Report di Giovanni Mascherpa e Stefano Protti
Foto di Sebastian Scheele (sito ufficiale)
Un fenomeno maledettamente, e magnificamente, destabilizzante degli anni 2000 è il fiorire di festival di ogni tipo, in qualsiasi periodo dell’anno, con gli accostamenti più bizzarri, il concept tematico più originale e, grazie alle reti sociali, la possibilità di mettere a conoscenza di tali eventi una platea vastissima. Se ci aggiungiamo l’attuale facilità nell’organizzare spostamenti all’interno del continente europeo, va da sé che gli appassionati di musica più oltranzisti, dimenticando per un attimo vincoli di tempo e monetari, potrebbero frequentare concerti underground di alta caratura in ogni fine settimana dell’anno. Il preambolo ci serve per inquadrare come siamo venuti a conoscenza del Complexity Fest e le ragioni che ci hanno portato a volare su Amsterdam e quindi a spostarci nel suo hinterland, ad Haarlem per l’esattezza, per immergerci in una giornata di esibizioni tra le più intense che si potesse immaginare. E’ bastato un post sponsorizzato su facebook, buttatoci in faccia un giorno sì e l’altro anche già dai mesi autunnali, per farci capire che al Patronaat, locale multifunzionale posto nel centro della cittadina orange, alcuni volonterosi ragazzi stavano organizzando un happening non proprio tradizionale. Lo dice il nome del collettivo dietro alle quinte (Complexity, appunto) e quello della manifestazione stessa, noi proviamo a spiegarlo con qualche parola in più: radunati sui tre palchi disponibili, sono stati invitati a darsi battaglia realtà che avessero per comune denominatore il suonare musica difficile, anticonformista, camaleontica, strana, imprevedibile, quanto di più lontano quindi da un modo di intendere rock e metal vicino a dogmi sacrali che qualcuno vorrebbe tenere immutabili nei secoli. Headliner, uno degli artisti che dagli anni ’90 in avanti ha spinto ai limiti e oltre il concetto di sperimentazione e avanguardia, prima con gli Emperor e poi da solista, ovvero Ihsahn. Piacciano o meno le sue evoluzioni e ardite simbiosi, il cantante/polistrumentista nordico ha segnato epoche e generazioni di ascoltatori, fungendo da ponte fra chi ha nel black metal una delle ragioni di vita e chi, fra gli appassionati under-30, sta ora vivendo un’epoca per certi versi confusa e contraddittoria, per altri ricca di spunti e coraggiose opere di esplorazioni, rivisitazioni, sconvolgimento delle sonorità pesanti. Come e più che in altre occasioni, non è ovviamente dal solo headliner che va desunta la qualità della manifestazione, che ha ricompreso sotto il suo vasto e sconfinato concept un congruo numero di novelli djent-addicted (Transient State, Extremities, Napoleon, Kadinja), portabandiera del techno-death (Virvum, Gorod, Obscura), collettivi strumentali lambenti solo a tratti il metal puro (MNHM, Mutiny On The Bounty, Aiming For Enrike), math-corer spietati (gli scriteriati Frontierer), redivivi residuati progressive-death (i commuoventi Disillusion), incroci estasianti fra melodie toccanti e vortici di note sfuggenti (i più applauditi di giornata, gli Agent Fresco). Dimentichiamo qualcosa? Certo che sì. Su ventidue gruppi chiamati, sono stati davvero infiniti gli spunti e le interpretazioni delle sette note cui siamo stati sottoposti, e non un combo che abbia fatto rammaricare di avergli dedicato del tempo e dell’impegno. Per tanta abbondanza e qualità, il prezzo era ragionevole: l’ultima tranche di biglietti era in vendita a 35 euro oltre prevendita, mentre per le prime due scadenze d’acquisto il valore del tagliando d’ingresso era ancora più contenuto. A fronte di questa convenienza, non abbiamo assistito a un’affluenza oceanica, e gli spazi sono rimasti ampi per tutto il giorno. Parliamo di qualche centinaio di avventori, cifra che ha permesso di muoverci per i diversi livelli dell’accogliente Patronaat in tutta comodità, potendo rilassarci nelle necessarie pause per consentire al fisico un minimo di ristoro dal massacro uditivo. Ampia la zona merchandise, dove i gruppi si sono superati nello sfoggiare capi d’abbigliamento dai disegni coloratissimi e originali ed edizioni in cd e vinile di ottima fattura. Economici anche i prezzi delle bevande, come unico neo rileviamo i pochi stand alimentari e la limitata varietà degli stessi, veramente l’unico difetto riscontrato in un festival organizzato impeccabilmente e che ha avuto condizioni di suono pressoché ottimali dal primo slot delle 14.30 all’ultimo, conclusosi a notte fonda. Per i dettagli dell’evento (siamo riusciti a coprire quindici gruppi, oltre ci è stato veramente impossibile andare) passate oltre, armatevi di pazienza e scoprite come potreste occupare proficuamente nel 2018 l’ultimo fine settimana di febbraio.
