Avevamo perso memoria dell’ultima occasione in cui i Crowbar ci avevano fatto visita. Nonostante la creatura di Kirk Windstein avesse ripreso a girare a pieno regime dal 2011, con la pubblicazione di “Sever The Wicked Hand”, i tour a supporto di questa fatica in studio non avevano toccato l’Italia, per cui era davvero molto tempo che non provavamo il piacere di ammirare on stage i quattro della Louisiana. Ora è venuto il momento di rimediare, e nella prima parte del tour europeo primaverile la band di New Orleans ci fa visita per un paio di date. Dopo il Traffic romano, tocca al sempre più rinomato Lo-Fi accogliere tra le sue braccia il verbo del sound sudista.
MONUMENTAL
Va bene che i presenti sono qui per gli headliner, ma un buon antipasto fa sempre piacere e anzi, mette nelle migliori condizioni per una fruizione più appagante dei big di lì a poco in arrivo. Prendiamo nota allora del fatto che i Monumental finiscono con sommo gaudio tra coloro che degni sono di supportare i propri beniamini, alla luce dell’adrenalinica esibizione milanese. Discepoli di Pantera, Down e dello stoner metallizzato più diretto, il quintetto parte con il piede giusto e fa tuonare il proprio armamentario fatto di chitarroni belli massicci ma non troppo trancianti, in qualche modo smussati da quella placidità sudista che sa ammorbidire anche gli spiriti più ruvidi. I ritmi sono vivaci e guizzanti dal mid-tempo grassoccio a schiaffeggi leggermente sporcati di thrash, abbastanza cromati e con un tocco di doom-filia rockeggiante modello Cathedral, filtrata in un’ottica moderna ed americaneggiante. Vivaddio, abbiamo anche un signor frontman! Abel ha movenze feline, voce che gioca tra Michael Poulsen dei Volbeat, Giacomo H. Boeddu dei nostrani e fumiganti Isaak (c’è più di un’assonanza, non solo vocale, con gli autori di “The Longest The Beard, The Harder The Sound”) e l’obbligatorio Phil Anselmo, e tiene un atteggiamento scherzoso che non cade nella trappola della ricerca della simpatia a tutti i costi. Poco schematici, irriverenti quanto basta, diretti ma accorti nel cambiare spesso registro, e discretamente dotati nell’apporre un contorno di arrangiamenti di gusto ad ogni canzone, i Monumental hanno gioco facile nell’accattivarsi le simpatie dei presenti. E si portano a casa meritati applausi di consenso.
CROWBAR
Sarà pure lunedì, ma da queste parti non ci si fa tanto caso, per fortuna, e il doversi alzare presto il mattino dopo non ha influito sulla voglia di Crowbar della discreta fetta di individui accorsi dalle parti di Rogoredo questa sera. Difficilmente abbiamo visto tutta questa gente al Lo-Fi ed è un bel segno, significa che tutto sommato anche in Italia c’è un pubblico fedele all’underground e che il following per alcune entità storiche e immarcescibili è lungi dall’andare scemando. Kirk e soci fanno tutto da sé, montano l’attrezzatura senza alcun aiuto esterno, il leader ha passato anche buona parte del tempo precedente l’esibizione dietro al banco del merchandise, insieme alla moglie, a vendere le magliette celebrative del tour. Questa è abnegazione e dedizione, signori. Windstein ha lasciato i Down apposta per curare meglio la sua creatura prediletta, e per far questo è disposto a rinunciare al trattamento più comodo e a qualche dollarone in più che gli avrebbe garantito la band capeggiata da Phil Anselmo. Onore a lui. E onore soprattutto a quello che insieme ai suoi barbutissimi soci sa esprimere on-stage. I physique du rôle del leader, del secondo chitarrista e del nuovo bassista sono mirabili: apparenza grezza, fisico imponente da americani ghiottoni di ogni possibile porcheria alimentare in circolazione, barbe folte e chilometriche, non manca nulla al corredo del perfetto musicista sludge-core. Dietro le pelli, ormai perfettamente guarito dal cancro alla prostata che l’aveva colpito nel 2013, siede asciutto e in formissima Tommy Buckley, drummer che fa del feeling e del groove le armi più affilate a sua disposizione, della cui letalità ci accorgiamo immediatamente, visto il modo in cui rullante e cassa ci si piantano nelle reni dopo pochi secondi dal via. Annunciatisi con un urlo di battaglia simil motorheadiano, i Crowbar mettono in moto le loro ruspe da megacostruzioni, facendo tremare le fondamenta del Lo-Fi sotto i colpi di “Conquering”. Un’incudine da una tonnellata calata dall’altezza di un grattacielo fa meno male della chitarra di Windstein, quello che egli riesce a tirar fuori dal proprio strumento rappresenta l’epitome della pesantezza, della fangosità, la sua sei corde ha un timbro paludoso e inconfondibile che da solo vale il prezzo del biglietto. Si ha proprio la sensazione di ascoltare qualcosa di unico e non riproducibile da un imitatore, un po’ come succede quando hai davanti quei vecchi volponi di Mark Shelton e Dave Chandler, e ti accorgi che non stai ascoltando semplicemente un bravo chitarrista, ma una delle cause scatenanti e definizione primaria di tutto ciò che è heavy. La squadra Crowbar è forte e affiatata, si impone per carisma e forza d’urto, e la sintonia con un pubblico pronto, verace e più facile ad accendersi di un deposito di polvere da sparo è completa. Anche se limitato a poche unità, il pogo si crea a partire dal primo pezzo, e chi sta fermo ha comunque un modo di rapportarsi allo show coinvolto e adorante. Il suono è talmente grosso e sferragliante che nelle parti cadenzate sembra che sul palco stiano avvoltolando enormi catene, urtando dappertutto, incuranti del rumore che provocano con quest’azione. Massicci come un blocco di roccia immane, modello Ayers Rock, i Crowbar si muovono con la stessa scioltezza dei dischi, attraverso un patrimonio di canzoni praticamente immutato durante gli anni per quanto concerne i tratti somatici basilari. I Nostri propongono quindi i tipici numeri in stile “lento e asfittico”, “oleoso e incazzato”, “ruggente ma malinconico”, e per la gioia dei più disposti al contatto fisico, “grasso, veloce e core”. Volendo trovare a tutti i costi l’highlight della serata, lo andremmo a cercare nel pezzo dall’appeal melodico più pronunciato, vale a dire “Planets Collide”, la canzone che tutti si aspettano di sentire durante un concerto di queste vecchie pellacce dello sludge metal. Kirk vocalmente sta benone e ricalca benissimo le sottigliezze dei dischi, chi aveva paura di un arrugginimento della sua ugola ha potuto tirare un sospiro di sollievo. La scaletta è abbastanza avara di sorprese, con uno sbilanciamento verso “Crowbar” , “Broken Glass” e il penultimo “Sever The Wicked Hand”, mentre non ci pare che vi siano anticipazioni dell’imminente full-length, per il quale manca ancora un mese e mezzo alla pubblicazione (prevista il 26 maggio). La chiusura dopo poco più di un’ora, condita da un unico e breve bis, lascia qualcuno un po’ interdetto, d’altronde quando un concerto sta andando bene si vorrebbe che non finisse mai, ma crediamo che alla fine i Crowbar ci abbiano sfamato a dovere, forti di una ritrovata solidità e voglia di spaccare il mondo. Lunga vita a Windstein e ai suoi degni compari.