La certificazione dello status raggiunto dai Cult of Fire all’interno della scena black metal contemporanea passa (anche) attraverso una tournée europea da headliner in compagnia di The Great Old Ones e Caronte, coincidente con la pubblicazione di un album – “The One, Who Is Made of Smoke” – in grado di ribadirne l’estetica e il gusto pur senza magari raggiungere i picchi presieduti dai vecchi lavori, a partire dagli eccellenti “Moksha/Nirvana” e “मृत्यु का तापसी अनुध्यान”.
Poco male, comunque, sia perché il valore discografico del gruppo ceco non può certo dirsi annacquato dal contenuto della nuova raccolta, sia perché questo ha finalmente permesso ai Nostri di esibirsi in Italia dopo anni di assenza e un paio di tentativi successivi andati a vuoto (il tour annullato di spalla ai Tormentor e la cancellazione last-minute, causa infortunio, allo Stige Fest).
Delle tre date previste, abbiamo quindi deciso di orientarci su quella al Fuori Orario di Taneto di Gattatico, in provincia di Reggio Emilia, locale estraneo al cosiddetto ‘giro metal’ ma che con la sua conformazione inusuale, ricavata da un’ex stazione della vicina linea ferroviaria, ha saputo conferire ulteriore fascino e carattere alla serata, offrendo una cornice rustica e dei suoni più che dignitosi alle tre band in programma.
Ma vediamo meglio com’è andata…
Del pacchetto di questo “Mantras for Peaceful Death over Europe”, quello dei CARONTE è senza dubbio il nome meno estremo, vista la natura prettamente doomeggiante del suono distillato negli anni dalla compagine di Dorian Bones (anche frontman dei ben più sguaiati e riottosi Whiskey Ritual).
Una proposta che, comunque sia, visti i suoi effluvi mistico-esoterici, non si può nemmeno dire che stoni apertamente con la direzione artistica del resto della line-up, regalando ai presenti (invero non molto numerosi) una parentesi di circa quaranta minuti ascrivibile al suono dilatato e solfureo di Electric Wizard, Saint Vitus e compagnia oppioide, ben interpretata da una formazione che ormai – dopo quasi tre lustri di carriera e svariati dischi su un’etichetta come Ván Records – non ha ovviamente più molto da dimostrare a se stessa o agli altri.
Muovendosi dai singoli del nuovo “Spiritvs” (“Saggitarius Supernovae”, “Interstellar Snakes of God”), il gruppo di Parma si lancia quindi in una cavalcata densa e avvolgente che, senza uscire dal seminato dei suddetti mostri sacri, dimostra di saper crescere di intensità, muovendosi avanti e indietro lungo l’arco temporale della discografia (si è arrivati a “Black God”, dall’EP d’esordio “Ghost Owl”) sotto la guida istrionica di Dorian e i colpi di una sezione strumentale di grande esperienza, con il lavoro ora fumoso, ora cristallino della coppia d’asce Tony Bones/Asher a spiccare per trasporto e precisione.
Quel che si dice un buon inizio, insomma.
Freschi reduci dalla pubblicazione del nuovo, mastodontico “Kadath”, i THE GREAT OLD ONES salgono sul palco evidenziando subito una certa cura per i dettagli: dalle aste dei microfoni ornate di motivi lovecraftiani alle ‘divise’ dei componenti (vestiti tutti di nero con il rispettivo strumento di colore bianco), è palese che, anche in sede live, il quintetto di Bordeaux non ami lasciare le cose al caso, realizzando una sorta di cornice al cui interno andare poi a sviluppare il proprio post-black metal dai toni freddi e siderali.
Uno stile che non si può dire che i francesi non conoscano o che suonino in maniera approssimativa, visti gli anni di esperienza e lavori come “Tekeli-li” e “Al Azif” alle spalle (ancora oggi, i punti più alti della loro discografia), ma che nel 2025 continua a lasciarci un po’ tiepidi dal punto di vista della pregnanza e della capacità di spiccare sulla massa, regalando grandi emozioni sulla scia dei veri leader del filone.
Il cantante/chitarrista Benjamin Guerry, unico superstite della line-up degli esordi, guida quella che potremmo facilmente definire una formazione solida e preparata, ma che – proprio come sugli ultimi dischi – tende a perdersi in brani fin troppo verbosi e ‘standard’, con le varie “Me, the Dreamer”, “The Omniscent” e “Under the Sign of Koth” a scorrere tanto fluidamente in sottofondo, quanto prive di passaggi realmente folgoranti.
Non è un caso, insomma, che alla lunga la performance dei TGOO perda un filo di slancio e trasporto, rendendo chiare le differenze che oggigiorno si riscontrano fra loro e – volendo restare in territorio d’Oltralpe – una band come i Regarde Les Hommes Tomber.
Un concerto lungi dal dirsi deludente, ma neppure esaltante.
L’ultimo giro di ruota della serata è ovviamente quello più atteso dagli spettatori accorsi in questo angolo di campagna emiliana.
Assenti dalla nostra penisola dall’ormai lontano 2018, quando si esibirono a Caserta in occasione del Cult of Parthenope Black Metal Fest, ai CULT OF FIRE basta un telo scuro (issato per coprire lo sfarzosissimo allestimento del palco) per evocare un senso di mistero coerente con il loro immaginario intriso di esotismo e spiritualità indiana, il cui svelamento sulle note di “Dhoom”, dall’ultimo “The One…”, ci catapulta poi nel mezzo di un rituale colorato ai piedi del Taj Mahal.
Come da tradizione, lo stage è a tutti gli effetti un tripudio di dettagli, da un altare ricoperto di candele, fiori, frutta e ninnoli, alle imponenti statue di cobra usate come piattaforme dai chitarristi per suonare nella posizione del loto, passando per la nuova maschera cerimoniale – anch’essa rifinitissima – del frontman.
Rimandandovi ai social per ulteriori approfondimenti estetici, ciò che ci preme sottolineare, comunque sia, è che al netto di un alone di culto scomparso inevitabilmente con l’esposizione degli ultimi anni, la band di Praga continua a confermarsi una delle realtà più personali e riconoscibili dello scenario estremo mondiale, e non solo per la fortissima immagine appena descritta.
Il suo black metal epico e arioso, costruito attorno a melodie dal gusto inconfondibile e a trame ritmiche variegate, è e resta unico; un compromesso esemplare fra immediatezza contagiosa e ricerca profonda, il cui approccio ‘colto’ e frutto dei numerosi viaggi del leader Vladimír Pavelka in India non inficia appunto sull’impatto sferzante dei brani. Canzoni celestiali, fluide e di senso compiuto, che il quartetto interpreta con un piglio tutt’altro che plastico e artificioso, a riprova del credo reale in certe usanze a noi così lontane.
Gli estratti dell’ultimo arrivato, più essenziali a livello di strutture, ricoprono giocoforza un ruolo cardine nella setlist, ma nell’ora a disposizione c’è tempo anche per qualche visita al materiale più datato, con “Kālī mā” e “Khaṇḍa maṇḍa yōga” che, a distanza di oltre un decennio, non smettono di incantare per la loro bellezza e la loro visionarietà.
Un incantesimo portato a compimento dal lancio di fiori sul finale di “There Is More to Lose”, degna celebrazione dell’ennesima gran data messa a segno da questa curiosa (e talentuosa) realtà.
Setlist Cult of Fire:
Dhoom
Zrození výjimečného
Joy
Anger
Kālī mā
Untitled 1
Blessing
Khaṇḍa maṇḍa yōga
Buddha 5
There Is More to Lose