TRANSIENT STATE
Tocca ai cinque di Leiden, vicini alla pubblicazione dell’album d’esordio “Rearranged” (previsto in uscita per la settimana successiva al festival, il 3 marzo), il compito di aprire la lunga maratona del Complexity Fest. La sala piccola del Patronaat è poco più di una zona bar con palco annesso, anche se l’attrezzatura non è affatto di basso livello. Lo spazio per suonare è ristretto e di poco rialzato rispetto a dove staziona il pubblico, tuttavia l’acustica è buona e i Transient State, superato qualche attimo di nervosismo per i problemi tecnici che ritardano l’inizio del concerto, possono aggredire senza ulteriori intoppi a frenarli. I ragazzi cercano di essere tante cose in una, alternando proposizioni differenti di se stessi da una canzone all’altra. Djent, metalcore tecnico, modern-thrash, prog anticonvenzionale di impronta nordica: la band rivela diverse facce di sè, segnalando le proprie influenze base in modo netto (Tesseract, Periphery, Leprous, Meshuggah) e una certa prevedibilità di fondo. Rispetto a chi verrà dopo, qua sembra di capire un attimo in anticipo dove interverrà un cambio di tempo, quando il cantante passerà dalla voce urlata al pulito, oppure l’istante in cui la pressione andrà scemando per consentire il fluire di un melodicissimo assolo. Niente di preoccupante, i Transient State le loro carte se le giocano benino, soltanto comprendiamo quanto siano ancora un poco acerbi e meno sicuri di chi frequenterà i palchi nel proseguo della manifestazione. Come prima prova dinnanzi alle nostre orecchie e ai nostri occhi, la consideriamo comunque superata.
(Giovanni Mascherpa)
EXTREMITIES
È il turno degli Extremities, dopo la parentesi piacevole ma ancora acerba dei Transient State. Olandesi, allievi della Metal Factory ed in essa svezzati da professori quali Ruud Jolie dei Within Temptation, con all’attivo un solo EP, l’eccellente “Rakshasa”, si presentano sul palco con una sicurezza inusuale per una band agli esordi, sicurezza che fa loro guadagnare immediatamente l’antipatia del sottoscritto. Antipatia che in questa recensione non potrà essere in alcun modo sfogata, perché, al netto delle smorfie del vocalist Thimo Franssen e delle pose degli altri membri, gli Extremities sono oggettivamente inattaccabili, nel muoversi in perfetto equilibrio tra melodie aeree ed improvvise recrudescenze. Così “Neurosis” impressiona per una parte iniziale devota ai Tool che poi deraglia nel post-metal, “Suppression Edit” piacerebbe agli ultimi Faith No More, mentre “Rakshasa” lascia posare una melodia arabeggiante su arrembaggi Meshuggah. Il tutto suonato sfoggiando, come si diceva, una sicurezza invidiabile. L’acquisto del loro EP, a fine concerto, risulta un dovere.
