07/04/2025 - CULT OF FIRE + THE GREAT OLD ONES + CARONTE @ Largo Venue - Roma

Pubblicato il 12/04/2025 da

È arrivata l’ora per il Mantras of Peaceful Death Over Europe di fare la propria comparsa anche a Roma. Dopo il Fuori Orario di Taneto di Gattatico (RE) e il Revolver di San Donà di Piave (VE), si chiudono qui le date italiane per questo tour che vede radunati tre dei nomi più noti nel panorama estremo odierno, molto diversi tra loro ma che in qualche modo condividono una visione comune (riconducibile, a grandi linee, al mondo dell’occulto).
Gli headliner sono i Cult of Fire, band che negli ultimi anni ha attirato molti seguaci intorno a sé per il black/death con un immaginario che riprende l’iconografia indù e tibetana, grazie anche ad una scenografia molto impegnativa ed efficace. Il giorno della settimana è infausto: un evento del genere di lunedì parte già un po’ svantaggiato, ma l’affluenza si rivela più che discreta.

Alle 20 spaccate sale sul palco il primo gruppo, gli emiliani CARONTE. L’orario non è dei migliori: chi conosce le dinamiche romane sa bene come non sia improbabile trovare traffico a quell’ora, e le dimensioni della città non invogliano a rischiare.
Quando salgono sul palco del largo Venue ci sono solo pochi spettatori, ma negli ultimi tempi qui gli organizzatori dei concerti si stanno molto impegnando a far rispettare gli orari e le persone aumentano man mano che l’esibizione va avanti. Unica band del panorama doom nella serata, si rivelano una piacevole apertura prima che arrivi la pioggia di blast-beat dei due nomi successivi.
Forti dell’ultimo “Spiritus”, del quale suonano diversi brani, sono sempre migliorati nel frangente live, e dimostrano come l’aggiunta di una seconda chitarra possa risultare vincente anche con canzoni che possono essere suonate anche da una sola (agli inizi il gruppo era un quartetto). I Nostri hanno aggiunto col tempo anche degli elementi scenografici minimali ma che funzionano: lance alle loro spalle e dei calderoni di metallo ai lati, dai quali fuoriescono dei fulmini. Ormai, dopo quasi quindici anni di carriera è evidente come sappiano perfettamente come gestire il palco.
Dal punto di vista del sound, sono sicuramente trai pochi nomi che hanno seguito le orme degli Electric Wizard non limitandosi a seguire il tracciato – cosa che il 90% dei gruppi stoner doom ha invece fatto – ma aggiungendo anche degli elementi personali, vedi il cantato alla Danzig o dei riferimenti molto profondi all’esoterismo nei testi.

Dopo circa quarantacinque minuti è tempo di un rapido cambio palco e arriva il turno dei successivi THE GREAT OLD ONES.
Ci distanziamo quindi dalle sonorità lente per calarci appieno nel black-death pachidermico e dalle tinte quasi progressive: con questo aggettivo non c’è però alcun riferimento al genere musicale, bensì al flusso di coscienza che evocano i loro pezzi.
L’ultimo album, “Kadath”, da cui è tratta buona parte della loro scaletta, riconferma la loro abilità nel riproporre in maniera più credibile di tanti altri gli scenari spettrali e mostruosi delle opere di Lovecraft.
Dal punto di vista del live, sono in forma smagliante. Si presentano con un look molto scarno (indossano tutti delle giacche nere, dalle quali spunta un ciondolo di Chtulu) ma che si rivela molto elegante. L’essere in cinque sul palco rende il tutto più ‘pieno’: le tre chitarre possono sembrare una soluzione spesso esagerata, mentre per i loro pezzi (in cui spesso si alternano dissonanze, parti in clean e altre in distorto con i classici power chord) si rivela vincente.
Nel corso dell’ora di performance il pubblico assiste rapito al loro show. Il locale ancora non è così pieno e in diversi sono venuti principalmente per gli headliner, ma la risposta è positiva e loro, dal palco, ammettono di sentirsi lusingati dall’affetto del pubblico, manifesto soprattutto in brani come “Antarctica” o la conclusiva “The Shadows over Innsmouth”.

Al termine della loro esibizione, gli spettatori vengono fatti indietreggiare fino alla metà del locale, che viene diviso in due da un sipario, perché è tempo di montare l’imponente scenografia dei CULT OF FIRE. Dopo una mezz’ora abbondante, le tende si aprono e le persone accorrono verso le prime file quasi attratte da una forza magnetica. Il rituale ora ha inizio e non può che essere incredibilmente bello da vedere.
Il cantante con una strana maschera rituale (una via di mezzo tra un teschio e un drago in stile cinese) un vistoso copricapo e un vestito coloratissimo, ai lati i due chitarristi seduti per tutto il tempo a gambe incrociate sotto enormi statue di cobra, con degli abiti di velluto e altrettanto mascherati, con il batterista ugualmente bardato e col volto oscurato.
Vengono accesi dei bastoncini d’incenso in più punti del palco, per immergersi ulteriormente nell’atmosfera spirituale e meditativa: le danze si aprono con “Dhoom” e proseguono con diverso materiale dall’ultimo “The One, Who Is In The Smoke” (come “Joy” ed “Anger”), fino a toccare brani più vecchi e melodici come “Kālī Mā” e “Khaṇḍa Maṇḍa Yōga”.
Davanti ad uno spettacolo del genere, è molto difficile rimanere indifferenti: tutto è curato nei minimi dettagli ed è qualcosa di unico. Nello stesso tempo, però, dopo una ventina di minuti, tutto questo insistere sulla scenografia non è sinonimo di coinvolgimento, e tutta la performance può rivelarsi a tratti asettica. Se non si viene rapiti dai mantra e non ci si sente in uno stato di trance ci si può anche annoiare in fretta: puntare il tutto sul rituale trasforma un concerto in una cerimonia, ma chiunque abbia assistito ad una messa in vita sua sa bene che questa non ha certo l’adrenalina di un live.
Gli spettatori sono molto soddisfatti, ma chi scrive si trova convinto a metà. Da un lato tutto questo è indubbiamente originale, ben studiato e che almeno una volta merita di essere visto, dall’altro risulta anche molto statico. Viene da pensare ad un gruppo chiaramente molto diverso come sonorità, ma che ha saputo invece coniugare elementi scenici, incensi ed una possenza nell’esecuzione invidiabile, come gli italiani Abysmal Grief. Ai Cult of Fire sentiamo di sconsigliare di tenere i due chitarristi così immobili e fissi ai lati, perché è una scelta che può rivelarsi deleteria se si vuole coinvolgere il pubblico.
Nel complesso, comunque, si può parlare di una gran bella serata: questo tour meritava di essere visto, per tutte e tre le formazioni coinvolte. Però, davanti a tutto questo smodato interesse per i gruppi a tema ritualistico, ricordiamoci anche cosa ci insegnano i Public Enemy: “don’t believe the hype”.

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