A cura di Igor Belotti
Giunto alla settima edizione, il festival danese Copenhell sta diventando una realtà sempre più importante nell’affollato panorama di festival estivi scandinavi. Il festival danese ha ormai sostituito la sua controparte svedese, il defunto (perlomeno nella sua versione open air) Metaltown di Gothenburg (che però è stato resuscitato in versione indoor per l’edizione 2016). Oltre ad avere un taglio decisamente metal e una selezione di band simile a quella che fu di Metaltown, Copenhell è anch’esso un festival “cittadino”: l’evento si svolge infatti in una zona industriale nota come Refshaleøen, raggiungibile in poco tempo con bus dal centro della capitale danese. Avrete quindi l’opzione di scegliere tra campeggio o stare comodamente in uno degli hotel della città. Il festival è articolato su tre palchi (Helviti, Hades e Pandæmonium) e l’area è distribuita tra un grande spiazzo di ghiaia e una collinetta d’erba. Presenti inoltre un vario numero di stand, tra varie alternative di cibo, merchandise, dischi e quant’altro, oltre che un beergarden all’aperto ed uno nel tendone, un villaggio vichingo ed un‘area dove potrete dare sfogo alla vostra aggressività demolendo a mazzate delle automobili in disuso. Se la selezione di band vi intriga e siete stufi di megafestival come Hellfest e Wacken – o semplicemente siete alla ricerca di una vacanza alternativa – Copenhell potrebbe fare al caso vostro. Quello che segue è il nostro resoconto della tre giorni!
23 GIUGNO
ALICE COOPER
Purtroppo qualche problema logistico non ci permette di assistere alle esibizioni precedenti di questa giornata d’apertura del festival. Arriviamo però in tempo per gustarci l’esibizione del leggendario Alice Cooper. Negli ultimi anni non sono certo mancate le occasioni di ammirare l’artista americano dal vivo: ultimo esempio in ordine cronologico, l’apertura al tour d’addio dei Mötley Crüe. Sintomo evidente del fatto che al giorno d’oggi anche artisti con oltre 40 anni di successi sulle spalle come Alice Cooper devono essere continuamente in tour per garantire introiti necessari alla propria macchina per funzionare. Il concerto di questa sera per chi scrive è il più memorabile dell’intera giornata, se non dell’intero festival. All’età di 68 anni Alice non mostra segni di cedimento né tantomeno di volersi fermare. Accompagnato da una band di prim’ordine con ben 3 chitarristi, tra cui spicca l’acquisto più recente Nina Strauss, Alice Cooper ha un repertorio sterminato di hit al quale attingere. L’apertura è affidata a “The Black Widow”, estratta dal classicissimo “Welcome to my Nightmare”’ del 1975, e si prosegue con “No More Mister Nice Guy”. Da questo momento in poi è un susseguirsi di hit, tra cui notiamo un solo estratto dal repertorio più recente: “Woman of Mass Destruction” da “Dirty Diamonds” del 2005. D’altronde il tempo è tiranno e la lista da cui attingere spazia per 4 decenni. Una parte non indifferente dello show è affidato ai “trucchi” dello zio Cooper: la ghigliottina (assolutamente convincente – impossibile capire quando la sua testa viene sostituita!) oppure quando Alice viene trasformato in una versione abnorme che si aggira per il palco alla maniera di Eddie degli Iron Maiden. Il finale del concerto è dedicato ai più recenti o meno caduti del rock: vengono eseguiti in un medley brani di altri artisti, con tanto di backdrop/lapide commemorativa che viene scoperta man mano che le canzoni vengono suonate. Si parte con “Pinball Wizard” degli Who, dedicata all’amico e compagno di baldorie Keith Moon, a cui segue “Fire” dedicata a Jimi Hendrix, per proseguire con una “Suffragette City” omaggio ovviamente al duca bianco David Bowie e infine ‘Ace of Spades’, cantata dal bassista Chuck Garric e dedicata ovviamente a Lemmy dei Motorhead. Chiudono il concerto i super classici “I’m Eighteen” e “School’s Out”, che vede ospite DJ Ashba, con la canzone che si tramuta per un attimo in “Another Brick in the Wall” dei Pink Floyd. Come bis viene invece eseguita “Elected”, con tanto di maschere di Donald Trump e Hillary Clinton.
SIXX:A.M.
