22/07/2017 - COLONY OPEN AIR 2017 @ Pala Brescia - Brescia

Pubblicato il 05/08/2017 da

Introduzione a cura di Dario Onofrio
Report a cura di Dario Onofrio e Andrea Intacchi

A distanza di quasi due settimane, cosa è rimasto del Colony Open Air? Polemiche? Esperienze negative? Un bel ricordo? Probabilmente un mix di queste cose. Il festival, annunciato dapprima in una nuova e prestigiosa location come l’Autodromo di Castrezzato, ha subito ben due spostamenti: prima all’Area Verde di Capriolo Bresciano per necessità di contenimento di costi in relazione alle band presenti, poi al PalaBrescia per questioni legate alle nuove misure di sicurezza successive ai fatti di Torino, con notevole disappunto per quei fan che avevano già acquistato il biglietto. A differenza di chi, come chi scrive, abita in Lombardia, coloro che hanno dovuto cambiare le prenotazioni di treni, hotel e voli, hanno sicuramente affrontato dei disagi molto pesanti, dovuti anche all’annullamento del campeggio a una settimana dall’evento. Purtroppo tra le cose negative che hanno un po’ ‘gambizzato’ l’evento, non possiamo non citare: il forfait degli headliner Morbid Angel a pochi giorni dal festival, prontamente e più che degnamente sostituiti dai Carcass; la comunicazione, avvenuta solo la sera prima dell’happening, dello spostamento da open air con doppio palco a indoor con singolo palco, fatto che si è tradotto nella riduzione del minutaggio di molti show a quaranta minuti, anziché sessanta o poco meno come promesso, e anche a quella dei cambi palco, che probabilmente ha influito sui suoni, in più occasioni non all’altezza della situazione; l’impossibilità di portare alcolici all’interno del palazzetto grazie ad un’ordinanza emessa da autorità che hanno tutt’altro che agevolato lo svolgimento di questo evento; il parcheggio lasciato al caso e non gestito, con conseguente ingorgo la sera al ritorno e una troppo severa raffica di multe per divieto di sosta; la poco adeguata comunicazione (una piccola nota sotto alla descrizione dell’evento Facebook) del maggior prezzo del biglietto in cassa rispetto alla prevendita, con molti fan non informati di dover pagare 60 euro anzichè 50 per il giorno singolo e 110 anzichè 90 per la doppia giornata; infine, la lista delle magliette associate alle prevendite dimenticate da un’altra parte. Non si può quindi parlare di un evento riuscito dal punto di vista organizzativo, senza stare troppo a guardare se la responsabilità fosse dell’organizzazione o delle autorità. Non è stata ad ogni modo una ‘tragedia’, come molti pensavano dopo i vari spostamenti di location e le polemiche del giorno prima, anche perchè dal punto di vista umano e concertistico l’atmosfera è stata decisamente piacevole e rilassata, con fan da tutta Italia accorsi col solo scopo di divertirsi godendosi due giornate all’insegna dell’old school e del metal estremo; l’aria condizionata che dentro al palazzetto ha permesso di respirare; concerti che, seppur brevi, sono stati ottimi dal punto di vista delle esibizioni in sé; ottimo cibo, zone d’ombra anche all’aperto, stand con CD, vinili, merchandise e molto altro. Insomma: non è stato certo un bagno di fortuna, il primo e unico Colony Open Air, ma si poteva fare molto, molto meglio, specialmente partendo dalle premesse arrivate alla gente fin da dicembre e proporzionando il tutto al costo non certo contenuto del biglietto. Sono solo la musica e la passione dei fan che contano a questo punto? Forse sì, dato che esistono festival con nomi ben più blasonati dove la gente è trattata come animali da soma e lo accetta senza troppe storie. Il problema è che, con le premesse e le promesse fatte, ci si aspettava decisamente di più da un evento partito con tutta la buona volontà che, evidentemente, non è bastata per farlo riuscire appieno.

