Report di Stefano Protti
Foto di Simona Luchini
Non occorrono presentazioni per Mr. Corey Taylor, e la folla che nonostante il giorno feriale si è disposta in una lunga fila a circondare e poi prendere d’assedio l’Alcatraz, è li per testimoniare quanto la grandezza dell’artista possa superare sempre le debolezze e gli stravizi dell’uomo.
Oggi, tuttavia, non siamo qui tanto per incensare una gloria dell’alternative metal, quanto per goderci un frontman mosso da una curiosità musicale infinita, mai timoroso di esplorare nuove strade, per quanto controverse possano sembrare ai puristi.
Ai gestori del locale va reso atto di aver migliorato sensibilmente il processo di controllo dei biglietti, così l’attesa in coda in una sera che si va intiepidendo dopo due giorni di pioggia è solo un gradevole preludio a ciò che ci attende, oltre quelle porte.
Il compito di scaldare l’atmosfera in attesa dell’act principale è affidato ai SIAMESE e la band danese, fresca di partecipazione al Copenhell 2024, non si fa certo intimorire, forte della voce duttile di Mirza Radonjica, che dal vivo si affida ad autotune e filtri vocali con minore frequenza di quanto ci si aspetterebbe, e di un cospicuo repertorio, con cinque album già pubblicati, un sesto annunciato da numerosi singoli pronti per tentare la scalata verso l’alta classifica.
Il territorio dentro cui si muove la band è un terreno di coltura metalcore dove proliferano trascinanti anthem pop come “Numb”, “Can’t Force The Love” e la nuova “Vertigo”(probabilmente la chiave per una definitiva affermazione commerciale), ma, più di un percorso principale che viaggia in parallelo a quello degli Atreyu, intrigano le deviazioni, gli accenni folk (“Ocean Bed”, in cui il violino elettrico di Christian Hjort Lauritzen si prende lo spazio che merita) o alcuni bizzarri quanto intriganti esperimenti disco-metal (“On Fire”) che li avvicinano ai The Rapture.
Semplici ed efficaci, dal vivo i danesi riescono a coinvolgere con facilità il pubblico, cancellando qualsiasi pregiudizio (e chi sta scrivendo ne aveva parecchi) possa emergere dall’ascolto superficiale dei loro album.
Noiosi problemi doganali fanno sì che l’entrata di COREY TAYLOR sul palco venga posticipata di un’oretta, senza che questo comunque influisca sulla scaletta e senza impedire (purtroppo) che la band si accanisca in fase di bis su un’incolpevole “The Killing Moon” degli Echo & the Bunnymen, denudata della sua aura new wave e costretta a vestire i panni anonimi di un pezzo da cover band.
Questo momento, tuttavia, sarà l’unica (e trascurabile) nota negativa in novanta minuti di intrattenimento puro, introdotti dal bozzetto acustico “The Box” con quel “Take a breath, enjoy the show”, che invita a seguire un pifferaio magico che non ha più alcuna voglia di nascondere la propria vita ed il proprio repertorio (peraltro nobilissimo) sotto una maschera.
Si parte quindi con “Post-Traumatic Blues” (dal secondo album solista “CMF2”) ed un efficace contrasto tra strofa in growl e ritornello a presa rapida, un pezzo che potrebbe appartenere al repertorio Stone Sour, da cui (guarda caso) viene eseguita a stretto giro una “Made Of Scars” che esplode in un refrain di stampo grunge. Con il momento AOR “Black Eyes Blues” (dal debutto “CMFT”), la band risolve definitivamente i lievi difetti di bilanciamento e si presenta al massimo delle proprie possibilità, che per il quartetto che accompagna il buon Corey vuol dire potersi muovere lungo qualsiasi territorio musicale, facendo digerire al pubblico anche ciò che su disco non funziona perfettamente, come il pasticcio punk rock alla Offspring di “We’Re The Rest” (che era e rimane una cosa di poco conto rispetto alle potenzialità del suo autore, ma giù dal palco fa divertire, eccome), esaltando la melodia pop di “Beyond” (dedicata alla moglie Alice Taylor), e addirittura riuscendo a non far rimpiangere troppo la “Before I Forget” (Slipknot) originale.
Una menzione speciale va al batterista, Dustin Robert, che non avendo avuto il tempo di scaricare la propria attrezzatura, si siede dietro le pelli prestate dai Siamese, con un entusiasmo da band agli esordi.
A proposito degli Slipknot, invece, in scaletta c’è ovviamente spazio per “Snuff”, in versione acustica e solitaria e con il pathos che le si addice (ottima performance, sicuramente migliore di quella disponibile nella raccolta di rarità “CMF2B… or Not to B” pubblicata recentemente).
La vita passata alla penombra di droghe e alcol, in ogni caso, ha insegnato a Corey Taylor non dare mai per scontato l’amore del pubblico, e lui sembra volerselo guadagnare ogni sera, sul palco: con i sapori soul blues di “From Can To Can’t” (dal progetto “Sound City: Real to Reel” con Dave Grohl ), con “Home”, una disarmante ballata che avrebbe potuto tranquillamente scrivere un giovane Paul Weller, e poi con la terna di canzoni poste nello spazio bis, la “The Killing Moon” di cui sopra, “30/30-150” del canzoniere degli Stone Sour (curioso come dal vivo i brani più ritmati sfiorino le sonorità rockabilly dei Volbeat) ed il gran finale di “Duality” cantato e strillato dalla platea tutta, mentre sul palco sta un cinquantenne che si vede da nessun’altra parte se non con un microfono in mano.
Citando Marsellus Wallace, Corey Taylor era uno di quelli che “che da giovani pensavano che il loro culo sarebbe invecchiato come il vino”. Di certo, il suo, aceto non lo è diventato.
SIAMESE
COREY TAYLOR