Purtroppo già durante l’esibizione di Alice Cooper nubi si addensano all’orizzonte di quella che fino a quel momento è stata una calda e soleggiata giornata estiva. Presto comincia a cadere qualche goccia che prima dell’esibizione dei Sixx:AM si trasforma in un acquazzone. Riparati sotto la tettoia di uno degli stand, riusciamo comunque a vedere il concerto, benché l’angolazione non permetta una visuale e nemmeno un ascolto ottimale. Quello che riusciamo a vedere sembra essere un buon concerto, nonostante il maltempo. La band dell’ormai ex- Mötley Crüe Nikki Sixx e DJ Ashba (ex-Guns ‘N Roses) apre il concerto con “This is Going to Hurt” dall’omonimo disco del 2011, ma già dalla seconda “Rise” l’attenzione si sposta ovviamente verso il nuovo “Prayers for the Damned”, che la band è impegnata a promuovere in questi festival estivi e i cui estratti rappresentano la maggior parte della scaletta. Non mancano ovviamente le hit “Life is Beautiful” e “Lies of the Beautiful People”, ma per apprezzare veramente il concerto rimandiamo l’occasione a quando il tempo sarà più clemente.
SCORPIONS
Prima dell’esibizione dei veterani Scorpions il tempo concede una tregua, ma già dopo l’inizio del concerto ricomincia a piovere sempre più copiosamente per quella che sarà una costante di tutto il festival: sole e caldo durante il giorno e pioggia durante gli headliner. Precipitazioni accompagneranno difatti anche le esibizione di King Diamond e Black Sabbath. Dopo il clamoroso “finto” pensionamento del 2011, gli Scorpions non sembrano affatto intenzionati a ritirarsi dalle scene, anzi. In questa occasione una certa curiosità viene suscitata dal fatto che gli Scorpions stanno utilizzando per questi tour i servigi dell’ex-Motörhead Mikkey Dee, sostituto (temporaneo?) del pur bravo James Kottak. L’apertura viene affidata a “Going Out With a Bang” estratta dall’ultimo “Return to Forever”. Il drumming preciso e potente di Mikkey Dee impreziosisce infatti i brani della band tedesca, scaletta che per questo tour è incentrata sul periodo “classico”. Si alternano infatti i grandi classici degli anni ’80, con lo zoccolo duro del repertorio preso dai dischi compresi tra “Lovedrive” del 1979 e “Love at the First Sting” del 1984: “The Zoo”, “Make it Real”, “Coast to Coast”, “Blackout”, “Dynamite”, oltre ovviamente alle famigerate ballate “Still Loving You”, “Send me and Angel” e “Wind of Change” – che costituiscono un blocco un po’ indigesto se non impazzite per questi tormentoni della band tedesca, soprattutto per quanto riguarda le ultime due canzoni menzionate, che vengono eseguite consecutivamente. Il repertorio degli anni ’70, quello con Uli Jon Roth originariamente alla chitarra, viene invece “sacrificato” e rappresentato da un medley che comprende “Top of the Bill”, “Steamrock Fever”, “Speedy’s Coming” e “Catch Your Train”. Gli Scorpions sono sempre stati furbi, se non addirittura ruffiani, nelle loro scelte di carriera, una sensazione che in qualche modo si respira anche questa sera attraverso il repertorio proposto live. Scelte che però hanno consentito alla band di sopravvivere per un periodo così lungo e di attirare ancora un grande pubblico dopo quasi 50 anni di carriera.I due pilastri della band – il cantante (e occasionalmente chitarrista dal vivo) Klaus Mein e il chitarrista Rudolf Schenker – hanno ormai raggiunto la venerabile età di 68 anni, entrambi in buona forma, seppure nel caso di Klaus Mein si faccia più difficile non notare l’età ormai avanzata. Tutta la band utilizzerà abbondantemente la passerella centrale nonostante la pioggia battente e l’intero palco è disseminato di megaschermi che proiettano immagini. Il concerto si rivela coinvolgente e il pubblico partecipa, ma per chi scrive la serata ha già un vincitore, ovvero un altro 68enne chiamato Alice Cooper.
