Report di Simone Vavalà
Foto di Benedetta Gaiani
“Violence Dimension: Destination Europe”.
Se il primo è il titolo dell’ultimo disco dei Conan, il secondo è il manifesto d’intenti che ha riportato sulla strada il trio di Liverpool, accompagnata in questa scorribanda dai Thra; il quartetto di Phoenix è un contraltare quasi perfetto per la band inglese, una proposta che permette al pubblico di godersi sfumature differenti di quel caleidoscopio a tinte marce che chiamiamo sludge, e che negli anni ha trovato propagazioni ed estensioni diverse. Spesso anche sperimentali, fin troppo, mentre questa sera al Legend Club, ci si basa ancora sugli essenziali: fango, rumore, acufeni e una sana dose di ignoranza.
Cos’altro desiderare dal sabato milanese?
Non sono ancora le otto e mezza quando si spengono le luci e i THRA iniziano il loro assalto sonoro. A memoria, la band americana, nonostante l’ottimo successo del loro unico full-length, e una discreta attività – sia discografica a livello di EP, sia in sede live – non aveva mai varcato l’Oceano Atlantico, e nonostante abbiano solo quaranta minuti a disposizione, sembrano decisamente intenzionati a farsi notare anche sul suolo europeo. Riuscendoci, per quanto ci riguarda.
Come si può cogliere dall’introduzione, siamo decisi fautori della declinazione più diretta e psicotica dello sludge, senza tanti fronzoli o inserti improbabili, ed è proprio quello che questi quattro allucinati abitanti del deserto mettono sul piatto.
A voler essere puntigliosi, ci sono dei netti momenti di ispirazione death, soprattutto quando è il chitarrista a occuparsi delle parti cantate. Un death molto old-school, che ha comunque i riff forsennati come punto di forza, tanto che ci viene da pensare ai (benemeriti) Sepultura di “Beneath The Remains”.
Per il resto, la follia traspare dalle mani, dalle movenze e dall’ugola di Zach Nixon-Sandberg, bassista e cantante che non ha nulla da invidiare, nella presenza scenica, a grandi intellett… ehm, ai grandi frontman della sponda est; anche se i loro veri maestri, rispetto a band ‘classiche’ come Weedeater o Bongzilla, sono probabilmente band come Thou o Primitive Man; di cui, non a caso, tra i cinquanta-settanta presenti durante l’esibizione, le magliette abbondano.
Il loro è un muro di stridori e feedback che tuttavia non coprono mai l’impatto delle chitarre, efficaci e molto ritmate, anche nei momenti più fumosi, e la brutalità da fabbro che Grey Smith mette in gioco dietro le pelli.
I decibel, peraltro, sfiorano a tratti la soglia di rischio, aumentando inevitabilmente il masochistico godimento collettivo; non a caso, il pubblico apprezza e incita moltissimo, anche quando la band annuncia due bis al posto della sola traccia che il tempo sembrava prevedere.
Sono passati sei anni quasi esatti dall’ultima data milanese dei CONAN, anche allora proprio qui al Legend Club.
A parte un paio di dischi pubblicati nel mentre, la grossa novità sul palco è la presenza al basso di David Ryley, noto innanzitutto come fondatore dei seminali Fudge Tunnel; e non si può dire che la scelta non sia azzeccata per rinnovare l’apporto alle quattro corde, dato che si nota da subito, in continuità con quanto detto per la prima band, l’impatto fracassone della sezione ritmica.
Ryley è un vero e proprio schiacciasassi, e come abbiamo potuto sentire durante il veloce soundcheck pre-esibizione, il suo basso arriva sotto una coltre di fuzz ed effetti davvero devastante. Parimenti, il suono della batteria è una cristallina sequenza di pestoni in faccia, resa peraltro molto dinamica dal peculiare uso dei piatti; una nota distintiva nel suono dei Conan, che accresce l’adrenalina nel pezzi più accelerati.
Jon Davis, al solito, si trasfigura fin dalle prime note: quando sale sul palco prima del concerto per rivedere un po’ il suono al mixer – e lo farà spesso, come spiegheremo tra poco – è il solito, tenero nerd occhialuto e sorridente, ma quando inizia a sciorinare i suoi riff e il suo cantato abrasivo, si conferma un frontman degno degli annali dell’intera scena sludge. Dicevamo dei tentativi di ‘correzione’, che in realtà sono rivolti pressoché solo ai volumi, e non riusciamo a dare torto al leader della band di Liverpool: purtroppo, nonostante, forse, il loro concerto migliore a cui abbiamo assistito in termini di pulizia del suono, manca proprio la pacca a cui i Conan ci hanno sempre abituati: quella sensazione di stordimento e quelle vibrazioni nello sterno che, in passato, li aveva messi nella ristretta elite di band come Sunn O))) o Yob.
Un vero peccato, perché la band, appunto, suona molto bene, non ci sono da fare critiche sul missaggio, e anche la scaletta è ben studiata: a fronte di quattro pezzi dal disco uscito la scorsa primavera, il resto del concerto pesca un paio di brani dall’immarcescibile “Revengeance” (tra cui l’adrenalinica “Thunderhoof”) e almeno uno da quasi ogni altro disco, compresa “Satsumo” dal loro primo EP.
Viene dimenticato in toto “Blood Eagle”, per molti il loro capolavoro, ma il finale affidato all’iconica (e sempre colma di devozione per un’altra band) “Volt Thrower” ci lascia uscire complessivamente soddisfatti dal locale. Peccato, appunto, che in passato una sola ora di loro concerto garantisse ronzio nelle orecchie per una dozzina di ore, ma il mestiere e la capacità di colpire nel segno restano sempre immutate.
THRA
CONAN
























