(Stefano Protti)
DISILLUSION
Ragazzi un po’ sfortunati, rimasti al palo dopo il cambio di rotta repentino di “Gloria”, i tedeschi Disillusion con l’ep “Alea” hanno dato l’idea di voler tornare quelli fascinosamente barocchi, ma classicamente progressive death metal, dello splendido esordio su lunga distanza “Back To Times Of Splendor”. Album riproposto nella sua interezza nel 2015 a Vienna, occasione che deve aver convinto il polistrumentista Andy Schmidt che la sua creatura potesse tornare a calcare gli stage europei a testa alta. Primo gruppo ad esibirsi sul palco principale, i quattro di Lipsia vedono davanti a sé un numero di persone abbastanza nutrito, che accoglie con vivo interesse quanto gli viene proposto. La band è in palla, si nota la felicità dei musicisti per l’essere di nuovo parte attiva della scena musicale e di poter rimettere in circolo quella particolare commistione di eleganza, grazia ed estremismo che li ha resi un decennio fa una prelibata suggestione underground. L’esibizione si snoda trascinante, magica, traghettata dallo spirito gioioso, se vogliamo anche un po’ bambinesco, del leader, che si muove tarantolato, quasi danzando, al ritmo di note multicolori, che fluttuano nell’onirico, si tingono di fiaba, aggrediscono veementi, toccando sempre sentimenti puri e armonici. Ci immaginiamo d’immergerci nella ricchezza di una corte rinascimentale quando ascoltiamo i Disillusion, magari non impeccabili in tutti i dettagli, con la teatrale voce di Schmidt che segnala alcune imperfezioni, eppure così appassionati da portarci quasi alla commozione nei passaggi più enfatici. Il quarto d’ora di “Back To Times Of Splendor”, posta strategicamente in chiusura, regala un prezioso crogiolo emotivo, trasportandoci in un altrove intangibile, coloratissimo, profumato di essenze rare. Quella dei Disillusion è stata sicuramente la prestazione più toccante del festival.
(Giovanni Mascherpa)
VIRVUM
Uscito come autoproduzione a settembre 2016, “Illuminance” dei Virvum si è guadagnato una piccola fetta di notorietà fra i cultori del death più esasperato sul fronte della tecnica strumentale. Se effettuate una rapida ricerca su Bandcamp concentrandovi sui tag ‘death’ e ‘progressive’, uno dei primi nomi che vi salterà fuori sarà proprio quello dei ragazzi di Zurigo. Quando si presentano, i quattro sono accolti da boati che, a dirla tutta, non si sentiranno più così forti nel resto della giornata. Ci guardiamo attorno un po’ stupiti, a dire il vero, sentendoci quasi colpevoli per la nostra scarsa conoscenza di questo giovane act. Non ci convincono subito, i suoni ipersaturi dei primi due pezzi ci lasciano perplessi, lasciandoci intendere che i Nostri amino impressionare con volumi alle stelle e cadenze tracotanti e non abbiano in realtà contenuti di spessore da esprimere. Errore. Rimesse le cose a posto al mixer, ecco che i Virvum giustificano le ovazioni tributategli. La formula verte su un death moderno molto carico nel suono, muscolare il giusto, richiamante a tratti Suffocation, Decrepit Birth e Cryptopsy, che fa leva su odissee soliste intricate e prolungate, vero punto focale dei brani. Privi di bassista, non sappiamo se per abbandono definitivo o per motivi strettamente legati alla partecipazione al Complexity Fest, a far la parte del leone è la giostra di fraseggi galattici imbastita dalle due chitarre, che da sola prende quasi tutte le attenzioni. Quello che rimane se lo spartiscono in parti equanimi il drumming furibondo di Diego Morenzoni e l’enorme growl di Bryan Berger, ottimo interprete vocale e frontman di notevole caratura, che crea empatia e si erge a tiranno incontrastato dello stage. Nei Virvum c’è tanta tecnica, ma anche molta passionalità e forza d’animo, di puzza sotto il naso e strafottenza ascrivibile a certi fenomeni dello strumento non vi è nemmeno l’ombra. I quattro ci catturano una canzone alla volta, per fine set la pensiamo esattamente come chi ha urlato a squarciagola al loro indirizzo per tutto il concerto. Riprendendo il titolo del loro full-length, ci hanno realmente ‘illuminato’.
(Giovanni Mascherpa)
UNEVEN STRUCTURE
Dal numero di musicisti che si presenta sul palco, si potrebbe immaginare per gli Uneven Structure qualsiasi tipo di musica, dal noise di marca Swans fino al liscio romagnolo. Dicono che la verità stia nel mezzo, certo, ma a volte è più incredibile della più fantasiosa tra le supposizioni. Perché le soluzioni ritmiche/chitarristiche dei Meshuggah sono state applicate a diversi tipi di musica estrema, ma in nessun caso si erano mai viste addobbare deliziose canzoni prog-rock come quelle proposte al Complexity dai francesi. Matthieu Romarin è un vocalist di enorme talento e guida il combo con sicurezza, muovendosi tra violenti assalti post-metal (“Hail”/”Frost”) e delicati momenti che, pur guardando agli Anathema, li superano in termini di solidità della scrittura. Non c’è molto da dire quando ci si trova di fronte ad un collettivo così maturo e ben affiatato, salvo che forse si potrebbe rimanere per giorni a fissare ammirati la gioia di Arnaud Verrier nel colpire a sangue la batteria, o che il continuo mutare di orizzonti in “Awaken” è una delle più belle sensazioni del prog metal moderno. Concerto splendido, tra gli apici del festival, che conferma le ottime impressioni rilasciate dal loro primo album “Februus” e che, come nel caso degli Agent Fresco, fa crescere a dismisura le aspettative per il nuovo disco in uscita (“La Partition”).