WITH THE DEAD
A notte inoltrata, è finalmente tempo di ammirare dal vivo la nuova creatura dell’ormai ex-Catherdal Lee Dorrian, in azione in diversi festival selezionati dopo l’anteprima di Roadburn in Olanda ad aprile. Nonostante abbia iniziato la propria carriera con il grindcore dei Napalm Death, il cantate inglese è stato legato per talmente tanto tempo ai Cathedral, la sua band precedente, che è quasi strano vederlo all’opera in un altro contesto, nonostante tra With the Dead e Cathedral non ci sia certo la stessa discontinuità come tra quest’ultimi e i Napalm Death. Anzi, le coordinate sonore della nuova band Lee Dorrian si trovano relativamente vicine a quelle dei Cathedral, entrambe ascrivibili al doom.Dimenticate però la scorribande più sabbathiane e vicine ai seventies di alcuni album dei Cathedral: con i With the Dead Lee Dorrian si spinge ancora di più in territori doom sempre più funerei, lenti e strazianti, come a proseguire il discorso iniziato con album quali “Forest of Equilibrium” e “Endtyme” della sua band precedente. Quali compagni d’avventure migliori per questa avventura se non due componenti della line-up originale degli Electric Wizard (poi nei Ramesses)? Peccato solo che Mark Greening se ne sia andato per disaccordi sia con lo stesso Lee Doorrian che con Tim Bagshaw prima che la band debuttasse dal vivo. In quel di Copenhell sono della partita il batterista Alex Thomas (ex-Bolt Thrower) e il bassista Leo Smee (ex Cathedral, ex Chrome Hoof), a quanto pare ora considerati membri a tutti gli effetti della band e non solo turnisti live. Il doom metal del quartetto sortisce il suo effetto lento e sofferente con Lee Dorrian cerimoniere di questo rituale, le atmosfere sono plumbee, i ritmi dilatati, i pezzi si distinguono a malapena gli uni dagli altri, permeati da un senso di disperazione e supplizio. Una preziosa occasione di rivedere all’opera un guru del doom metal come Lee Dorrian alle prese con quello che sa fare meglio.
24 GIUGNO
AMON AMARTH
Che i viking metaller Amon Amarth siano ormai da anni una forza commerciale di prim’ordine in ambito metal non è certo una novità, anzi. Ecco quindi che i nostri si esibiscono in pieno giorno sul palco principale del festival con una produzione che solo una band di un certo livello può permettersi, con due grossi drakkar vichinghi ai lati del palco. Questi festival estivi segnano l’ingresso in formazione del batterista Jocke Wallgren, dopo la defezione di Fredrik Andersson. Nulla di nuovo sotto il sole, il tema vichingo troneggia sempre e compare in ogni aspetto della band, che dal vivo è sempre impegnata nel solito headbanging ”circolare”. Chi non può soffrire la proposta del gruppo continuerà a farlo, così come chi li segue con entusiasmo. Segnaliamo la presenza di LG Petrov degli Entombed AD come ospite alla voce durante “Guardians of Asgard”.
ENTOMBED A.D.
Si potrebbe disquisire all’infinito sulla legittimità di questi Entombed A.D., ovvero se considerarli l’attuale incarnazione degli Entombed che furono, oppure una band di mestieranti guidati dal superstite LG Petrov, con alcuni dei membri che paradossalmente hanno ormai superato per anzianità di servizi obuona parte dei membri fondatori del gruppo, in primis lo stesso Nicke Andersson, batterista e autore principale, colui che questa band la creò, ne fu il motore creativo, e poi la abbandonò. Il quadro si complica ulteriormente ora che i membri storici Ulf Cederlund, Alex Hellid e lo stesso Nicke Andersson hanno annunciato due concerti svedesi a nome Entombed previsti per questo autunno/inverno. L’esibizione di Copenhell si apre con “Midas in Reverse”, uno dei pezzi estratti dal nuovo “Dead Dawn”, il secondo album targato “AD”, quasi a voler ribadire il concetto che la band svedese vuole guardare avanti e la volontà di produrre nuova musica, ma la scaletta del concerto si rivela presto inevitabilmente incentrata sui vecchi classici targati Entombed: “Revel in Flash”, “Eyemaster”, “Living Dead”, “Supposed to Rot”, sebbene non manchi nemmeno qualche altro estratto dai due album prodotti a nome Entombed AD. La resa dei pezzi è comunque buona e il quartetto, a cui si aggiunge in sede live un chitarrista aggiuntivo (brasiliano, pare), rende comunque giustizia a questi classici del death metal svedese.
