Report a cura di Giovanni Mascherpa
Perché a Disneyland, i veri party, quelli dove ci si diverte sul serio, accadono quando le luci si spengono. Via la folla, rimangono solo gli irriducibili. Nel buio, arriva il loro momento. Un rito ripetuto ciclicamente, non immutabile seppure con i suoi momenti iconici. Anno 2019, i D-A-D rinnovano il loro sodalizio col divertimento fumettistico e inafferrabile dalle spire del tempo che tutto ingrigisce e fa avvizzire, arrivando in Italia ai primi di dicembre per supportare degnamente il frizzante “A Prayer For The Loud”. Un album zeppo di grandi canzoni, inesauribilmente rock’n’roll, omaggiante quel blues senza il quale il rock stesso mai sarebbe esistito, adrenalinizzato da spirito punk adolescenziale e scritto con la verve di chi dell’età adulta, se possibile, ne farebbe volentieri a meno. La prima delle due date tricolori ci consegna i quattro danesi nella cornice del Legend, che riuscirà appena a contenere l’entusiasmo dei convenuti, uno zoccolo duro formato da ascoltatori esperti (a occhio sono pochini gli under 30) e consapevoli di cosa significhi assistere a un tale spettacolo. L’assenza per la serata del servizio guardaroba, con annessa necessità di tornare all’auto per lasciare il giubbotto, ci fa perdere il gruppo di supporto, i napoletani Hangarvain, di cui riusciamo a sentire solo la coda dell’ultimo pezzo. Ci mettiamo allora ad attendere pazientemente la preparazione del palco, cercando di guadagnare una posizione abbastanza avanzata per godere al meglio tutte le mosse e le smorfie di queste simpatiche canaglie.
Ammettiamo di aver storto il naso nell’entrare al Legend e vederlo già stipato, chiedendoci perché non si fosse pensato a una venue di maggiori dimensioni per accogliere i cari danesi. In breve, il tempo di una manciata di pezzi, ci siamo accorti che era così che doveva essere, è qua che saremmo voluti stare, e un posto più grosso avrebbe levato di torno una cospicua fetta di magia. Un tipico concerto da club, stretti, sudati, quasi annaspanti in cerca d’aria, è quanto serve per riconciliare con l’idea di rock come musica per staccare la spina e concedersi a una sana beatitudine. I D-A-D, che al Nord Europa frequentano i palazzetti e sono roba quasi di massa, rimangono essenzialmente formazione da luoghi raccolti, gruppo del popolo, bambinoni intelligenti che con due canzoni ti fanno capire che la noia per una sera se ne va a spasso, lontano da te. “Burning Star” e quella birboneria di “Evil Twin” tuonano in un locale pieno e vibrante, i musicisti a qualche centimetro da noi, carichissimi. Vanno raccontando da tutto l’anno che vogliono essere D-A-D come non mai e si sente: sorrisi e smorfie da comici vanno a braccetto con una signora foga, in diversi tra il pubblico iniziano a dimenarsi in barba all’età, che magari vorrebbe un contegno impossibile da tenersi in tale situazione. Alla prima pausa Jesper se ne esce con un: “Facciamo che oggi è venerdì? Ok?”. Perché pensare che il giorno dopo ti devi svegliare presto, di che orrore stiamo parlando? Il tormentone del venerdì, parola ostica per la dizione del singer danese, che si sforza di pronunciarla il più fedelmente possibile, ritornerà periodicamente a segnare lo spettacolo, alternando risate alle bordate rock’n’roll.
Grande spazio è concesso all’ultimo album, i brani editi quest’anno fanno figura ancora migliore live: schiettezza e sapori nostalgici si mescolano nel dondolio perfettamente orchestrato dal dinoccolante basso di Stig in “Nothing Ever Changes”, o nella leggerezza dal retrogusto sospirante di “The Sky Is Made Of Blues”, una delle poche canzoni accolte con compostezza nel clima festaiolo. I pad di batteria che introducono “Everything Glows” allargano il cuore, si illumina sul serio il Legend, o almeno dà quest’idea, tanto il quartetto appare così in godimento, felice di quello che sta facendo, come se non fosse l’ennesimo concerto della vita ma invece un attimo raro. Avevano promesso una scaletta lunga e abbondante di belle cose e mantengono la parola: macchina del tempo puntata al 1986, “Call Of The Wild”-era, è l’ora di tornare ad essere cartoon d’epoca, per cui sale in cattedra la calda voce fra comicità e seduzione di Pedersen. Country e punk fan danzare all’impazzata nel nonsense di “Jackie O” e “Riding With Sue”, un tuffo nel passato cui si contrappongono classici di recente filiazione come “I Want What She’s Got” e “Monster Philosophy”, entrambe dal ritmo contagioso, avviluppanti in un ballo rallentato. È invecchiata bene la voce di Jesper, il mattatore inarrestabile, in antitesi al sorriso appena accennato del fratello, solista di inestimabile gusto, da ascoltare in rapimento. Stupendo il finale allungato di “Grow Or Pay”, queste divagazioni non stancano mai; da sbellicarsi il reiterato ‘come on Laus, spacca batteria!’ richiesto da Jesper all’indirizzo del batterista, che una volta a sera è protagonista di questo siparietto.
L’encore è di quelli grassi, non una toccata e fuga. Prima una versione tutta fuochi d’artificio di “Bad Craziness”, quindi la dormigliona “Sleeping My Day Away”, in karaoke all’inizio e poi diluita nello struggimento dal solismo mai uguale a sé stesso di Jacob. La chicca arriva con le acustiche pungenti di “Laugh’n’A 1/2”, accolta da incredula adorazione, prima del sempre emozionante addio di “It’s After Dark”, con Stig che saluta come un bimbo che dice addio al suo miglior amico quando si imbarca per un lungo viaggio. Quello stesso viaggio che i D-A-D non hanno alcuna intenzione di interrompere e del resto, di fronte a concerti simili, a nessuno verrebbe in mente di fermarli…
Setlist:
Burning Star
Evil Twin
Jihad
Rim of Hell
Nothing Ever Changes
Everything Glows
A Prayer for the Loud
Grow or Pay
The Sky Is Made of Blues
Jackie O’
Riding With Sue
The Real Me
I Want What She’s Got
Monster Philosophy
No Doubt About It
Encore:
Bad Craziness
Sleeping My Day Away
Laugh ‘n’ A 1/2
It’s After Dark