(Stefano Protti)
GOROD
Ci sono i Gorod dei dischi: in vena di sperimentazioni, cercatori di una dimensione più ampia di quella spiccatamente death metal, connotata di atmosfere indefinite e accessibili anche per chi poco era stato avvinto dalle asprezze della prima fase di carriera. Poi ci sono i Gorod dei concerti: una macchina di riff, ritmiche e voci spastiche e tentacolari, che tracima in un baccanale di aggressione allucinata dove la melodia, quando presente, è un rafforzativo della follia, non un suo illanguidimento. Privi del bassista titolare Benoit Claus, in tour con i Nader Sadek, i francesi fanno piazza pulita di tutte le manovre di relativo alleggerimento poste in rassegna in “A Perfect Assolution” e “A Maze Of Recycled Creeds”, concentrandosi sul materiale più fuori di testa e privo di controllo. Le chitarre gareggiano a chi si lancia nell’assolo più strambo e straniante, i divertiti sguardi d’intesa fra Mathieu Pascal e Nicolas Alberny la dicono lunga su quanto se la stiano spassando nell’affrontare, e superare, le difficoltà d’esecuzione previste dai pezzi. Non è da meno la sezione ritmica, che si aggroviglia in tempi contorti aggiungendo intensità e disordine, nonostante la linea guida del singolo brano rimanga sempre comprensibile e l’intensità persista su livelli insostenibili. Julien “Nutz” Deyres rappresenta il frontman ideale per un tipo di proposta simile: growl isterici e urla ancora più dissennate escono con agghiacciante potenza dalla sua gola, intanto che si muove a scatti per lo stage, ridacchiando coi compagni oppure puntando uno sguardo da serial killer su chi ha di fronte. I Gorod ti investono, ti passano sopra e poi vanno avanti e indietro sul tuo corpo finché non sentono che tutto quanto al suo interno si è sbriciolato. Intanto se la ridono, eccome se la ridono! Una simpatica mattanza, potremmo definirla, che travalica addirittura nel brutal quando le invettive diventano particolarmente distruttive. E pensare che negli ultimi album stavano cercando di smussare i toni…
(Giovanni Mascherpa)
BOSSK
I Bossk, se confrontati con gli aggrovigliamenti del grosso della line-up del festival, rappresentano una piccola eccezione alla regola. Da loro confermata, paradossalmente, per vie traverse. Ci sono difatti diversi Bossk all’interno di un singolo concerto, la cui principale peculiarità sta nell’utilizzo della voce. Per il primo quarto d’ora, gli inglesi confezionano lunghe perifrasi interamente strumentali. Ci sarebbe un microfono, ma non vi si avvicina nessuno. Il suono si ingrossa e si assottiglia seguendo ondate irregolari, strizzando l’occhio al post-core, alla psichedelia, azzuffandosi in boli di rumore scossi dal fuzz, oppure vaporizzandosi estatico, quasi pinkfloydiano. Mentre quando le chitarre la finiscono coi ghirigori più astratti, l’ombra dello stoner ruggente, in versione Kyuss ma più metallico, s’interpone glorioso a bloccare ogni latitanza di forza e impeto. Addirittura sentiamo l’odore di zolfo degli Electric Wizard nei riff più maligni, tanto per darci a intendere di non essere chissà che intellettualoidi, questi Bossk. Quando iniziamo a capirci vagamente qualcosa, ecco comparire il cantante, come se nulla fosse, che si mette a urlare indemoniato, con trasporto tipicamente hardcore e invasata cattiveria. Pur essendoci contiguità con quanto sentito fino a quel momento, l’introduzione della voce innalza una muraglia di nero marciume. Neurosis, Amenra e primi Cult Of Luna, finanche gli Knut, arrivano a darsi battaglia. È l’apocalisse, il frastuono si fa stordente, supremo. Così com’è arrivato, il singer Sam Marsh ritorna dietro le quinte e lascia di nuovo i suoi compari a suonare da soli. Lo stesso dispiegarsi dei singoli episodi denota una certa enigmaticità, perché ad avanzamenti lineari si contrappongono saltellamenti fra tante cascatelle elettriche, che prendono strade multiformi e si arrestano in punti inconsueti. Comunque, tra un’alzata di sopracciglia e l’altra, i Bossk ci convincono eccome, alfieri di un sentire post-metal non allineato che risulterà essere, nell’analisi di fine giornata di quanto ammirato, staccato da chiunque altro si è cimentato al Complexity Fest edizione 2017.