MEGADETH
Dopo l’annullamento dell’esibizione prevista per l’edizione 2015 del festival a causa di un lutto nella famiglia del bassista David Ellefson, l’appuntamento viene rimandato a questa edizione 2016. La band di Dave Mustaine è alle prese con l’ennesimo rilancio, freschi di un nuovo disco “Dystopia” e dell’ennesimo cambio di line-up. Questi festival estivi 2016 sono la prima occasione per molti per testare dal vivo lo stato di salute di questi veterani con la loro nuova formazione. Peccato solo che Chris Adler, il batterista dei Lamb of God ‘prestato’ per le registrazioni di “Dystopia”, non sia già più parte della band, sostituito dal belga Dirk Verbeuren (ex-Soilwork), che nel giro di qualche settimana verrà annunciato come il nuovo batterista del gruppo. L’altro nuovo acquisto, il chitarrista brasiliano Kiko Louirero (ex-Angra) non è certo l’ultimo arrivato ed appare fin da subito in grado di colmare il vuoto lasciato dai suoi predecessori senza problemi – stiamo parlando di gente come Chris Broderik, Chris Poland e soprattutto Marty Friedman. I nuovi brani si amalgamano bene con i classici del gruppo di cui la scaletta è ricca. Ogni fan non può infatti rimanere deluso questa sera: “Hangar 18”, “Holy Wars”, “In My Darkest Hour”, “PeaceSells”, “Wake Up Dead” e una “Tornado of Souls” dedicata a Nick Menza (batterista del gruppo dal 1989 al 1998), scomparso poche settimane prima, fanno capolino nella setlist. A ben 54 anni Dave Mustaine non sembra aver perso nulla di quel carisma velenoso per cui è sempre stato famoso, tantomeno la sua abilità come chitarrista. Potremmo dire che, se osservato da vicino, si notano senz’altro gli effetti del tempo che passa, ma a distanza il nostro appare sempre uguale a se stesso, con la sua capigliatura rossa e quell’aria di sfida che lo hanno sempre contraddistinto.
KADAVAR
Schiacciati tra l’esibizione dei Megadeth e di King Diamond sul palco principale, si esibiscono sul palco minore del festival i berlinesi Kadavar, campioni dal retro rock ormai in grado di competere in termini di popolarità a livello europeo con i big della scena come gli svedesi Graveyard. Da alcuni considerati una realtà innovativa in grado di portare della sana competizione allo strapotere svedese della scena, da altri vengono invece considerati, al pari dei Blues Pills (compagni d’etichetta su Nuclear Blast), il sintomo del fatto che il filone del retro rock abbia ormai esaurito quello che ha aveva da dire. Il trio tedesco prosegue però imperterrito per la sua strada macinando fan e crescendo costantemente. Non riusciamo a vedere solo che qualche pezzo dell’esibizione, ma il gruppo non fa che confermarsi una buona live band come già in altre occasioni.
KING DIAMOND
L’esibizione più importante dell’intero festival, oltre a quella dei Black Sabbath, è per molti quella di King Diamond. Nonostante la sua band odierna sia da tempo per la maggior parte svedese ed il nostro sia residente in Texas da più di vent’anni, King Diamond e i Mercyful Fate rimangono quanto di più leggendario la Danimarca abbia dato al mondo dell’heavy metal. Assistere ad un concerto di King Diamond in quel di Copenhagen rimane infatti qualcosa di speciale. Il cantante danese è impegnato in questo tour estivo nel riproporre l’intero “Abigail”, classico del 1987. Considerando che siamo appunto a Copenhagen e che proprio questa città ha dato i natali ai Mercyful Fate, e che qui membri originali della band ancora risiedono, è quasi ovvio dare per scontato un’apparizione come ospiti di quest’ultimi durante i brani dei Mercyful Fate che ancora King Diamond esegue dal vivo. Ad alcune ore di distanza dal concerto capita infatti di incrociare nell’area VIP Timi ‘Grabber’ Hansen, bassista originale dei Mercyful Fate che suonò anche sui primi due dischi di King Diamond solista, incluso quell’”Abigail” che viene celebrato stasera. Sempre nel backstage viene avvistato anche lo svedese Pete Blakk, chitarrista di King Diamond per tre album tra il 1988 e il 1990. Se si considera che Mikkey Dee, che iniziò la propria carriera professionistica come batterista proprio