte, soldati sicuri di non poter perdere e rassegnati nel non aver più nulla da perdere, una visione da cui si emerge, tre quarti d’ora dopo, spauriti e stremati, posseduti da una profonda angoscia. In questo senso, missione compiuta (Stefano Protti).
Chi non ha alcun interesse a trucchi, scenografie, pose da cattivoni, sono i DROWNED: i deathster tedeschi puntano solo ed esclusivamente sulla musica, quando c’è da andare in scena, e lo fanno con il fare asciutto, crudo, essenziale che ne permea da sempre l’operato.
Il loro death metal è ancorato a suoni e schemi novantiani, riletti in modo personale, andando a costruire brani che pur essendo grevi e pesanti si spostano sovente su ritmiche e atmosfere più subdole e non esplicite. Siamo dalle parti di quel fare assieme marziale e ieratico di un gruppo come i Necros Christos, del quale il chitarrista Tlmnn ha fatto parte in passato, così che stacchi più quadrati e ritmati si danno il cambio a fughe verso un’oscurità più astratta e meno afferrabile. Concentrati, quasi ignari di chi abbiano davanti a sé, il trio procede nella sua opera di distruzione ed evocazione alternando il materiale di “Idola Specus” e “Procul His”, distanti dieci anni ma esprimenti idee pressoché analoghe. Il modo asciutto ed asettico col quale si pongono non è sicuramente l’ideale per far avvicinare chi abbia poca dimestichezza con i loro suoni, alla band questo evidentemente nulla importa e non fa nulla per creare spettacolo. La musica parla da sé e il tempo in loro compagnia scorre bene, nonostante non li si possa mettere tra i punti esclamativi della tre giorni (Giovanni Mascherpa).
Inseriti per ultimi nel programma, a causa della defezione dei cileni Communion, gli HELLBUTCHER sono degli esordienti solo sulla carta.
Guidati da un eroe underground dalle fattezze caricaturali, colui che dà il nome al gruppo e frontman di quelle leggende minori dei Nifelheim, gli svedesi devono confrontarsi con il primo, vero, grosso inghippo tecnico del Chaos Descends. Non capiamo bene cosa stia accadendo sul palco, ma l’ora di inizio arriva e l’armeggiare di tecnici e musicisti pare non volersi fermare. E si andrà avanti per altri venti minuti buoni, con l’idea che a questo punto la performance venga irrimediabilmente compromessa.
Invece, una volta partiti, pur con qualche rumoreggiare fastidioso dalle spie – udibile a dire il vero solo nelle pause tra un pezzo e il successivo – i cinque, dalle parvenze che più ‘true & evil’ non si potrebbe, vanno a soddisfare i sogni afrodisiaci di chi è cresciuto a pane e black/thrash. Musica sì dei primordi, ma raffinata quanto basta per avere una sua viziosa orecchiabilità, quella che ha già permesso all’esordio omonimo, uscito solo qualche mese orsono, di diventare una delle uscite più apprezzate del 2024. Non c’è nulla fuori posto e tutto mira ad esaltare l’animo fanciullo degli spettatori, per uno degli show più partecipati e coinvolgenti della tre giorni.
“Violent Destruction”, “Death’s Rider”, “Satan’s Power” fanno fremere di headbanging, cori spontanei e nostalgia, con Hellbutcher gran maestro di cerimonie nel suo completo di borchie e pelle che lo fascia per intero. Divertimento e qualità musicali vanno a braccetto, fino alle ovazioni raggiunte con irrisoria facilità per le due cover di “Die In Fire” dei Bathory e “Black Metal” dei Venom. Non ci sono neppure tagli in scaletta, gli Hellbutcher suonano tutto quanto previsto, per la gioia di grandi e piccini (Giovanni Mascherpa).
Rieccoci allora ai GRAVE MIASMA, per un altro set serale, stavolta dedicato integralmente al loro primo album “Odori Sepulcrorum”. Non cambia il modo in cui i quattro si presentano e officiano la loro musica, mentre è possibile apprezzare il cambio di passo in termini stilistici avvenuto tra i primi due EP e il full-length che all’epoca ne allargò sensibilmente la nomea sulla scena.
In confronto all’unidirezionalità degli EP si possono godere passaggi doom pronunciati, dinamiche di più ampio respiro e una complessità strutturale notevole. Ne giova l’apprezzamento e la sostenibilità complessiva per tutto il pubblico, che non è soltanto scosso da un assalto forsennato, ma può immergersi pienamente e con maggiore calma nelle atmosfere dannate e soffocanti di questo tipo di death metal speziato di arie black metal.