(Giovanni Mascherpa)
AGENT FRESCO
Oggi al Complexity, tra due anni a suonare in qualche palasport con il pubblico che conosce a memoria i loro ritornelli, come è ora per i Muse, o i Coldplay. Non è un esagerazione, è il pensiero che si coglie nello sguardo di chiunque stia qui sotto il palco del Patronaat di Haarlem ad ascoltare rapito gli islandesi Agent Fresco, che sono gli unici, insieme agli Uneven Structure, a coniugare la complessità strumentale richiesta dal festival ad una rara sensibilità pop. Complice la duttile voce di Arnór Dan Arnarson (che in certi momenti ricorda Maynard James Keenan) ed un’eccellente tecnica strumentale, il collettivo mostra di avere tutte le carte in regola per proporsi a platee decisamente più numerose di questa. Il collettivo dà vita ad un concerto denso di canzoni dai percorsi ritmici accidentati, che tuttavia non rinnegano nè la scelta di refrain appiccicosi (“Howls”), nè quella di melodie vibranti (la strofa di “Wait For Me”, sospesa tra pianoforte e asprezze elettroniche, sembra rubata alle pagine migliori di James Blake). Efficaci nel coinvolgere un pubblico avvezzo a ben altra violenza, dispensatori di sorrisi, abbracci e spintoni come gli Touché Amoré, ed allo stesso tempo lucidi nell’esecuzione dei pezzi (difficile non riconoscere i Tool nelle scelte ritmiche dei brani più recenti), persino quando questi tracimano nello screamo (“Angst”). Come annuncia soddisfatto Arnarson, il nuovo disco è praticamente pronto e sarà presto in vendita. Voi affidate questa band al produttore giusto, e nessuno li potrà più fermare. Chi scrive l’ha pensato ed ora lo ripete: oggi al Complexity, domani in qualche stadio ad incantar le folle. Le canzoni ed i refrain da acclamare (su tutte una meraviglia come “Eyes Of A Cloud Catcher”) in fondo ci sono già.
(Stefano Protti)
OBSCURA
Chiamati a occupare lo slot appena al di sotto, per importanza, a quello dell’headliner Ihsahn, gli Obscura si rendono protagonisti di un’esibizione piacevolmente sui generis. Per il gruppo tedesco, arrivato a un passo dallo scioglimento definitivo e ripresosi alla grande con l’ultimo album “Akròasis”, l’esibizione olandese serve a rimarcare la propria unicità all’interno del panorama techno-death internazionale. Abbandonato lo sfavillare ubertoso di “Omnivium”, il procedimento di asciugatura del sound, a favore di un ritorno alla relativa essenzialità old-school di “Cosmogenesis”, si riflette inesorabilmente anche nel contesto live. La rinnovata line-up, già resasi protagonista di un convincente tour da headliner nell’autunno scorso, non ha il vizio di cercare di impressionare a tutti i costi con le proprie mostruose capacità tecniche. Piuttosto, si coglie la necessità di muoversi relativamente in punta di piedi, ricamando con fare compito piuttosto che nervosamente assassino e sopra le righe, come hanno fatto poco prima i Gorod. La scelta di avvalersi di suoni abbastanza mansueti, di non pompare i volumi e le distorsioni per ricercare un impatto debordante, gioca a favore di un approccio più simile a quello di un ensemble prog che non a quello di una death metal band a tutto tondo. Considerata la foga immessa anche da gruppi meno estremi come Disillusion o Agent Fresco, i primi minuti sono contraddittori e lasciano interdetti anche il grosso dei presenti, che quasi non reagiscono a quanto arriva dalle casse. Capita l’antifona, e la dimensione quasi raccolta in cui gli Obscura intendono operare, non si non può non ammirare un’esecuzione brillante e fedelissima ai contenuti dei dischi. L’ultimo album e “Cosmogenesis” giocano la parte del leone e, all’annuncio di una “Incarnated” da parte di Steffen Kummerer, allora sì che il pubblico dà segni di vita! Soltanto il growl ‘di gola’ del leader dà qualche piccolo segno di cedimento, mentre le geometrie auliche del basso fretless di Linus Klausenitzer, il più focoso dei quattro, e il dissertare cortese delle due chitarre attorno ad assoli luccicanti armonia, sono un piacere per le orecchie. Le cadenze quasi thrash vecchia scuola della batteria permettono di tenere i pezzi su un grado di fruibilità raro per band di un tale tasso tecnico, così che l’ora disponibile scorre in una via di mezzo fra prog colto, brutalità novantiana e oculato modernismo. Uno dei concerti più garbati dell’intero festival.