 


SABATO 22 LUGLIO 2017

IN.SI.DIA.
Purtroppo ci perdiamo gli Skanners, complice il traffico sulla Milano-Venezia in questo primo week-end di partenze, ma ciò non ci impedisce di essere davanti al palco per il miglior gruppo thrash italiano da vent’anni a questa parte. Fabio Lorini e soci si esibiscono di fronte a una platea ancora sguarnita ma calda e pronta a cantare tutti i grandi classici della band: da “Nulla Cambia” a “Parla…Parla”, fino ai pezzi del nuovissimo “Denso Inganno”, brani che la folla dimostra di conoscere già molto bene. La band bresciana mette in gioco ancora una volta le sue potenzialità e la sua capacità di non sfigurare affatto in un contesto anche internazionale, visto che nonostante l’orario c’è già chi si svita il collo a furia di fare headbanging e chi già comincia a perdere la voce cantando a squarciagola. La finale “Tutti Pazzi” non può che essere dedicata a Marco Mathieu dei Negazione, in condizioni gravi dopo un incidente di qualche giorno fa: la cantiamo tutti come fosse un inno della nostra generazione, nonostante sia un pezzo che proviene dal passato.
(Dario Onofrio)

HELL
Complice il doversi truccare come loro solito e prepararsi allo show, la band guidata da Andy Sneap e Kev Bower comincia l’esibizione in ritardo. Ma l’attesa è ampiamente ripagata: uno show pazzesco, tra teatro e musica, con un David Bower istrionico e in grado di tenere il pubblico con un solo mignolo della mano. La scaletta si alterna saggiamente tra i pezzi storici e quelli più recenti: da “The Age Of Nefarious” si passa a “Let The Battle Commence”, per poi sfoderare l’immancabile “Blasphemy And The Master”, sulla quale il mitico singer non può non recitare la parte del flagellante. Nonostante l’età dei componenti, esclusi Andy e David, sia quella della ‘generazione Maiden’, i Nostri tengono il palco egregiamente e persino il disegno luci utilizzato per i Kreator ben si sposa con le parti di assolo magistralmente interpretate dai due chitarristi, con spazio anche per il basso di Tony Speakman e la batteria di Tim Bowler. Gli Hell sono sempre stati anni-luce avanti a moltissime band heavy metal e anche durante l’esibizione del Colony Open Air, tra cambi di tempo, ritmiche intricate e riff macinateste, dimostrano di essere una band con un carisma e una potenza ingiustamente sottovalutate dai più. Gran finale con “On Earth As It Is In Hell”, con il buon David che scende a ‘benedire’ la gente in prima fila. Un vero e proprio monumento.
(Dario Onofrio)

ASPHYX
La formazione olandese è attesissima dalla platea italiana, dopo aver calcato i palchi nazionali già lo scorso anno. In effetti è difficile pensare a un death metal old-school che ancora va avanti senza problemi se non si considerano gli Asphyx, veri alfieri di un modo di suonare che pochissime band del genere hanno. Anche stavolta la band di Martin Van Drunen, unico rimasto della formazione originale, non manca di mietere teste: le prime tracce vengono affidate all’ultima fatica in studio “Incoming Death”, per poi tuffarsi, verso la fine della scaletta, nel passato con le classiche “The Rack” e “Deathhammer”, che scatenano un pubblico in estasi. L’atmosfera di ‘culto’ che si è respirata durante questo concerto è totalmente giustificata per il rispetto che molti fan provano per il combo olandese, ancora una volta portatore della bandiera del death metal più oscuro e intransigente. Nonostante lo scarso minutaggio, Martin e soci tirano su pure il primo pogo della giornata, con i loro riff granitici e la loro potenza che li ha resi nel tempo una vera leggenda del death metal.
(Dario Onofrio)

