Report di Simone Vavalà
Fotografie di Moira Carola
Che sogniate di attraversare gli States a bordo di un truck, mangiando in diner unti e polverosi, oppure che immaginiate di perdervi nelle nebbie inglesi, seguendo le labili melodie di sabba dimenticati, questa sera al Fabrique di Milano viene offerta una scelta decisamente variegata su come declinare quell’hard rock che non è propriamente metal, certo con molti elementi sludge o stoner, ma forse anche qualcosa di southern – per non dire doom, a ben vedere.
In barba alle etichette, i Clutch non necessitano di presentazioni da ormai molti anni, e non a caso oltreoceano riempiono le arene; i Green Lung, dopo appena due dischi, si sono già ritagliati un posto di prestigio nel sottobosco frequentato dagli orfani di Tony Iommi e Lee Dorrian, mentre per la band di apertura parliamo di un trio che ad oggi deve crearsi il suo pubblico fidato, con sonorità ancora diverse, ma che sa già scaldare gli animi, come richiesto dal ruolo. Insomma, aprite il giubbotto di pelle, prendete una birra e iniziate a scuotere la testa con noi…
TIGERCUB
Negli anni chi vi scrive ha perso un po’ contatto con la scena indie, specie quella inglese, dai numeri (in termini di nuove band) smisurati. Evitando di ascoltarli prima per mantenere intatta la curiosità, scopriamo prima del concerto che il power trio di Brighton ha già cinque tra EP e full-length alle spalle: non proprio degli esordienti, e sicuramente prolifici, visto che parliamo di una band in giro da ‘appena’ sei anni. E in effetti bastano un paio di brani per rendersi conto che, senza magari stupire troppo, il loro lo sanno fare: un basso zanzaroso ma potente a rinverdire le eterne radici post-punk, le giuste ritmiche a metà strada tra pop e rock, una chitarra in equilibrio tra pulsioni new wave à la Sonic Youth e soprattutto il tocco del Josh Homme più catchy, cui si somma anche una voce decisamente simile a quest’ultimo, a ricordarci senza tema di smentita i Queens Of The Stone Age, periodò “Rated R”, per la precisione. Resta comunque un sufficiente margine di personalità e tanta energia unita a sorrisi da parte dei tre, che sottolineano con evidente trasporto il piacere di accompagnare le altre due, più blasonate band in questo tour. Forse non abbiamo conosciuto la band più originale del mondo, ma sicuramente i Tigercub ci hanno fatto trascorrere una mezz’ora più che gradevole per creare la giusta atmosfera e per confermare, già in avvio di serata, che si può fare del buon (hard?) rock con declinazioni molto variegate.
GREEN LUNG
Rivediamo la band londinese a distanza di pochi mesi, e con molte aspettative, visto che l’esibizione in quel del Mystic Festival ci aveva lasciati un po’ perplessi in termini di impatto. Questa sera i Green Lung sembrano da subito più in palla, forse semplicemente perché un palco al chiuso e il buio in sala contribuiscono ad accrescere le atmosfere oscure e bucoliche, da vecchi film horror inglesi, che nei loro dischi emergono con forza. L’ora quasi piena di esibizione è decisamente intensa, e dopo qualche minuto di aggiustamento i cinque si mostrano coesi e in grado di perpetrare il loro rituale musicale dalle ampie influenze sabbathiane a dovere. Anche questa sera vengono proposti brani da entrambi i full-length, con una piccola predominanza dell’ultimo, apprezzatissimo “Black Harvest”; brani come “Leaders Of The Blind” e “Graveyard Sun” rendono davvero l’idea di cerimonie pagane celebrate nelle brughiere inglesi, con quel fascino anni Settanta che è connaturato al suono della band: dall’hammond mai abusato al tocco di Scott Black – novello Mark Shelton quanto a look – alla chitarra, e soprattutto nelle sinuose, potenti ed evocative linee vocali di Tom Templar, coinvolgente anche in termini di gestualità. Meno incisiva la sezione ritmica, anche come presenza scenica, e questo porta a quella che può essere forse l’unica critica che si può muovere ai Green Lung; le atmosfere costruite con i loro brani potrebbero sicuramente essere accresciute da uno show più fumoso e ‘rituale’, senza magari scadere nei ninnoli più ridicoli o negli abusati mantelli, ma il contrasto tra i racconti panici racchiusi nei testi e il look da anonimi tecnici del suono in jeans e maglietta un po’ si sente.
CLUTCH
Cosa rende una band una garanzia, specie quando si tratta di esibizioni dal vivo?
Domanda eterna, cui spesso è impossibile dare una risposta univoca. Quel che è certo, però, è che i Clutch non si smentiscono mai rispetto al fatto di esserne un esempio pressoché perfetto di cosa desiderare, in tal senso. Poco meno di un’ora e mezza di esibizione che sembra però dilatarsi, percettivamente, per molto di più, in una sorta di happening che racconta quasi la storia moderna dell’hard rock, arricchito da quei personali tocchi propri della band di Germantown: capace di spaziare dal funky corposo figlio di Glenn Hughes al riffing più sfrenato, con la voce di Neil Fallon a muoversi tra ritornelli graffianti e caldi passaggi quasi soul, in un equilibrio tra tutte le anime del southern rock che poche band gestiscono con la stessa, impassibile grazia.
Il piccolo ma energico cantante non sta mai fermo, è bravissimo a scaldare il pubblico con le sue movenze da predicatore laico, e del resto non si è mai mostrato sottotono in tutta la sua carriera e nelle occasioni in cui abbiamo avuto il piacere di vedere i Clutch dal vivo; ma è ovviamente la sinergia complessiva il segreto di questa band, specie sul palco; trent’anni e passa a suonare assieme, con tredici album anche molto variegati all’attivo, e si sente. L’intesa è chirurgica come sempre, e anche stasera – come ormai d’abitudine – i Clutch stravolgono la scaletta rispetto alle esibizioni precedenti del tour offrendo venti brani da pressoché ogni loro disco; non solo con naturalezza, ma anche con la strafottenza (benevola) di sciorinare pezzi che il pubblico canta a squarciagola alternandoli a momenti più imprevisti, senza apparente logica se non quella di divertirsi e stupire il pubblico. Fa sorridere in maniera esemplare il siparietto con il theremin, presente sul palco a inizio concerto, poi spostato, poi rimesso per un solo brano (“Skeleton On Mars“), con l’evidente sensazione che abbiano cambiato in corso la scelta dei brani da proporre. Ovvio il particolare entusiasmo del pubblico per gli estratti di dischi amatissimi come “Transnational Speedway League” o “Psychic Warfare”, oppure per la trascinante e sardonica “Burning Beard” da “Robot Hive/Exodus”.
Al solito, Gaster e Maines offrono una prestazione solida e magistrale – lo scheletro della band sta nel grasso da motori e nei pistoni che mettono in campo loro, del resto – mentre Tim Sult, concentratissimo e statico, dipinge con la chitarra melodie e accordi che ci riportano, a seconda dei momenti, ai Grand Funk Railroad o ai Soundgarden dei tempi d’oro; ché di fondo è questa la gloriosa filiera musicale a cui appartengono i Clutch.
Setlist:
Burning Beard
Struck Down
Rats
Sucker For The Witch
H.B. Is In Control
Nosferatu Madre
Walking In The Great Shining Path Of Monster Trucks
50,000 Unstoppable Watts
In Walks Barbarella
Skeletons On Mars
Green Buckets
Earth Rocker
The Elephant Riders
Abraham Lincoln
A Shogun Named Marcus
Ghoul Wrangler
D.C. Sound Attack!
Electric Worry
Impetus