(Giovanni Mascherpa)
FRONTIERER
Quando la bieca violenza non basta, quando il math-core non suona abbastanza psicopatico, quando il noise non vi lascia addosso nemmeno un piccolo rimasuglio di ansia, allora è il momento di passare ai Frontierer. I ragazzi scozzesi hanno finora rilasciato un solo ep (“The Collapse”, nel 2013) e un full-length, “Orange Mathematics” (2015), entrambi disponibili in download gratuito dalla loro pagina Bandcamp. La voce su quanto fossero stralunati ha cominciato a girare, non si parla di numeri altisonanti, ma il pubblico giovane rivolto alle sonorità d’attinenza hardcore ha fiutato il colpo grosso. Che i cinque non siano degli sprovveduti e possano aspirare al ruolo di ‘next big thing’ delle sonorità alternative più deviate, ce lo dimostrano ampiamente sul secondo palco del Patronaat. Per farla breve, il prodotto sonoro è il risultato di un rischioso procedimento chimico nel quale i Meshuggah più ambiziosi si mescolano alle movenze spastiche e all’approccio scellerato dei The Dillinger Escape Plan. A condimento, sono piazzate nell’intruglio armonie insane frutto di effetti e indole noise. Un olocausto digitale, in pratica. I Frontierer sono uno di quei gruppi che dal vivo lasciano atterriti. Sgomenti. Perché quello che manca in varietà, è compensato da un’attitudine alla macelleria, all’intricatezza, allo stillicidio neuronale, che non è propriamente rinvenibile ovunque. Chi conosce la sfinente mattanza del full-length d’esordio come chi scrive rimane compiaciuto dal sentire riproposto alla perfezione un tipo di pressione così debordante e un suono così sovraccarico e fratturato. Tutto è suonato alla perfezione, con una ferocia e una concentrazione da primi della classe, a cui contribuisce nello sconcertante effetto generale il pulsare frenetico delle luci, che lascia perennemente in penombra gli strumentisti, fuori controllo nei movimenti quanto precisi nel riprodurre le deliranti partiture dei brani. Fomentati dal singer, sorgono dei piccoli vortici di mosh, unico caso osservato durante la giornata. Un paio di inediti dal nuovo disco in lavorazione ci fanno intendere che di ammorbidire il discorso i Frontierer non ne abbiano voglia alcuna: di ciò siamo ben felici. Nel nome dell’arancione fosforescente, colore principe del campionario visivo della formazione, richiamato dalla maglietta di uno dei chitarristi e in alcuni inserti sulla strumentazione, ci inchiniamo a un prova a dir poco sopra le righe.
(Giovanni Mascherpa)
IHSAHN
…Che poi, il buon Vegard Sverre Tveitan, meglio conosciuto come Ihsahn, ad Harleem ci è venuto per ritirare la chitarra nuova, quella che esibisce sorridente pochi minuti dopo essere salito sul palco. Il concerto in fin dei conti è solo una conseguenza di quel fine. Fossero tutti così, gli effetti collaterali di una scelta, le persone sarebbero tutte più felici. Perché lo spettacolo che presenta Ihsahn prima minaccia (con un pezzo difficile come “Hiber”, dallo sperimentale “Das Seelenbrechen)”, poi accarezza (“Pulse”, un pop cristallino che farebbe invidia ai Depeche Mode) ed infine letteralmente travolge coi pezzi dell’ultimo, stupefacente “Arktis.”. Se “Pressure” è del disco biglietto da visita perfetto, violenza che emerge sottopelle e ritornello solenne, “Until I Too Dissolve” stupisce invece per l’esecuzione r’n’r e per l’affinità con il Devin Townsend più ispirato. Nemmeno il tempo per un ripescaggio più datato (“Frozen Lake Of Mars” in resa splendida) ed ecco “Celestial Violence”, apice di “Arktis” e del concerto, con la sua rassegnata alternanza di placidi paesaggi innevati ed improvvise tempeste polari. Dopo questo, tutto a Ihsahn sarebbe permesso, e lui stesso se lo concede: ripescaggi degli Emperor, “South Winds” e soprattutto “My Heart Is Of The North”, altra gemma dell’ultimo album. Si finisce così, tra sorrisi soddisfatti e strette di mano, con la consapevolezza di aver assistito al concerto di un grande artista nel pieno della sua maturità.
