In questa estate falsissima non è il refrigerio che si va a cercare: il clima oltremodo mite ne attutisce il bisogno. Si va piuttosto a pretendere una iniezione di adrenalina che attizzi l’animo avvizzito dalla permanenza in città, dal torpore ferragostano incombente e dallo spaventoso nulla metropolitano che solo un’urbe svuotata di umanità sa regalare. Se quindi non si è in villeggiatura in Italia o all’estero, non vi è nulla di meglio che accogliere una nuova incursione dei Converge, l’hardcore elevato ad arte immortale, il genio devoto a un’idea musicale incorrotta e spogliata di qualsiasi altra esigenza che non sia la cruenta espressione delle proprie idee, dei propri pensieri, delle emozioni più profonde e inesplicabili dell’individuo. Il tipo di compagnia cambia rispetto all’ultima razzia italica di fine 2012: stavolta è il crust nordico, rappresentato da Okkultokrati e Martyrdöd, che accompagna la compagine di Salem, per una serata che si presenta all’insegna della violenza belluina. L’incertezza meteorologica regna sovrana, e nella mattinata del giorno previsto per il concerto nuove scariche di pioggia convincono gli organizzatori a spostare le esibizioni dal palco a maggior capienza situato all’aperto, a quello più piccolo, al coperto, posto nella zona antistante l’ingresso. Trattasi del male minore di fronte all’elevata possibilità dei subire l’ennesimo nubifragio estivo, e quindi di vedere completamente annullata la serata. Ne conseguono però spazi un po’ ristretti e un impianto audio non esattamente consono alla potenza di fuoco dei musicisti intervenuti, elementi che non andranno comunque a inficiare il buon esito della serata…
OKKULTOKRATI
Si fa presto a dire crust. Si può essere frettolosi e approssimativi nell’etichettare una formazione, spogliandola in questo modo di una parte dei suoi attributi e incasellandola brutalmente in una cerchia dove tanti sono i punti in comune, e altrettanti quelli di divergenza, che possono segnare il successo o l’inabissamento. Gli Okkultokrati fondono il minimalismo sprezzante del crust/punk con abbondanti dosi di metal estremo, come si usa oggigiorno, solo che da questa miscellanea tutto sommato prevedibile prendono le mosse per estraniarsi dalle legioni di ossessivi picchiatori naviganti nella melma più scura, e si mettono a irridere e circuire gli ascoltatori. L’attitudine è più simile a dei Misfits inaciditi e arcigni che a quella di insani terroristi come i The Secret, e a sganassoni da KO i norvegesi alternano a più riprese nelle divagazioni chitarristiche un ciondolare ozioso e andamenti divertiti e non-sense, che si distaccano parecchio rispetto alla vigoria ritmica ostentata per l’intera mezz’ora di esibizione. Echi motorheadiani si dilatano e si disperdono in barlumi di melodie post-punk, mai predominanti e striscianti in sottofondo per venire a galla compiutamente in assoli che poco c’entrano con il genere di appartenenza, e proprio per questo si fanno ricordare per il carattere anomalo e infingardo. Non è esattamente la prova tutta muscoli, schiaffi e coltellate che ci saremmo aspettati, e ne siamo contenti; i cinque di Oslo non scatenano reazioni isteriche ma, almeno per quanto ci riguarda, finiscono dritti dritti nella lista delle band da tenere d’occhio e scoprire con calma una volta tornati tra le mura domestiche.
