Report a cura di Giovanni Mascherpa
Cremona riabbraccia l’hard’n’heavy di qualità grazie alla prima edizione del Luppolo In Rock. Una manifestazione andata a incastonarsi nell’area recentemente riqualificata del Parco Ex Colonie Padane, una struttura rimessa a nuovo dopo essere rimasta per anni preda di incuria e vandalismi. Ora questa novella arena per concerti, incastonata in un’ampia area verde dove trovano spazio attrattive adatte a tutte le età, si pone come un sicuro approdo per chiunque voglia allestire manifestazioni di un certo respiro. Attorno a quella che è l’area del concerto vera e propria abbiamo un parco in ottime condizioni, costellato di chioschi di street food di qualità e vari nella scelta, contornati da altre bancarelle. Dentro, apprezziamo un palco di dimensioni ampie, un impianto luci e audio all’altezza, servizi igienici in ordine e uno stuolo di personale di servizio da far invidia a concerti ben più mastodontici. La stessa pavimentazione dell’area dinnanzi allo stage mostra una notevole cura nella progettazione della struttura, priva di problematiche che possano scontentare gli avventori di turno. Il bill ha presentato nomi di rilievo del panorama internazionale, con l’accoppiata Primal Fear-Geoff Tate il sabato e, nel giorno di nostra competenza, la domenica, la calata in Italia dei danesi D.A.D. dopo quattro di assenza dal nostro paese. Un pacchetto, comprensivo anche di una valida serata di apertura il venerdì – headliner David Reece (ex Accept) e Giacomo Voli prima di lui – offerto a prezzi popolari: 45 euro l’abbonamento per i tre giorni, 20 il giorno singolo (15 il venerdì). A fronte di questa ragguardevole offerta, almeno alla domenica non si sono mosse masse oceaniche, nonostante l’atmosfera per gli ultimi due concerti, Lipz e D.A.D., sia stata frizzante e carica di energia. La serata risparmia i temporali previsti in zona e, persi i rocker locali Master-Prova e il guitar-hero Marco Angelo, possiamo gustarci in tutta comodità una line-up eterogenea, accomunata da spirito rock’n’roll coriaceo e voglia di divertimento.
HEADLESS
Gli Headless, cantante escluso, hanno già suonato la sera precedente, essendo di questi tempi la tour band di un certo Geoff Tate. Incarico di prestigio, frutto della nomea di grandi professionisti guadagnatasi in venticinque anni di carriera. La compagine originaria di Avezzano si presenta senza alcuna scenografia, penalizzata da un’affluenza assai ridotta, poche decine di persone che, nella maggior parte dei casi, non hanno dimestichezza con le eleganti note della formazione. L’atteggiamento dei musicisti è piuttosto compassato, quel che conta è il fluire brillante di melodie orecchiabili ed elaborate e riff corposi, al servizio di canzoni evocanti tanto il prog di fine anni ’80-primi anni ’90 che l’AOR più duro. Siamo dalle parti di Queensrÿche e Fates Warning, negli anni di “Empire” e “Perfect Simmetry”, un’assonanza mitigata da venature care al patinato hard rock americano di qualche tempo fa. Punta di diamante della performance è l’ugola squillante e non corrosa dal tempo di Göran Edman, noto nell’ambiente soprattutto per la sua passata collaborazione con il focoso Yngwie Malmsteen. Il tempo disponibile è risicato, nonostante ciò gli Headless sanno farsi apprezzare. Un maggior trasporto non guasterebbe, il materiale di per sé è ottimo, un’interpretazione più accorata e viscerale catturerebbe l’attenzione degli ascoltatori meno avvezzi a suoni così rifiniti e, ce ne rammarichiamo, poco sfruttati ai giorni nostri.
LIPZ
Il parterre si affolla in occasione della comparsa degli svedesi Lipz, approdati da poco all’album d’esordio “Scaryman” sotto l’egida dell’italiana Street Symphonies Records. Movimento sotterraneo nei numeri ma con una sua base di fan affezionata, il glam sa ancora far batter i cuori come accadeva, su ben altra scala, negli anni d’oro dell’hair metal. L’apparenza del quartetto nordico è deliziosamente eccessiva come il genere prevede, fra tutine dalle fogge e colori improbabili, il pesante trucco di scena e una cotonatura dei capelli che già a scovare il parrucchiere che si ricordi come si fa è un’impresa. Bene la presentazione, che per un’audience attenta al look come quella glam è imprescindibile, bene pure la musica, all’altezza delle aspettative dei presenti. Il clima vicino alle transenne si fa scalpitante: da qui a parlare di party sfrenato, vuoi per i numeri, vuoi per il contesto, sarebbe fuorviante, però l’attitudine stradaiola e ammiccante dei pezzi ha sua corrispondenza nel comportamento delle prime file. Il lato romantico del genere si alterna a quello selvaggio e sboccato, il gruppo ha dalla sua melodie e refrain azzeccati e dotazione tecnica sufficiente a non scadere nella banalità. Qualcuno pare aver già imparato lo svolgimento dei pezzi e partecipa ai cori, in generale è difficile stare fermi di fronte a una proposta del genere, imbattibile se si desidera coinvolgimento e spensieratezza. Come accaduto per gli Headless, rileviamo una buona qualità dei suoni, che contribuisce a rendere apprezzabile lo show in tutta la sua durata. Rispetto all’ora prevista i Lipz suonano leggermente di meno, per consentire il laborioso soundcheck degli headliner: poco male, si divertono gli spettatori e si diverte la band, omaggiata di un piccolo ricordo dall’organizzatore a fine concerto e visibilmente soddisfatta per questo suo esordio sui palchi italiani.