LOUDNESS
Il Sol Levante torna in Italia, finalmente! La band capitanata da Akira Takahashi sfodera una prestazione da urlo, inferiore solo di mezza spanna a quella degli Hell. La formazione, che quest’anno spegne ben trenta candeline sulla torta di “Lightning Strikes”, non sembra essere invecchiata di un singolo giorno: la scaletta fa felici praticamente tutti gli appassionati del metallo nipponico accorsi all’evento e lascia piacevolmente sorpreso chi non conosceva la band. Tra l’altro, chi scrive si è visto tutto il concerto con proprio gli Hell di fianco, cosa che ha contribuito non poco a creare una bellissima atmosfera di amicizia e fratellanza. Minoru Niihara, incredibilmente, canta ancora con tutte le sue energie coinvolgendoci in pezzoni storici come “Let It Go” e “Black Star Oblivion”, direttamente dall’album sopracitato, per poi passare anche a pezzi nuovi come “The Sun Will Rise Again”, che dal vivo non sfigurano affatto di fronte alle canzoni storiche. Insomma: nonostante gli anni passino per tutti e i dischi siano sempre di più, i samurai del metallo non accennano minimamente a calare il tiro o a voler minimizzare: una band assolutamente da recuperare se vi piace l’heavy metal.
(Dario Onofrio)

DEATH ANGEL
I Death Angel, purtroppo, suonano solo trenta minuti per aver voluto montare il loro backline. Ciononostante, la band californiana trasforma subito la platea del Colony Open Air in un tritacarne, aprendo immediatamente con “The Ultra Violence” in medley con “Evil Priest”. Qualche problemino ai suoni si nota specialmente per la voce di Mark Osegueda, che per almeno un paio di pezzi fatica ad emergere in mezzo al marasma degli strumenti. Poco dopo, però, le cose si sistemano e lo show va avanti senza intoppi, nonostante la scaletta praticamente martoriata che vede solo un pezzo dall’ultimo “The Evil Divide” e la chiusura anticipata con “Thrown To The Wolves”. Nonostante ciò, il pubblico del Colony risponde positivamente a tutti gli input dati dal gruppo, che non si ferma nemmeno un secondo per tirare il fiato viste le tempistiche strettissime. Sul finale, un mosh esagerato coinvolge la platea che si scatena in un circle pit gigantesco. Dunque, seppur dimezzati nel tempo, i Death Angel si confermano nuovamente un gruppo ormai affermato all’interno della scena thrash, tranquillamente sullo stesso piano di altre leggende come Testament e Overkill.
(Dario Onofrio)

DEMOLITION HAMMER
Tanta gente sta aspettando i Demolition Hammer solo per scatenare un pogo ancora più assassino di quello verificatosi prima in presenza dei Death Angel: e così succede. La band newyorkese capitanata da Steve Reynolds e James Reilly abbatte il pubblico del Colony Open Air a suon di thrash americano vecchia scuola, per quaranta minuti di puro delirio. La reunion del 2016 non ha fatto che riaccendere la fiamma dell’interesse verso questa entità ed è così che non possono mancare pezzi storici come “Hydrophobia” e “Neanderthal”, con una scaletta ovviamente dedicata solo ai primi due album. Carisma da vendere e soprattutto una vera e propria attitudine nello spezzare le ossa del pubblico: questo e altro è successo durante il loro concerto, che si chiude con “44 Caliber Brain Surgery”, pezzo che scatena la follia nei pogatori seriali con gli occhi iniettati di sangue. Certo, un’ora di thrash così lanciato non è certo ciò che ci voleva, quando il prossimo gruppo a salire sul palco sono nientemeno che i paladini dello speed metal vecchia scuola, ma forse serviva un po’ di riscaldamento prima del quartetto finale di questa giornata!
(Dario Onofrio)

EXCITER
Quello che abbiamo visto sul palco del Colony Open Air, una volta saliti gli Exciter nella loro primissima formazione, è stato pazzesco. Quaranta minuti di concerto spaventosi, velocissimi come solo lo speed metal sa fare: la band di Dan Beehler si prende sicuramente il premio di ‘concerto più devastante di tutta la giornata’, superiore persino ai Kreator. Allan Johnson e John Ricci sono ancora in perfetta forma, quasi qualcuno li avesse messi nel congelatore per poi ritirarli fuori in occasione di questo set, mentre Dan dietro alle pelli e al microfono è ancora una macchina assassina macinateste. Da “I Am The Beast” fino alla conclusiva, immancabile “Long Live The Loud”, non c’è un attimo solo per riposarsi o poter anche solo smettere di scapocciare: i canadesi hanno ancora quell’energia primordiale che tanti amanti di heavy underground adorano ascoltare in vecchi e polverosi LP. L’old school quindi è durissimo a morire, specialmente se suonato da musicisti di questo calibro, con una energia e una passione che spesso le band di nuova generazione faticano a sfoderare.
(Dario Onofrio)