(Stefano Protti)
MNHM
La notte non porta consiglio, fa sprofondare nel surrealismo. Terminato il concerto degli headliner, appaiono in serie compagini dedite ognuna a sonorità discretamente sperimentali. Ognuna a modo suo, le band che ci accompagnano nel cuore della notte s’intrattengono in lavorazioni del suono pittoresche, che provano a cambiare dall’interno stili cristallizzati nelle rocce del tempo. Gli MNHM, prima chiamati Mannheim, sono una formazione strumentale olandese che ha la bella idea di riempire il palco di piante – quelle che voi avete in un angolo del soggiorno o sul terrazzo, per intenderci – e di far dialogare chitarra, basso e batteria con il sax. La presenza dello strumento di impronta jazz li fa accostare, per loro stessa autoconfessione, a Zu e Shining: l’etichetta ‘blackjazz’ se la sono stampata addosso con evidente orgoglio. In verità, la schizofrenia degli avanguardisti italiani e norvegesi compare solo in piccola misura, gli MNHM sposano fluttuazioni vicine a quelle del post-rock e post-metal strumentale, dove comunque il sassofono va ben oltre l’essere un mero abbellimento estemporaneo. Le muraglie di chitarra e basso denotano durezza e profondità in misura sufficiente da incontrare i favori di una platea per la maggior parte formata da metallari puri, mentre lo strumento a fiato dona un tocco di assurdità e divertimento, uscendo dall’alveo ritmico e bighellonando in svolazzi orecchiabili, pur crogiolantisi in una sobria stravaganza. Come degli Isis ammorbati di jazz ritagliato sui gusti di altezzosi intellettuali, i quattro scolpiscono mantra pastosi e dalle molte striature cromatiche, calibrati fra andamenti tempestosi e addolcimenti minimali. Il Patronaat si sta inesorabilmente svuotando, ma chi non ha ancora voglia di abbandonarsi alle braccia di Morfeo va a scoprire una perla niente male del sottobosco alternativo/strumentale europeo. Attendiamo con fiducia il secondo album “Of Empire’s Past”, in uscita il 5 maggio.
(Giovanni Mascherpa)
MUTINY ON THE BOUNTY
Sarà la stanchezza, ma dei gruppi post-headliner i Mutiny On The Bounty sembrano essere gli unici con velleità commerciali. Il loro è un post-rock strumentale sanguigno e danzereccio che mostra diversi gradi di parentela con i Battles, pur superandoli nella scrittura di melodie a presa rapida. Così, se “Mapping The Universe” tiene fede al titolo con una lunga cavalcata dai toni space (immaginate “Contact” dei Daft Punk in versione stoner), un pezzo come “Mkl Jksn”, mondato di tutti gli orpelli da studio, è assolutamente contagioso nel ritmo e nell’interplay chitarristico che attraversa i generi senza mostrare punti deboli. L’interazione con il pubblico mostra un piglio molto meno riflessivo e distaccato di chi li ha appena preceduti, c’è un che di festaiolo ad animare i Mutiny On The Bounty. Scambi di convenevoli cerebrali si accorpano a un’indole quasi da party, secernendo una dicotomia solo apparente. I presenti percepiscono questa voglia di scatenarsi, e se non arriviamo a vedere balli e mosse convulse è solo per le ore in piedi sul groppone e il poco spazio disponibile. I quattro si sbattono più che possono, applicando un’attitudine da concerto quasi punk a stilemi allucinati, pur nella scorrevolezza di fondo. Concerto trascinante, band da seguire con attenzione e curiosità.
