Introduzione di Giovanni Mascherpa
Report a cura di William Crippa e Giovanni Mascherpa
Una delle ‘merci’ d’esportazione di maggiore valore proveniente dalla Norvegia, di questi tempi, è il progressive metal. In forma pura, bastarda, classica, estrema, il prog arriva dalla terra dei fiordi a grappoli di band più o meno giovani, più o meno famose, ostentando un controllo della situazione e un disegno complessivo il più delle volte maledettamente interessanti. Da questa zona della Scandinavia sembra che i musicisti di carattere, idee brillanti e armati di tecnica d’alto profilo abbondino e amino compenetrare un’ineccepibile scorrevolezza d’insieme ad accostamenti dai colori accesi e infiammati di un’inesauribile energia di fondo. A testimonianza di quanto appena detto vi sono le ultime mosse discografiche di Divided Multitude e Circus Maximus (curiosamente in tour prima della release del nuovo “Havoc”), che in questo inizio di marzo hanno unito le forze per confezionare un tour all’insegna di suoni cerebrali, levigati, tendenti alla perfezione formale ma aperti a una sensibilità emotiva toccante e alla passionalità dell’heavy metal verace. Fra le tre date italiane, siamo riusciti a presenziare alla prima in ordine di tempo, quella del Colony, in un venerdì sera che ha visto una partecipazione accettabile visto il regime ancora underground di entrambe le compagini in partita. Nel collaudato locale bresciano, anche quando ci sono numeri dignitosi, come in questo caso, si arriva a perdere la cognizione delle presenze a causa delle ampie dimensioni del posto, ma crediamo che un centinaio circa di persone ci sia stato a divertirsi assieme a due dei migliori gruppi prog del momento. A conti fatti, pensiamo che, visto il valore delle esibizioni, siano tutti tornati a casa con un sorrisone a trentadue denti stampato in faccia!
DIVIDED MULTITUDE
Fa specie constatare che con l’ultimo album omonimo, uscito a dicembre e recentemente celebrato anche sulle nostre pagine come una delle uscite progressive migliori del 2015, i Divided Multitude siano giunti al venerando traguardo del quinto full-length. Passando però un po’ inosservati fuori dalle ristrettezze della scena prog moderna. L’occasione ci è gradita per osservare la maturità raggiunta dai cinque, approdati recentemente a un suono che non si discosta bruscamente da chi ha forgiato il genere negli Anni ’90 e 2000, ma ha assunto una sostanza personale e una focalizzazione su determinati punti chiave che rende i Nostri convincenti anche per un metaller non propriamente uso a tempi dispari insistiti e riverberi di armonie siderali. La band si presenta estremamente carica, muovendosi molto per lo stage e dando l’impressione di voler veicolare già nella prima canzone tutta la propria storia e visione della musica, sintetizzando così in pochi minuti uno spettro sonoro assai variegato. La botta di suono implacabile viene apprezzata, il pubblico ancora un po’ distratto e sornione subisce di buon grado le prime avvisaglie di tempesta e si lascia andare sotto i colpi di una batteria abbastanza lineare e di un riffing molto coeso e sinceramente aggressivo. L’asciuttezza della chitarra, mescolante in parti quasi uguali power e progressive agli alti regimi, si espone a un sostanziale arricchimento a base di tastiere traccianti scenari immaginifici maestosi e non privi, in fondo, di una certa fragilità. Sporca leggermente la voce e non raggiunge sempre le note alte di competenza il comunque valido singer Sindre Antonsen, che laddove pecca in estensione è bravo a contenere i danni con mestiere ed entusiasmo, uscendo vincitore – seppur acciaccato – anche nelle linee vocali di più difficile interpretazione. Ragguardevole lo spazio concesso all’ultimo disco, che rifulge delle sue innegabili doti in “How Many Tears”, “Closure”, “Depth”. Non va sprecato un secondo, fra graditissimi richiami agli Ark, un pizzico della grandeur dei Symphony X (depurati di sinfonie fragorose) e un’attenzione alla forma-canzone che fa assimilare i brani con relativa facilità, anche quando si è totalmente a digiuno del loro contenuto. Bravi, decisamente bravi, con queste qualità sarebbe sacrosanto che i Divided Multitude cavalcassero anche alcuni dei palchi più rinomati nei principali festival europei.