nella band di King Diamond, si è esibito con gli Scorpions giusto la sera prima, sono alte le speranze di una carrellata irripetibile di ospiti che hanno fatto la storia dell’universo King Diamond. Dopo la consueta intro, il concerto inizia con le note della classica “Welcome Home” e ovviamente la band usufruisce della propria produzione al completo. Il set è quello a cui il nostro ci ha abituato negli ultimi anni, con la classica scalinata che da dietro la pedana della batteria scende imponente sia a destra che a sinistra del palco e sopra la quale troneggia un gigantesco pentacolo con candele ovunque. A destra della scalinata c’è il posto riservato alla cantante/corista Livia Zita, moglie dello stesso King Diamond. L’americano Matt Thompsson, che ormai occupa il posto alla batteria da 15 anni, non fa rimpiangere un batterista funambolico come Mikkey Dee. Mike Wead e Andy La Roque (colonna della band da sempre, oltre allo stesso King Diamond), chitarristi metal sopraffini, svolgono il loro compito con grande perizia e abbiamo imparato a conoscere da un paio di anni a questa parte il nuovo Pontus Egberg, bassista competente. Il centro della scena è ovviamente tutto per King Diamond stesso, più in forma e teatrale che mai, coadiuvato dalla performer Jodie Cachia nel ruolo della nonna, strega e quant’altro funzionale alla narrazione delle storie horror raccontate man mano dalle canzoni della band. Dopo alcuni classici come “Sleepless Nights” e “Eye of the Witch” arriva il momento di due brani targati Mercyful Fate: “Melissa” e “Come to the Sabbath”. “Melissa” in particolare è una sorpresa, ma la sorpresa nella sorpresa è che non si avvista nessun componente dei Mercyful Fate come ospite. Il concerto prosegue poi con l’esecuzione di “Abigail” per intero, dall’introduzione di “Funeral” fino alla conclusiva “Black Horsemen”. Lo spettacolo è convincente e la band esegue il repertorio senza sbavature, ma anche in questo caso non si segnalano apparizioni di ex-membri del gruppo. Aspettative troppo alte producono inevitabili delusioni e nonostante la performance d’alto livello della band, subentra un leggero senso di fiducia disattesa. Considerazione decisamente ingiusta nei confronti della band e della qualità della loro esibizione. Aver ammirato King Diamond all’opera nella sua città natale rimane comunque un’esperienza da ricordare. Il cantante danese si intratterrà poi a fine concerto per qualche minuto aggiuntivo da solo sul palco per salutare e ringraziare il pubblico della sua città, visibilmente coinvolto sotto il suo classico trucco di scena.
ABBATH
Vecchio leone della scena black metal norvegese, Abbath non è forse mai stato preso completamente sul serio da alcuni puristi del black metal, nonostante lavori importanti e un ampio riconoscimento con gli Immortal. Impossibilitato a proseguire a nome Immortal per via di disaccordi con i suoi precedenti compagni d’avventura, Abbath si è rimboccato le maniche e si è rimesso subito in gioco, questa volta “in proprio”.Con il buon responso del disco a nome Abbath, pubblicato a gennaio di quest’anno, il nostro ha dimostrato di non aver bisogno per forza del vecchio moniker per proseguire la propria attività. Alla pubblicazione del disco sono già succeduti tour americani ed europei, oltre alle immancabili apparizioni ai festival estivi, segno che il norvegese sia deciso a proseguire imperterrito per la propria strada. Il quartetto infernale, tra cui spicca King Ov Hell (ex Gorgoroth e Godseed), prende possesso del palco a notte inoltrata dopo l’esibizione di King Diamond, tenebre che ovviamente giovano alla proposta del gruppo norvegese. La scaletta della serata è un mix di brani estratti dal nuovo omonimo album a cui si alternano pezzi degli Immortal (a dire il vero numerosi) e non manca nemmeno un estratto dal disco a nome “I” che il nostro pubblicò nel 2006 mentre gli Immortal erano sotto naftalina. Nulla da eccepire sulla prestazione del gruppo, convincente, e del buon responso di pubblico, rimasto sufficientemente numeroso nonostante la pioggia scesa durante l’esibizione di King Diamond.