SACRED REICH
Altro giro, altra bomba thrash. E con essa un salto di qualità a livello fonico: con i Sacred Reich, infatti, i volumi e l’impatto sonoro raggiungono la degna sufficenza. Dopo la calata sui palchi nostrani in occasione dello scorso (ed ultimo) Fosch Fest, ritorna sul suolo italico la band capitanata dal sempre più rotondo Phil Rind. Cosa chiedere ai Reich se non una dose massiccia di riff adrenalinici e una sana ignoranza in-your-face’? E così è stato. L’inizio, tuttavia, non è stato dei migliori: pronti via, e il basso di Rind va a farsi benedire, così che “Ignorance” viene semplicemente cantata dal leader del gruppo americano il quale, per sdrammatizzare, sottolinea come ‘nella mia carriera mi si è rotta la corda del basso solo in una occasione. Oggi è stata la seconda’. Tutto a posto, si può andare avanti con una cascata d’insulti per ‘l’amatissimo’ Donald Trump a cui viene dedicata “One Nation”. Vista la brevità del tempo a disposizione, i Nostri ci offrono una sorta di greatest hits, anche se, subito dopo “Love… Hate”, arriva una chicca davvero succulenta. Come confermato dallo stesso Rind, viene proposta per la prima volta dal vivo, a distanza di trent’anni dalla sua uscita, la violentissima “Victim Of Demise”. Da applausi. Ed il finale, come da previsioni, è da urlo: “Indipendent” scalda i motori prima dell’ormai riuscitissima “War Pigs”, cover dei Black Sabbath, cantata praticamente da tutta Brescia (ci piace pensare anche dai suoi abitanti più raccomandabili, visto il volume del coro). A chiudere, “American Way” e la leggendaria “Surf Nicaragua”; inutile cercare aggettivi per descrivere il tasso di pogo creatosi al centro del pit. Certe band sono ormai come il vino, che più invecchia e più diventa buono. L’età si fa sentire per tutti, ovvio, e la voce di Phil non ha sempre retto i ritmi imposti dal resto dei suoi compari, ma poco importa: i Sacred Reich hanno spaccato, in attesa, forse, di un ritorno definitivo su disco.
(Andrea Intacchi)

WINTERSUN
La band capitanata da Jari Mäenpää sale sul palco del Colony Open Air dopo aver approntato la propria scenografia (l’unica, tra l’altro, che vedremo quest’oggi, a parte quella dei Kreator). Diciamo subito che fa impressione vedere il cantante dal naso aquilino non suonare più la chitarra, compito nel quale è degnamente sostituito dal nuovo arrivato Asim Searah, mentre alla batteria troviamo ormai l’immancabile Timo Häkkinen. Ma non c’è molto tempo per farsi domande: proprio il giorno prima usciva “The Forest Seasons” dal quale viene tratta l’opener “Awaken From The Dark Slumber (Spring)”, ben accolta nonostante iniziali problemi di riproduzione nella parte registrata del pezzo. Il pubblico è molto meno selvaggio e rumoroso di prima e più concentrato sulla musica, visto anche quanto questa si sia complicata nel corso della carriera della band finnica; inoltre molta gente ha approfittato di un gruppo non proprio nel genere della giornata per andare a mangiare. Ma non per questo lo show dei Wintersun è sottotono, anzi: vengono sfoderate “Winter Madness” e “Sons Of Winter And Stars” come artiglieria pesante. Certo, purtroppo, avendo così poco tempo in scaletta, la band risente un po’ del fatto che si suonino solo canzoni lunghe e che richiedono un determinato grado di attenzione, ma non per questo la performance non viene gradita da chi aspettava proprio questa formazione.
(Dario Onofrio)