(Giovanni Mascherpa)
CIRCUS MAXIMUS
Dopo un rapido cambio di palco giunge l’ora degli headliner di serata, i Circus Maximus. La band sale sulle assi del locale dopo l’intro di rito sulle note di “Namaste”, brano duro e di impatto, secondo singolo di “Nine”, premiato anche all’epoca da uno splendido videoclip, doppiato immediatamente dalla bella “The One” dallo stesso album; da subito colpiscono i suoni oggettivamente perfetti e la grande perizia esecutiva del combo norvegese. La notizia è passata in sordina, uscita solamente attraverso la pagina ufficiale del batterista, ma ben si nota una presenza aliena alla batteria: Truls Haugen, titolare del drum-kit, non è infatti della partita per questo tour, impegnato in una nuova paternità e nell’imminenza di una operazione chirurgica al ginocchio; a sostituirlo è il batterista dei Withem, Frank Norderg Roe. Michael Eriksen si prende giusto qualche secondo per ringraziare i presenti prima di lanciare il primo brano dall’imminente “Havoc”, “The Weight”, pezzo comunque già noto presso i fan in quanto il lyric video gira su Youtube da più di un mese. Totalmente inedita è invece “Highest Bitter”, seguita con attenzione dal pubblico che, seppur non enorme per numero, si mostra assolutamente coinvolto ed ansioso di ascoltare le canzoni del nuovo disco, che uscirà solamente la settimana successiva al concerto. “Architect Of Fortune” riporta per un momento a “Nine”, prima di tornare al passato remoto con “Arrival Of Love”, tra i pochi brani ‘morbidi’ del duro “Isolate”. La band è davvero in forma: Mats Haugen, al solito immobile e concentrato, regala tecnicismi a profusione con la sua chitarra, a fare da contraltare con il ruffiano e smorfioso Glen Cato Mollen, sempre impegnato in pose da rockstar e a regalare smorfie, plettri e sorrisi agli astanti. Eriksen appare sempre più appesantito e lento ogni volta, ma questo non limita la sua voce, davvero in grande risalto; strumentalmente perfetto come sempre Lasse Findbraten, anche se a volte eccessivo nella mimica e nella gestualità quasi spinta al ridicolo, ed assolutamente positiva è la prova dell’ospite Frank Roe. Il pubblico è molto limitato nel numero, come già scritto, ma coinvolto e preparatissimo: addirittura già conosce e canta i testi dei pochi brani già in circolazione dal nuovo album. ‘Volete continuare a cantare d’amore?’, chiede Eriksen alla venue, ovviamente ricevendo risposta positiva; ed ecco la splendida “Loved Ones”, dotata di un attacco molto simile a “Kings And Queens” dei Thirty Seconds To Mars, che i fan si lanciano a cantare prima che appaia chiaro che il brano non è quello. L’annuncio di un pezzo dal primo album accende un grande boato nei presenti e “Sin” viene accolta al meglio, prima che sia il turno della title track di “Havoc”, seguita dalla già pubblica “Pages”, a riportare al presente. “Abyss” e “I Am” guidano alla pausa. L’encore si apre con un altro brano inedito, “Chivalry”, lungo ed articolato, che con il suo mood ipnotico ammalia e strega gli spettatori, prima che “Game Of Life” metta fine alle ostilità. Suoni davvero perfetti, ad incorniciare una prestazione maiuscola dei Circus Maximus, che hanno suonato ed intrattenuto alla grande; ottima la scelta della setlist, con brani in linea con il corso attuale della band, in modo da evitare, quindi, gli episodi troppo progressive tratti da “The 1st Chapter” e quelli più duri e diretti di “Isolate”, miscelando sapientemente le canzoni nuove, bellissime, con i maggiori hit di “Nine”. Da segnalare che la band, subito dopo aver smesso di suonare, invece di tornare in camerino a riposarsi, è corsa allo stand del merchandise, così da non mandare a casa nessuno senza una foto o un autografo, elargendo grandi sorrisi e simpatia a tutti i fan intervenuti, soddisfatti e beati dopo un bellissimo concerto.
(William Crippa)