ARTILLERY
I vecchi thrasher Artillery hanno un posto d’onore in quello che negli ultimi è diventato l’appuntamento metal più importante dal paese. Si esibiscono a notte inoltrata sul palco minore del festival e una volta giunti in prossimità del palco appare evidente la differenza di età tra il cantante odierno della formazione e il resto del gruppo. Il tempo non è stato particolarmente clemente nei confronti di questi danesi che hanno ormai poco dei thrasher nell’aspetto quanto quello di signori di mezza età. Quello che conta però è che i Nostri non hanno mai mollato e nonostante si siano sciolti un paio di volte nel corso della loro carriera, abbiano sempre trovato la voglia e l’energia per continuare. Autori di tre classici minori negli anni ’80 (“Fear of Tomorrow” del 1985, “Terror Squad” del 1987 e “By Inheritance” del 1990) i nostri si sono riformati nel 1999 per un nuovo disco (“B.A.C.K.”), facendo perdere nuovamente le tracce fino al 2007. Da allora i nostri hanno prodotto ben quattro dischi, l’ultimo dei quali, “Penalty by Perception”, pubblicato dalla Metal Blade quest’anno. Nonostante la fascia oraria non ottimale, ci pare di pagare il giusto pegno presenziando a questa esibizione posta in chiusura alla giornata del festival e per la prima parte sovrapposta all’esibizione di Abbath sul palco Hades.
25 GIUGNO
TRIBULATION
L’evoluzione degli svedesi Tribulation viene seguita con interesse da molti, una band che con tre dischi è passata dal death metal old school dell’esordio al metal oscuro e sperimentale dai tratti atmosferici del nuovo “The Children of the Night”. Considerando la mole di date che gli svedesi stanno suonando dall’uscita del disco, tra tour americani, europei ed apparizioni ai festival estivi, è evidente che la band stia tentando il tutto e per tutto per raggiungere il successo, sebbene con le dovute proporzioni, sulla scia dei conterranei Ghost. Meno pacchiani e molto più intriganti nel look della band di Papa Emeritus, la classificazione della proposta del quartetto svedese è ardua, ma del death metal degli esordi ne è rimasto ben poco, tanto che esso sopravvive (forse) solo nel cantato, mentre la componente tenebrosa ed atmosferica ha preso decisamente il sopravvento. Se dovessero esservi sfuggiti, il consiglio è di recuperare questi svedesi, soprattutto se vi sentite orfani degli ormai defunti In Solitude. Unico appunto, la proposta è come un continuum sonoro in cui si fatica a distinguere i pezzi l’uno dall’altro, ma nonostante questo, il coinvolgimento è notevole. Decisamente ingrata la collocazione dell’esibizione in pieno giorno, in apertura dell’ultima giornata del festival: orario a parte, il sound avrebbe indubbiamente beneficiato del favore delle tenebre.
BOMBUS
La band di Gothenburg sembrava lanciata in corsa verso grandi traguardi già col precedente “The Poet and the Parrot”, eppure qualcosa sembra essere andato storto, visto che gli svedesi non sono riusciti a capitalizzare l’hype di cui godevano soprattutto in patria già dai tempi dell’omonimo esordio. Il nuovo “Repeat Untill Death” sembra avere un’impronta più smaccatamente commerciale senza necessariamente sacrificare la ruvidità; ai Bombus va inoltre riconosciuto di non aver mai ripetuto lo stesso disco. Una delle numerosa apparizioni ai festival europei di questa estate 2016, l’esibizione del Copenhell si apre con “Let Her Die”, uno dei singoli scelti dal precedente “The Poet and the Parrot”, forse non il pezzo di spicco dell’album, mentre il resto del concerto alterna soprattutto le ultime due fatiche del gruppo, senza tralasciare l’esordio del 2010 con l’immancabile “Biblical”. Il nuovo acquisto Ola Henriksson (ex Witchcraft) al basso appare ormai ben integrato; sembra anzi che l’ultimo tassello mancante sia stato trovato, ponendo così fine alla girandola di bassisti che fin’ora ha contraddistinto la storia del gruppo (ben tre diversi, uno per ogni album pubblicato). Il momento più intenso dell’esibizione si raggiunge con una versione terremotante della motörheadiana “Enter the Night”, praticamente una versione svedese degli High On Fire più veloci e tritaossa.
CLAWFINGER
Una certa curiosità precede questa esibizione danese degli svedesi Clawfinger. Innanzitutto, per via del fatto che negli anni ‘90/2000 a queste latitudini i Nostri erano una roccaforte in ambito crossover, anzi, una vera istituzione, come testimonia il fatto che si esibiscano sul palco principale. Dopodiché, viene da chiedersi, non avevano cessato l’attività qualche hanno fa? A quanto pare la band si è riformata per alcuni show on-off, pur rimanendo di fatto sciolta. Non abbiamo modo di assistere allo show degli svedesi per intero, arriviamo infatti a concerto iniziato, ma rimane la volontà di vedere dal vivo quella che è quasi una reliquia degli anni ’90/2000; curiosità ripagata da uno show energico e convincente, sebbene un po’ atipico in questo contesto. In una scena musicale rock e metal affollata di revival anni ’70 e ’80, un gruppo degli anni ’90, un’epoca dove bisognava risultare “nuovi” a tutti i costi, suscita paradossalmente un’autentica nostalgia.
