Il Damnation è uno dei festival di un giorno più rispettati e longevi d’Inghilterra. Prossimo ai dieci anni di vita (l’importante anniversario avrà luogo il prossimo anno), l’evento creato nel nord del Paese ha sperimentato alcune edizioni in quel di Manchester prima di spostarsi stabilmente a Leeds, dove viene regolarmente ospitato dall’Università della città, che mette a disposizione degli organizzatori e del pubblico numerose sale e padiglioni (proprio come avverrebbe in Italia!). A livello di orientamento stilistico, l’happening ha provato varie soluzioni, sino a stabilizzarsi negli ultimi anni su un ibrido extreme/”post” metal che appunto propone solide realtà death, black e doom metal accanto a formazioni più moderne e sperimentali, che puntualmente attraggono quei cosiddetti “tipi da Roadburn” sempre in cerca delle sonorità più sfuggenti. Chiaramente non mancano eccezioni, ma si può dire che il Damnation abbia ormai trovato la sua formula ideale, in grado di soddisfare facilmente vari tipi di palato e, appunto, di portare nelle proprie sale quelle masse necessarie per coprire i costi e decretare quindi il successo dell’evento. Un evento, tra l’altro, da sempre ottimamente organizzato e che quest’anno non si è smentito: grande organizzazione interna nell’università, che ha permesso agli avventori di muoversi liberamente e di godere dei servizi e dei prezzi popolari disponibili per gli studenti; ben quattro palchi collocati in punti strategici e facilmente raggiungibili da tutti; puntualità nell’inizio delle esibizioni; suoni mediamente buoni e, infine, un metal market di discrete proporzioni. Insomma, il Damnation Festival è ormai una macchina ben oliata, che sa come mettere le band nelle condizioni di dare il meglio e come ospitare un pubblico che ormai si attesta nell’ordine delle quattromila unità. Difficile trovare ulteriori margini di miglioramento per un festival che tiene al proprio format di un giorno e a mantenere i prezzi popolari, ma il decennale del 2014 potrebbe smentirci.
DIRGE
Il festival si apre con i Dirge sull’Eyesore Merch Stage, palco che nel corso della giornata ospiterà vari esponenti di punta della cosiddetta scena “post” metal. “Elysian Magnetic Fields”, ultimo album dei Nostri, è stato accolto benissimo sulle nostre pagine ed è un piacere constatare quanto la ricchezza sonora di quest’ultimo non vada persa nel contesto live. Attivi dal lontano 1994, i Dirge non sono dei ragazzini e infatti, davanti ad un pubblico numeroso e su un palco importante, non mostrano alcun segno di nervosismo, caricando anzi a testa bassa e polverizzando l’audience traccia dopo traccia con un apparato chitarristico pesantissimo. Rispetto a tante formazioni che gravitano attorno a questo genere negli ultimi tempi, i transalpini sembrano possedere un lato sinistro e malvagio più accentuato: sarà l’età o il background industrial, ma i Dirge hanno certamente più cose in comune con i Neurosis che con una band come i The Ocean, tanto per fare un esempio. I Nostri lasciano certe derive intelletuali ad altri, preferendo invece fare male e spezzare schiene, pur non rinunciando a parentesi d’atmosfera (le quali peraltro sembrano fatte apposta per far risaltare ancor di più le bordate seguenti). Come incipit di una lunga giornata non c’è affatto male, insomma; la botta dei Dirge sveglia tutti e prepara al meglio la strada per i gruppi successivi, i quali dovranno senz’altro faticare per tenere testa ad una tale dimostrazione di potenza.
TWILIGHT OF THE GODS
Il palco principale viene inaugurato dai Twilight Of The Gods, il progetto internazionale guidato da Alan Averill dei Primordial. Nato come tributo ai Bathory, il gruppo ha spiazzato parte della critica e del pubblico con un debut album principalmente orientato verso semplici sonorità classic metal, in odore di Judas Priest e primi Manowar, fra gli altri. Certe perplessità si percepiscono anche in occasione di questo concerto, che i Nostri interpretano in maniera indubbiamente competente e professionale (Averill è pur sempre uno dei migliori frontman in circolazione), ma che non pare lasciare il segno su gran parte degli astanti. La causa va forse rintracciata nel materiale proposto, che, anche ad orecchie acerbe, non dimostra di possedere chissà quali pregi. Il tutto suona un pochino scolastico e inoffensivo, più un blando tributo a certi idoli di adolescenza piuttosto che la somma della classe di musicisti del calibro di Averill, Nick Barker o Rune Eriksen. Giusto “Fire On The Mountain”, title track del disco, riesce a smuovere un po’ la platea, ma forse a questo punto ciò è anche merito del già considerevole tasso alcolico presente in sala.