Le canzoni sono suonate accuratamente in ordine come su disco, precise, torbide e densissime, baciate da una prestazione vocale peculiare, molto sentita e piuttosto univoca in questo panorama di suoni. Un incantesimo di morte e dannazione, quello dei Grave Miasma, perpetrato attraverso brani divenuti simbolo del death metal degli anni ’10 quali “Ovation To A Thousand Lost Reveries” e “Seven Coils”, suonati in maniera perfetta e inesorabile. Una sfrontata espressione di forza (Giovanni Mascherpa).
Headliner dell’ultimo giorno, i VOIVOD rappresentano una sorgente di genialità che sa mettere d’accordo un po’ tutti, da chi predilige un’idea ferrea e ostinatamente vecchia scuola del metal, a chi guarda perennemente oltre l’orizzonte.
In questa occasione si va alle radici, con una scaletta incentrata sui primi cinque album, da “War And Pain” a “Nothingface” e nulla oltre quel confine. Come accaduto per i Satan la sera prima, c’è un senso di eternità e immortalità a invadere il Chaos Descends. Felici di presentarsi in un contesto così devoto al metal old-school, Snake e compagni sono tutto un sorriso dinnanzi a una folla festante e scatenata, che in più di un’occasione si dà anche a un minimo di mosh, all’altezza delle fasi più movimentate e dirette. Già dall’avvio di “Killing Technology” capiamo che siamo dalle parti di una ‘notte magica’, i quattro stanno benissimo e la spavalda intricatezza del brano va immediatamente a far muovere le prime file, che altro non aspettavano per fare del moto.
Il vecchio repertorio voivodiano, dal vivo, gode di una rilettura a dir poco brillante, perché se le versioni originali in studio avevano una produzione piuttosto grezza e per nulla rifinita, live le dettagliatissime striature sonore di quei brani sono esaltate dallo straordinario talento strumentale e dalla foga dell’attuale line-up. La prima parte di scaletta si concentra su materiale intricato e progressivo, con “Tribal Convictions”, “Forgotten In Space”, “Macrosolutions To Megaproblems” a mandare in estasi la platea, in parte in preda ai ritmi vorticosi, in parte quasi attonita per la feroce precisione con cui i Voivod stanno suonando. Il gruppo tra l’altro si lascia andare anche nei movimenti e nella partecipazione emotiva, energico e solare nelle pose e guidato da uno Snake in ottima forma vocale e abile intrattenitore nelle pause.
La seconda metà concerto va a riesumare i primordi thrash di “Thrashing Rage”, “Nuclear War”, “Condemned To The Gallows”, facendo ardere di ancora maggior passione gli animi devoti ai suoni datati. Si accendono piccoli focolai di baraonda, prima di un paio di bis, prevedibili e graditi. Prima la cover dei Pink Floyd “Astronomy Domine”, quindi il netto stacco per la bruciante “Voivod”, suggello a un concerto memorabile delle leggende del Quebec (Giovanni Mascherpa).
Tocca ai PAKKT il difficile e affascinante compito di post-headliner e chiusura definitiva del Chaos Descends: compito difficile perché a questo punto le presenze calano, affascinante perché l’ultimo concerto, ormai nella notte, ha sempre un suo fascino particolare.
E i blackster tedeschi, per rendere speciale l’avvenimento, adornano il palco con la stessa meticolosità, cura e abbondanza che potrebbero avere gente come Cult Of Fire e Batushka. Il cantante si presenta nella veste di santone/sacerdote, brandendo un turibolo e lanciando qualche fiotto di sangue – finto – sulle prime file, ripetendo poi tale gesto in altri momenti del concerto.
Musicalmente, siamo in presenza appunto di un black metal ruvido, elementare e molto velenoso, tardo ottantiano/primi ’90, nell’ala tradizionale ed essenziale del settore, con qualche divagazione teatrale, più presente nelle escursioni vocali che non nelle interazioni strumentali, inclini a non andare troppo fuori dal contesto di partenza. Quanto esposto, preso dall’unico disco edito finora – “To Brocken Heights Where Witches Dance” del 2021 – è buono ma non miracoloso, guadagna spessore e carattere perché la band a quello che fa ci crede parecchio e sa sopperire a qualche deficit creativo con un senso per le atmosfere mefistofeliche assai pronunciato.
La notte li aiuta nell’aumentare di attrattiva una prestazione che magari, in altri orari, sarebbe stata considerata più ordinaria. Detto questo, i Pakkt non sfigurano affatto e danno un’ultima scudisciata alle nostre orecchie già ben provate. Un finale più che gradevole, per un festival che merita sicuramente la positiva nomea guadagnata negli anni (Giovanni Mascherpa).