MARTYRDÖD
Con il secondo gruppo in programma si torna al tradizionale. Fin troppo. I Martyrdöd pestano vigorosi senza stare troppo a curarsi di dare una identità precisa e distintiva a quanto propongono: sventolano fiero il vessillo dell’ignoranza e partono alla carica a piè sospinto, un po’ mandria di bestiame liberata disordinatamene al pascolo, un po’ masnada di ubriachi intenta a fracassare arredi urbani in piena notte. Gli autori del recente “Elddop”, secondo album realizzato per Southern Lord, dovrebbero in teoria inserirsi nell’intasato reame del blackened crust/sludge, forti anche dell’annessione nella line-up di membri di Agrimonia, Skitsystem e Miasmal. Purtroppo le idee latitano, si parte e si finisce più o meno sempre alla stessa maniera ed elementi imprescindibili per questa tipologia di suoni, ossia un guitar-work oleoso e grattato allo stesso tempo, vocalizzi caustici e ritmiche imbizzarrite, difettano nel manifestarsi al massimo delle forze. La voce di Mikael Kjellman è il ringhio arruffato e confuso di un cane al passaggio di un passante e, come dice il proverbio, il frontman abbaia ma non morde; è divertente, questo sì, vederlo atteggiarsi in smorfie caricaturali e finto-rockstar, oppure osservarlo mentre armeggia con gli occhiali da sole, tramutandosi quando li indossa in una versione più giovane di Al Jourgensen. Latitando sia l’impatto che il valore artistico, ci sentiamo di archiviare la performance dei Martyrdöd come un discreto riscaldamento e niente più, in attesa dell’alluvione – solo metaforica – che andrà a manifestarsi con l’entrata in scena dei Converge.
CONVERGE
Abbiamo sentito concerti con una resa audio notevolmente migliore. Jacob Bannon è stato più in palla vocalmente in altre occasioni. E gli spazi per muoversi erano più esigui di quanto è lecito attendersi normalmente per gruppi di tale livello. Pazienza, passa tutto in secondo piano quando chi ti sta davanti riesce a darti così tanto umanamente, esprimendo una carica di rabbia, ribellione, schizofrenia che potrebbe smuovere i continenti, e trasforma infatti la contenuta area dinnanzi allo stage in un groviglio di corpi sudati e urlanti. L’acustica un po’ così e un impianto non adeguato a tradurre pienamente l’arsenale atomico dei Converge in un fallout gigantesco fa scivolare il concerto in uno squassante delirio gladiatorio, che puzza di centro sociale anarco-punk, come se i Converge fossero tornati indietro di una quindicina d’anni per quanto riguarda l’habitat designato ai loro live. Ciò non è per forza un male, perché se nell’ultima occasione in cui avevamo ammirato il combo statunitense erano della partita tra il pubblico numerosi elementi parecchio hipster, leccati e schizzinosi verso un vissuto concertistico all’insegna della baraonda e del caos, in questa occasione gli astanti, in particolare nei primi dieci metri a ridosso dello stage, sono ben felici di essere vittima della forza centripeta e di moti sussultori degni di una manifestazione rivoluzionaria. Bannon non è disumano come siamo abituati a sentirlo, le urla sono leggermente sfiatate e il singer lascia che spesso e volentieri siano gli spettatori a cantare; ciò nonostante, il carisma di questo poliedrico artista rimette tutto in ordine, e basta vederlo a braccia larghe, a indicare con le mani e lo sguardo un punto indistinto tra la folla, o sopra di noi, puntando lo sguardo verso altezze vertiginose, perché si rimanga rapiti dalla sua figura. Più sporche e scarne che su disco, “Aimless Arrow”, “Dark Horse, “Axe To Fall” non vedono diminuire il loro potenziale, questo è solamente declinato in una accezione molto cruda e meno evoluta e sfaccettata di quanto i Converge ci abbiano mostrato da “Jane Doe” in poi. La scelta di puntare quasi esclusivamente sul materiale più stringato e diretto, ad eccezione dell’apprezzata parentesi screamo, vibrante di una delicatezza drammatica, di “Grim Heart/Black Rose”, porta a un cozzare di materia umana davvero magnifico, sia per chi l’ha vissuto in prima persona affogando nel sudore individuale e altrui, sia per coloro che l’hanno osservato da posizioni più tranquille. L’eccessiva compostezza non si addice all’hardcore, che diamine! I quattro, pur in condizioni ambientali non favorevoli, non si risparmiano, e nel finale anche Kurt Ballou e Nate Newton perdono ogni senno e arrivano quasi a contatto con le prime file, schiacciate a pochi centimetri dai musicisti. “Concubine” e “Last Light”, con la sua tragica ascesa e caduta nell’irrazionale, sono i colpi di lancia fatali a un’audience crocefissa per un’ora scarsa da una band tra le più implacabili in circolazione, incapace di essere ordinaria anche quando il contesto non è, in partenza, il migliore possibile.