KREATOR
Tutti davanti, tutti assiepati nelle prime file. Perchè alla fine, il novanta per cento, se non addirittura la totalità degli accorsi al PalaBrescia, era lì per assistere all’ennesima prova di forza di Mille Petrozza e dei suoi Kreator. Sono passati solo cinque mesi dallo show incendiario messo in scena in quel di Trezzo e chiedere una replica di tale violenza e perfezione all’interno di un festival, dove è risaputo, tutto è comunque più ristretto e meno controllato, poteva sembrare un po’ troppo pretenzioso. Quel giorno, infatti, i Kreator bollarono la casella ‘perfetto’ sotto tutti i punti di vista: grinta, setlist, scenografia, prestazione, coinvolgimento; un live, appunto, perfetto. Fatta questa breve premessa, al Colony la band teutonica ha raggiunto il pur accettabile livello di ‘buono’: niente da dire, sia chiaro, ma qualcosa poteva andare meglio. Un dato è certo: a Trezzo i Kreator avevano appena iniziato il Gods Of Violence Tour e pertanto l’adrenalina, come la forma fisica generale, era ai massimi livelli; dato di non poco conto, se si considera l’età (seppur non avanzatissima) di Mille e compagni. Seconda punto: la scaletta. Pure gli headliner sono stati colpiti dalla riduzione della setlist ‘imprevista’ e così, dovendo scegliere, si è preferito puntare sui classiconi più melodici (“Hordes Of Chaos”, tanto per fare un esempio), oltre al repertorio pescato dagli ultimi due album (ben sette i pezzi suonati), a discapito delle vecchie e furiose mazzate old-school. Rispetto a febbraio, infatti, eccezion fatta per la bomba finale di nome “Pleasure To Kill” non sono state proposte le altrettanto attese “Extreme Aggression”, “Flag Of Hate” e la temibile “Under The Guillotine”. Una serie di esclusioni che ha fatto per forza di cose storcere il naso ai fan di vecchia data. Terzo e ultimo appunto: i suoni. Se dai Sacred Reich qualcosa si era mosso in positivo, con i Kreator i volumi hanno nuovamente subìto una virata verso il basso, e ad essere colpita è stata proprio l’ascia di Petrozza, non sempre udibile perfettamente e talvolta addirittura assente. Pignolerie ma dettagli doverosi per quello che, nonostante tutto, è stato un live più che positivo, che ha confermato ancora una volta come i Kreator facciano ormai parte del gotha del metal a tutti gli effetti. Ed è lo stesso pubblico a dimostrarglielo, cantando a squarciagola ogni singola canzone, con tanto di headbanging in contemporanea, a partire dalla già citata “Hordes Of Chaos” corredata da ‘fuochi filanti’ che in poco tempo coprono l’area antistante il palco. E’ quindi “Phobia” a scaldare ulteriormente gli animi prima della doppietta di nuova produzione made in “Satan Is Real” e “Gods Of Violence”. La palla diventa più bollente e cattiva con “People Of The Lie” e l’antichissima “Total Death”, lasciando quindi spazio a “Phantom Antichrist” (già divenuta un classico) e la sentita “Fallen Brother”, con cui i Kreator (pur senza i maxischermi che proiettavano il video ufficiale del brano) omaggiano i grandi nomi del metal ormai passati a nuova vita. Si scriveva di come la band di Essen abbia ormai trovato una formula perfetta di coesione: il merito ovviamente è in primis di Mille, tuttavia un plauso particolare va sicuramente dato a Sami Yli-Sirnio, l’anima melodica del gruppo, puntuale e nello stesso tempo deciso e potente nei riff portanti dei pezzi più famosi dell’ultimo periodo Kreator, vedasi “Enemy Of God” o la più recente “Civilization Collapse”. E dopo una breve uscita di scena, giusto per rifiatare e prepararsi per la mazzata finale, ecco l’epilogo composto da due brani sostanzialmente diversi ma che ben rappresentano la versatilità del gruppo teutonico: da una parte una sorta di malinconia incazzata, “Violent Revolution”, dall’altra l’aggressività in quanto tale, “Pleasure To Kill”. Il piacere di uccidere, il piacere di aver visto ancora una volta all’opera quattro ragazzotti che, pur senza tante manie di grandezza, hanno dimostrato di saper spazzare via ogni cosa a colpi di sano thrash metal.
(Andrea Intacchi)