HAVOK
Anche nel caso degli americani Havok non riusciamo a vedere solo che qualche pezzo, e appena giunti in prossimità del palco, ci troviamo al cospetto di una band evidentemente ascrivibile a quella scena revival thrash di band come Warbringer, Gama Bomb, Los Society, di cui i Muinicpal Waste sono stati i protagonisti principali una decina di anni fa. La componente ‘mosh’ non è però particolarmente presente negli Havok, che si concentrano su un thrash metal articolato, non particolarmente innovativo ma comunque ben suonato. I più attenti si saranno accorti che il manager della band è Justis Mustaine, il figlio 24enne di Dave Mustaine. Non stupisce quindi che i Nostri siano riusciti ad assicurarsi l’apertura a tour importanti, come per esempio il recente tour americano Megadeth/Suicidal Tendecies/Children of Bodom. Non stupisce quindi nemmeno la presenza a festival europei dove si esibiscono i Megadeth stessi, come questo Copenhell 2016. Il thrash metal un po’ manieristico ma ben eseguito degli Havok accoglie comunque un pubblico numeroso e “ready to mosh” sul palco minore del festival.
RIVAL SONS
Supporto per tutto questo tour d’addio dei Black Sabbath, gli americani Rival Sons si presentano al pubblico danese freschissimi della pubblicazione del nuovo “Hallow Bones”. Incensati da alcuni come i nuovi salvatori del rock, l’ascesa dei Nostri sembra ormai da anni inarrestabile, con ben cinque dischi in sette anni ed un profilo che è cresciuto esponenzialmente. Per quanto di valore, viene da chiedersi se una band odierna come i Rival Sons potrà mai prendere il posto dei mostri sacri del rock una volta che questi saranno scomparsi – esempio più prossimo quello appunto dei Black Sabbath. La risposta probabilmente è no, ma è forse grazie a band come questi americani che il rock sopravviverà all’inevitabile vuoto incolmabile lasciato dalle grandi band del passato. L’apprezzatissimo cantante Jay Buchannan come al solito ha un ruolo centrale nell’esibizione dei Nostri, insieme al band leader Scott Holiday alla chitarra e la batteria solidissima di Mike Miley. Ha un ruolo più defilato invece il bassista Dave Beste, al suo secondo disco con la band, a cui si aggiunge dal vivo un tastierista dal nome di Todd Ögren-Brooks, dall’aspetto decisamente hipster. La scaletta si presenta come un mix di tutti gli album pubblicati dalla band fin’ora e l’esibizione scorre veloce sul palco principale. Per una band giovane come i Rival Sons, esibirsi costantemente dal vivo è l’unico modo sia per poter sopravvivere, sia per cercare di affermarsi ad alti livelli e le occasioni per ammirarli dal vivo non mancheranno certo. Con l’esibizione di questo Copenhell 2016, gli americani oggi si sono di certo fatti valere.