D.A.D.
È cabaret, sberleffo, amorevole leggerezza, rock’n’roll spensierato con lo sguardo fisso verso i pascoli del Midwest. Partendo dalla Danimarca. La Disneyland notturna diffonde la sua candida magia un’altra volta, trasformando un semplice concerto in una bolla di inattaccabile beatitudine, come solo questi quattro zuzzurelloni sanno fare. La pazienza spesa nell’attesa – si inizia poco prima delle undici di sera – viene ripagata da uno spettacolo che sa sfuggire alla ripetitività e alle convenzioni, dove musica e gag diventano un tutt’uno mai eccessivo o inconcludente. I bassi non convenzionali di Pedersen, opere d’arte moderna assoggettate a scopi strumentali, catturano gli occhi assieme alla sua vistosissima tuta rosa, un tutt’uno con gli stivali; l’ancheggiare sornione e l’occhio virato al porcino contrastano con l’inconfondibile tocco sul suo peculiare ‘due corde’, in obbligatoria evidenza sulle chitarre. Jesper Binzer si presenta carico a molla e cerca il contatto con le prime file, mettendosi a fil di transenna a guardare negli occhi a pochi centimetri i propri fan. L’aria si fa immediatamente gravida di belle sensazioni, l’apertura è nel segno di classici incalzanti e dinamitardi, affidata a “Evil Twin” e “Jihad”. Le voci si scaldano e si prosegue saltellando fra cori irresistibili con “Girl Nation” e “Rim Of Hell”. Ecco quindi la sorpresa. “Volete sentire una nuova canzone?”, chiede Jesper Binzer. Possibile? Perché no! “The Real Me” travolge in una botta elettrica che si sfoga tutta d’un fiato, veloce e semplice semplice, tanto che il ritornello pare di conoscerlo da anni anche se è la prima volta che lo si ascolta. “Riding With Sue” riporta di converso agli albori, tocca a Pedersen prendere il microfono e cantare nel suo timbro farsesco, da cartone animato, un testo che esalta il lato fumettistico della formazione. Una cosa che è sempre piaciuta da matti ai D.A.D. è dilatare i brani, porre degli incisi, lasciarsi andare in fantomatiche jam session dove inserire qualche intuizione imprevista. In “Grow Or Pay” prende campo allora il morbido solismo del compassato Jacob, che dilata a dismisura il dolciastro nostalgismo della canzone; modalità diverse, ancora con questo desiderio di farci perdere in una valle di placido rock’n’roll, nel mezzo di “Reconstrucdead” i due fratelli si scambiano convenevoli incuranti di dove debba portare, in fondo, quello che stanno suonando. Durante il ballonzolare di “I Want What She’s Got”, immancabili, arrivano i cori di incitamento-presa in giro in favore del batterista Laust Sonne, che se la ride di gusto dietro la sua postazione e intanto si prodiga in un acceso assolo di batteria. Sfumato il ritmo scatenato di “Bad Craziness”, il singer chiede se domani dobbiamo andare al lavoro. Suggerisce, più logicamente, di dedicarsi a un’appagante dormita: “Sleeping My Day Away” va in scena nella sua ennesima versione, il tema principale ripreso e modificato in corso d’opera in un profluvio di chitarre struggenti. Breve la pausa prima dell’encore, affidato all’orgogliosa “I Won’t Cut My Hair” e il tradizionale arrivederci carico di aspettative di “It’s After Dark”. Con i D.A.D. a fianco, il buio dura poco, il giorno rinasce a pieno splendore in fretta.
Setlist:
Evil Twin
Jihad
Girl Nation
Rim of Hell
Smack
Everything Glows
Riding With Sue
Grow or Pay
Reconstrucdead
Monster Philosophy
I Want What She’s Got
Bad Craziness
Sleeping My Day Away
Encore:
I Won’t Cut My Hair
It’s After Dark