DOMENICA 23 LUGLIO 2017

ULVEDHARR
Dalle Orobie con furore. Potrebbe essere così sintetizzata la prestazione della band bergamasca, autrice di un’ottima performance, nonostante il ridotto minutaggio a disposizione in aggiunta al non felicissimo orario di esibizione (primissimo pomeriggio). ‘Ostacoli’ che non hanno intimorito Ark Nattlig Ulv e compagni, compatti e decisi nel lanciare alla folla comunque ben nutrita il loro metal dalle forti tinte viking, condito da fulminei quanto poderosi attacchi death. Sorretti da una buonissima resa sonora (dato, questo, che caratterizzerà l’intera seconda giornata), il gruppo di Clusone ha alzato il sipario del proprio show con “The Last Winter” seguita dall’intensa “War Is In The Eyes Of Berseker”, riuscendo a coinvolgere un pubblico che ha dimostrato di apprezzare appieno l’impegno e l’ottima coesione del gruppo bergamasco. E dopo “Legion”, per le battute finali gli Ulvedharr ci propongono “Master Of Slavery”, un estratto di nuova produzione direttamente dall’imminente full-length “Total War”, in uscita per la metà di agosto. Cinque brani per una mezz’ora di sano death metal di matrice svedese; cosa aggiungere? Un plauso agli Ulvedharr e arrivederci al prossimo album.
(Andrea Intacchi)

ANTROPOFAGUS
Con il senno del poi, quello degli Antropofagus è stato un live particolare. Il motivo? Semplice: a distanza di pochi giorni dalla conclusione del festival, il singer Mattia ‘Tya’ DeFazio ha ringraziato tutti i componenti della band, annunciando la sua dipartita dal gruppo ligure. Una decisione, stando al suo comunicato, maturata mesi fa che si è comunque concretizzata a seguito della buonissima prestazione realizzata in occasione di questo festival. Arcigni, tecnici, rapidi: in tre brevi aggettivi, gli Antropofagus hanno investito i presenti con il loro brutal death metal senza troppe remore. Ed è stato proprio lui, ormai ex vocalist, a condurre il breve massacro, con quel growl e quelle movenze che rimandano senza ombra di dubbio a Sua Brutalità George ‘Corpsegrinder’ Fisher. Ma non solo, tutta la band capitanata da Francesco Montesanti ha dato vita ad uno show compatto, proponendo pezzi sia dal recente passato, “Architecture Of Lust”, sia dal nuovo e ben accolto “M.O.R.T.E.”. Antropofagus promossi e, a questo punto, un sentito grazie a ‘Tya’.
(Andrea Intacchi)

CARACH ANGREN
Calano le tenebre, si alza la nebbia mentre le note horrorifiche di “Charlie” aprono il live-set dei Carach Angren, combo olandese applaudito sin dalle prime battute, soprattutto dal pubblico femminile. Il merito va sicuramente al leader Seretor, vero mattatore e autentico attore nel cantare ed interpretare i racconti tetri ed oscuri, scavando a piene mani nel loro repertorio. Certo, visto la tipologia dell’evento (un festival) uno show del genere non riesce a rendere al 100%; tuttavia i Carach Angren ce la mettono tutta per costruire una prestazione comunque dignitosa. Ed ecco che allora brani come la sopracitata “Charlie”, “Tye Carriage Wheel Murder”, “Departure Towards Nautical Curse”, “Bitte Totet Mich” e l’intensa “Blood Queen” riscuotono più di un’ovazione. E fa nulla se Jack Owen è semplicemente inguardabile con il face-painting; ci accontentiamo delle sue capacità musicali, che non è poco. E a proposito di nebbia, prepariamoci a ciò che accadrà di qui a breve…
(Andrea Intacchi)