DARK FUNERAL
Nonostante l’esibizione dei Black Sabbath incomba e con essa la necessità di accaparrasi con un certo anticipo una buona posizione per il concerto, decidiamo di dare una chance per almeno qualche pezzo agli ormai veterani black metaller Dark Funeral. Nonostante negli anni recenti siano stati messi parzialmente da parte dal fenomeno Watain, i Nostri rimangono insieme ai Marduk uno dei capisaldi del black metal made in Sweden. Pronti al rilancio con una nuova formazione e il nuovissimo “Where Shadow Forever Reign” fresco fresco di pubblicazione (impreziosito da un bellissimo artwork di Kristian “Necrolord” Wåhlin, come ai tempi di “The Secrets of the Black Arts”), i Nostri si apprestano a calcare il palco di diversi festival estivi. Nei pochi brani che riusciamo a vedere ed ascoltare, gli svedesi si dimostrano all’altezza del proprio nome, fin dall’opener del nuovo disco “Unchain my Soul”, con la nuova formazione trainata dal cantante Heljarmadr. Arriva però presto il momento di posizionarsi quanto più vicino al palco principale per l’evento preminente della serata…
BLACK SABBATH
Dagli anni Novanta in poi, una bella reunion non si è negata a nessuno. Negli ultimi vent’anni difatti abbiamo visti riunirsi chiunque, dai mostri sacri del rock e del metal fino ai più sconosciuti gruppi di culto. Il nuovo trend imperante per i vecchi dinosauri del rock sembra essere oggi quello dei tour d’addio, tendenza iniziata in tempi non sospetti all’inizio degli anni 2000 dai Kiss, che oltre dieci anni dopo si guardano bene dal ritirarsi dalle scene. Un trend di cui il precursore assoluto fu proprio Ozzy Osbourne con il “No More Tour” del 1992. Dopo i clamorosi casi di Scorpions e Judas Priest, che entrambi annunciarono il ritiro dalle scene nel 2011 salvo poi dichiarare di averci ripensato, difficile prendere sul serio gli annunci di pensionamento di alcune band, nonostante l’età ultrasessantenne dei membri coinvolti. Questo tour dei Black Sabbath è stato ampiamente pubblicizzato come l’ultimo nella carriera del quartetto di Birmingham, ma in questo caso non escludiamo che potrebbe essere vero, considerando l’anzianità raggiunta dai membri della band e soprattutto il linfoma che pende come una spada di Damocle sulla testa di Tony Iommi dal 2012. Quello che è annunciato come l’ultimo concerto di sempre dei Black Sabbath in terra danese si apre con le note dell’omonima canzone, posta originariamente in apertura al debutto del 1970. Si nota fin da subito la scenografia semplice, a dire il vero quasi assente, visto che sia la band si esibisce con un megaschermo dietro la batteria e 8 casse a testa sia per Geezer Butler che per Tony Iommi, in pratica solo il backline. Colpisce subito anche la buona forma della band, ormai ultrasessantenni, Ozzy in primis: da tempo spesso protagonista di perfomance non proprio impeccabili, sembra questa sera particolarmente in serata rispetto ai sui standard abituali. Ribadire l’abilità di Geezer Butler e Tony Iommi agli strumenti, indubbi maestri con ormai 50 anni di carriera sulle spalle, è cosa ovvia. Vengono eseguiti i grandi classici del gruppo, senza grosse sorprese e tralasciando fortunatamente l’ultimo “13”. Inutile addentrarsi poi nella questione Bill Ward. Ci limitiamo a dire che rimane indubbiamente un peccato non poter ammirare la band nella sua formazione originale, visto che i membri del gruppo possono vantare il lusso di essere ancora vivi, cosa non da tutti per una band della loro generazione. Il giovane Tommy Clufetos, proveniente dalla band solista di Ozzy (in passato con Ted Nugent, Alice Cooper e Rob Zombie) si è già rivelato un batterista di enorme talento nei precedenti tour, in grado di dare un tocco veramente heavy al repertorio del gruppo, anche se così viene però a mancare quell’approccio più jazzy caratteristico di Bill Ward. Come consuetudine in una esibizione di musicisti non più giovani, il batterista si impegnerà in un assolo dopo “Rat Salad” per concedere ai suoi colleghi più anziani un momento di riposo. A “Dirty Woman” segue “Children of the Damned”, altro grande classico che ha il compito di chiudere il concerto. La band torna però sul palco per un unico bis, la megaclassica “Paranoid”. Chissà se sarà veramente l’ultima volta?
BÖMBERS
Come molti fan degli Immortal e non solo sanno, i Bömbers sono il tributo ai Motörhead guidato da Abbath ormai da molti anni. Che dire quindi di quella che non è altro che una cover band? Abbath e i suoi due compari sono fan genuini dei Motörhead e fanno di tutto per rendere giustizia al repertorio della band di Lemmy. Ad Abbath, in particolare, sembra calzare a pennello il ruolo. Non manca nessuno dei classici della band inglese: “Bomber”, “Iron Fist”, “We Are the Road Crew”, con le immancabili “Ace of Spades” e “Overkill” poste in chiusura proprio come la band originale. Il trio suona però a volte in modo confuso e non sempre compatto, tant’è che Abbath fermerà la band all’inizio dell’esecuzione della conclusiva “Overkill” per ripartire da capo, adducendo che la band non si sente correttamente nei monitor on stage incolpando il fonico di palco. Non serve però una performance impeccabile per un sincero tributo a Lemmy ed alla sua leggendaria band.