(Stefano Protti e Giovanni Mascherpa)
RUBY MY DEAR
Gli organizzatori del Complexity sono una banda di sognatori al limite della schizofrenia, sia detto con tutta l’ammirazione possibile. Non c’è altro motivo che potrebbe spiegare razionalmente un programma che si prolunga per altri quattro concerti dopo l’esibizione dell’headliner, uno più curioso (e convincente) dell’altro. Anzi, si potrebbe dire che, da Inshahn in poi, inizia un secondo festival, un party privato ad uso e consumo degli organizzatori e dei loro gusti. Il pubblico (sempre più sparuto) che scende le scale per dirigersi al concerto di Ruby My Dear è difficilmente impressionabile, dopo l’assalto al buio operato dai Frontierer e le piante ad ornare il set psichedelico degli MNHM, ma quell’enorme consolle che troneggia solitaria al centro del palco desta comunque qualche perplessità. Dietro il moniker Ruby My Dear si nasconde infatti Julien Chastagnol, dj francese autore di due album (l’ultimo del 2013) e di diversi ep, nati mescolando frammenti jazz/lounge a basi breakcore e dub-step. Il dubbio che sia finito nel festival sbagliato svanisce immediatamente a metà del primo pezzo, perché quella di Ruby My Dear è musica complessa, ci vuole esperienza e tecnica per sovrapporre suono su suono, trasformare voci in canzoni. La gente non balla, ma non è colpa della musica, è che a quasi undici ore dal primo concerto tutti sono stremati. Eppure il dj-set funziona, e lo fa senza mai ricorrere a suoni industrial (che qui rappresenterebbero una facile scorciatoia), senza mai accennare ad una nota di chitarra, solo grazie a pezzi che sono, nei loro continui richiami agli anni ‘40, sempre più claustrofobici che accattivanti. “It’s not my cup of tea”, sembrano dire gli sguardi dei presenti (e pure del sottoscritto), ma nessuno si muove da sotto il palco, e questo vorrà pure dir qualcosa.
(Stefano Protti)
AIMING FOR ENRIKE
Saranno rimaste quindici persone, fra cui l’intera line-up di Ihsahn escluso il mastermind, ad aspettare pazientemente nella sala piccola l’inizio del concerto degli Aiming For Enrike. Purtroppo c’è da attendere oltre venti minuti rispetto all’orario previsto, tempo durante il quale musicisti e addetto allo stage armeggiano con alcuni cavi che non ne vogliono sapere di funzionare. Nonostante il tempo perduto, il duo formato da Simen Følstad Nilsen alla chitarra e Tobias Ørnes alla batteria – membro di Ihsahn e Shining – non accorcia il set previsto e si imbarca in cinquanta minuti di peripezie soniche che mai avremmo pensato potessero scaturire da una strumentazione così scarna. I due ragazzi devono avere alle spalle una formazione accademica e un bagaglio culturale oceanico, perché la quantità e la qualità dei dettagli, delle movenze, delle punteggiature previste nelle loro mutevoli composizioni basterebbero per riempire un’enciclopedia della musica. Nilsen scova infinite risorse nella sei corde, ampliandone i registri espressivi saltellando da un pedale all’altro, se non addirittura accovacciandosi a pigiare questo e quest’altro effetto, estraendo così una fitta serie di suoni inediti che non riusciamo a collocare in nessuna corrente o genere ben preciso. Ørnes si destreggia fra groove elementari, forbiti scivolamenti jazz e impeti rock, anche il tempo più semplice sembra una pregevolezza d’alta scuola se sottoposto alle sue bacchette. Apprezziamo un tocco caratteristico, che è poi la dote che separa i musicisti di prima categoria dalla massa dei loro colleghi. I pezzi degli Aiming For Enrike prendono abbrivio da idee primordiali, pochi accordi, due tocchi ben calibrati sui tamburi, e si evolvono per gradi impercettibili fino a sfociare in jam session preordinate dove confluiscono noise – nelle sue conformazioni meno crudeli – funk, post-rock, scuotimenti quasi ballabili, free-jazz e sperimentazione a briglia sciolta. Chi scrive non ha parametri disponibili per un raffronto con altri realtà similari, l’anno passato gli Aiming For Enrike sono passati anche dall’Italia per un paio di date a supporto degli Jaga Jazzist, per cui un primo raffronto può essere fatto con il jazz/rock d’avanguardia dei loro più famosi connazionali. Per il resto vi rimandiamo al primo album “Mao Miro” (2012) e al più recente “Segway Nation”, uscito a primavera 2016. Alle tre e mezza, il Complexity 2017 va in archivio. Una Haarlem ancora abbastanza animata nel suo centro ci accoglie sulla via del rientro, non poco stanchi ma abbondantemente appagati nella nostra fame di conoscenza e divertimento.
(Giovanni Mascherpa)