MGLA
Fermi tutti. No, non state sognando; è tutto maledettamente vero. Il banner appeso sullo sfondo recita tal nome: Mgla (che, tradotto dal polacco, significa appunto ‘nebbia’). Ed è proprio un velo fitto d’oscurità ad accogliere sul palco la band del leader indiscusso M., per quello che sarà uno show ipnotico. Black metal diretto, monolitico, senza sfuriate o effetti speciali. Un viaggio negli abissi senza via d’uscita. Chiodo d’ordinanza, incappucciati, volti coperti: così si presentano i Mgla. Senza movenze, senza distrazioni, freddi e chirurgici al limite della precisione ma soprattutto malignamente coinvolgenti. Inutile cercare di distogliere lo sguardo dai quattro figuri di nero vestiti: il loro black magnetico non fa sconti a nessuno, a partire dall’opener “Further Down The Nest”. Dal passato sino ai capitoli più recenti: da “With Hearts Towards None” vengono proposte le parti I e VII mentre, tornando ai primi vagiti della band polacca, arrivano “Mdlosci II” e “Groza III”. Ma aldilà dei titoli dei brani, è proprio la disarmante potenza che viene trasmessa ad impressionare: gelida ma al contempo bruciante. La magia occulta e spaziale si spegne con l’atto VII estratto dall’ultimo capolavoro sfornato dai Mgla, “Exercises Of Futility”. Ed è con uno scoppio secco e letale che la nebbia lascia posto al buio, mentre i Nostri alzano il pugno in segno di saluto e ringraziamento. Il viaggio è finito, alla prossima ipnosi.
(Andrea Intacchi)

BELPHEGOR
Tutto e il contrario di tutto. Dopo il vuoto gelido dei Mgla, chi poteva salire sul palco se non il ‘bordello’ di croci rovesciate, sangue a fiotti, teste impalate dei nostri amici Belphegor? Helmut lo conosciamo bene e quando va on stage si trasforma in una sorta di servo del Diavolo, per mettere in scena alla perfezione il suo teatro della blasfemia. Quanto ci sia di vero dietro quei legni incrociati a testa in giù poco importa; quando suonano i Belphegor si avrà comunque di fronte una band che ha nella garanzia di uno show di livello il suo marchio di fabbrica. In attesa dell’imminente nuovo album “Totenritual” (in uscita il prossimo 15 settembre), dal quale propone in anteprima il brano “Totenkult – Exegesis Of Deterioration”, il quartetto austriaco, diretto da Helmut e dal ‘fedele’ amico Serpent, ci vomita addosso una serie di inni satanici: a cominciare dalla tellurica “Gasmask Terror”, per passare poi a “Conjuring The Dead/Pactum In Aeternum”, “Belphegor – Hell’s Ambassador”, “Bondage Goat Zombie”, con tanto di incensatore d’odio, e l’acclamata “Lucifer Incestus”. I Belphegor sono così, prendere o lasciare. C’è chi tra il pubblico, oltre ai fan più accaniti, sogghigna di fronte a cotanta mercanzia sacrilega. Pacchiani, forse, ma sempre coerenti. Ave Satana, ave Belphegor.
(Andrea Intacchi)

MARDUK
A proposito di gente poco raccomandabile, venghino siòri venghino, udite udite, eccoli i figli del Demonio: ecco a voi i Marduk. Di fronte a questo pericolo imminente, sia il pubblico accorso sia la stessa band capitanata da Morgan non battono ciglio, anche perché di pericoli non ve ne sono proprio. Uno straccio nero con la mastodontica scritta ‘Marduk’ si staglia dietro i quattro svedesi, mentre Mortuus inizia a sputare sulle prime file la terremotante “Frontschwein”, ormai divenuta un vero e proprio cavallo di battaglia. E a seguire, ricalcando la tracklist dell’omonimo album, ecco “The Blonde Beast”, dedicata a tutti gli amanti dell’headbanging. I Marduk non hanno bisogno di presentazioni e, amati o odiati, sul palco fanno praticamente ciò che vogliono, senza badare a scalette programmate o quant’altro. Resta il fatto che anche per loro, come sottolineerà più tardi Jeff Walker, ‘il tempo è poco, per cui suoniamo’. E allora si va con un’altra hit sempreverde come la cattivissima “Of Hell’s Fire”, a cui fa seguito una delle preferite dagli aficionados del combo svedese (ed anche da chi scrive), “Materialized In Stone”. Spazzano via tutto i Marduk, senza sosta, inanellando altre bombe sonore quali “The Levelling Dust”, “Throne Of Rats” e “Cloven Hoof”, prima di un altro pezzo da novanta come “Wolves”, forse il miglior brano scritto da Morgan Hakansson. A chiudere una tiratissima, e pure tagliata, “Panzer Division Marduk”, a testimoniare ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno, l’eccellente formula war-machine ormai collaudata dal gruppo scandinavo. Curioso episodio: là, appoggiati ad un muro, intenti a seguire le gesta di Mortuus e compagni, un manipolo di carabinieri il cui volto era tutto un programma. Se da una parte i loro occhi esprimevano il peggior disgusto per la musica proposta, il pensiero comune dev’essere comunque stato ‘ma che cosa ci facciamo qui?’. Amen. E ora, sotto con i Carcass.
(Andrea Intacchi)

CARCASS
Ora, tralasciando le polemiche sorte prima e dopo il festival, lasciate che chi scrive dica una cosa: potrebbe sembrare banale, ma se tutti i sostituti dell’ultima ora fossero di tale portata, ben vengano gli annullamenti live ‘causa problemi con il passaporto’. Rivedere i Carcass, in Italia per la terza volta in pochissimo tempo, è sempre un enorme piacere. Semplici, coerenti, micidiali, in grado di mettere a tacere chiunque avesse avuto qualcosa da ridire sino a quel punto della giornata. Il buon vecchio Walker, in blue jeans, imbraccia il basso e pigia subito il piede sull’acceleratore, senza perdere un attimo di tempo, scatenando l’inferno nel mezzo del palco. Si comincia con la canonica “316L Grade Surgical Steel”: la miccia, già bollente tra l’altro, per la definitiva esplosione firmata “Buried Dreams”, “Incarnated Solvent Abuse”, “Carnal Forge”. Timpani andati, collo pure; nel frattempo il moshpit prosegue senza tregua. Là sopra, sul palco, assistiamo ad una sorta di ‘guerra dei sensi’: da una parte il tranquillissimo Bill Steer, intento a sguinzagliare lungo tutto il PalaBrescia le linee ‘melodiche’ della band inglese; dall’altra un caricatissimo Jeff Walker, mai domo, quasi elettrizzato, che, tra una canzone e l’altra, ha modo comunque di ironizzare con il pubblico (‘scusate se non siamo i Morbid Angel…’), dando così una tirata d’orecchie alla band americana proprio per la poco professionale questione del passaporto. Poco importa. I Carcass sono qui e con loro anche alcuni brani dall’ultima fatica “Surgical Steel”, “Unfit For Human Consumption” e “Captive Bolt Pistol” tra le altre. Ma non è finita qui: il pubblico vuole pure i grandi classici, ed allora via con “Reek Of Putrefaction” insieme con l’accoppiata “Black Star” e la mitica “Keep On Rotting In The Free World”. Il tempo è tiranno, ma i Carcass lo hanno saputo sfruttare in modo sublime, tanto che nel pubblico davanti al palco le forze cominciano a scemare. C’è tempo ancora per un paio di canzoni. E’ il turno di “Corporal Jigsore Quandary”, che ha semplicemente il compito di aprire le porte per il massacro finale targato “Heartwork”. Tanti saluti e baci.
(Andrea Intacchi)

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