YEAR OF NO LIGHT
Torniamo all’Eyesore Merch Stage per gli Year Of No Light, altra longeva “post”/doom metal band transalpina che si è ormai creata un seguito e una reputazione solidissimi grazie a concerti a festival come Roadburn ed Hellfest e, soprattutto, a dischi di indubbio valore come, ad esempio, il debut “Nord”. I Nostri hanno un nuovo album, “Tocsin”, sulla rampa di lancio e giungono al Damnation Festival fra la curiosità generale. Da qualche tempo la band ha abbandonato quasi completamente le parti cantate, ma, come per tante altre formazioni in questo campo, l’assenza di un frontman non si fa sentire: gli Year Of No Light sfoderano ben tre chitarre e due batterie, erigendo un muro sonoro pesante e spessissimo, che solo a tratti fa emergere quelle melodie sinistre e ancestrali per cui sono diventati noti nell’ambiente. Rispetto ad altri colleghi, gli Year Of No Light hanno poi un modo di stare sul palco più prettamente metal: capelli lunghi, headbanging, ecc. Forse anche per questo i Nostri sembrano più “umani” e avvicinabili e il pubblico li sostiene con una carica simile a quella in dote alla loro soffocante proposta. È un bel colpo d’occhio, che perdura per tutta la quarantina di minuti a disposizione dei ragazzi.
ROSETTA
Quello del Damnation Festival è il secondo show britannico nella storia dei Rosetta, formazione che ha avuto modo di visitare il Vecchio Continente varie volte in passato, ma che sinora non era mai riuscita a toccare quest’isola. Non è quindi un caso che Michael Armine si dimostri particolarmente esaltato quest’oggi: conosciamo la sua natura di frontman espansivo, ma vederlo più volte avvicinarsi alla transenna, cercare il contatto con le prime file e ringraziare con ripetuti inchini ha sorpreso molti. Del resto, i gruppi “post” solitamente tendono a mantenere un profilo piuttosto defilato anche on stage, mentre i Rosetta ostentano un modo di fare assolutamente sobrio e amichevole, che li rende subito simpatici alla folla. Per l’occasione, gli statunitensi propongono una setlist abbastanza variegata, che pare vertere sugli episodi più aggressivi del repertorio: “TMA-3”, ad esempio, è un opener tanto inaspettata quanto incisiva, mentre “Hara / The Center” è la conclusione perfetta, con le sue melodie spaziali – simbolo della band – e il finale urlato in crescendo. “Ryu / Tradition”, invece, è la parentesi di pura melodia che in tanti davanti a questo palco cercano dopo due mazzate come Dirge e Year Of No Light. Gli applausi scrosciano per il quartetto, che in circa tre quarti d’ora lascia al Damnation Festival il perfetto biglietto da visita; chi già li conosceva ha l’ennesima conferma del valore della band, mentre i curiosi corrono a recuperare maggiori informazioni e si soffermano al banco del merch.
THE OCEAN
I The Ocean sono reduci dallo statunitense Summer Slaughter, festival itinerante nel quale hanno supportato i The Dillinger Escape Plan, e questa sera l’influenza della band statunitense sembra farsi sentire più che mai sui Nostri, che sul palco si dimostrano davvero scatenati, saltando da una parte all’altra e ostentando un nervosismo che sfocia spesso in stage diving e movimenti che mettono a serio repentaglio la strumentazione e l’incolumità degli stessi musicisti. A livello di setlist, il quintetto decide di fare le cose semplici, proponendo per intero l’ultimo “Pelagial”; una scelta che divide, ma che di certo rende lo show qualcosa di più particolare, visto che il gruppo si cimenta nella lunga suite senza praticamente prendersi una pausa, denotando una compattezza e una preparazione che le altre band esibitesi finora su questo palco (l’Eyesore Merch) non possono ancora dire di possedere. I The Ocean sono da anni una macchina da tour e questa sera ne abbiamo, ancora una volta, piena conferma: la proposta musicale, specie nel caso delle prove recenti, può piacere o meno, ma oggettivamente dal vivo i ragazzi non sbagliano niente, sia sotto il profilo esecutivo, sia sotto quello dello spettacolo. Magari l’imminente separazione dal batterista Luc Hess e dal chitarrista Jona Nido, uno dei più coinvolti sul palco, inciderà sulla resa dei brani in futuro, ma almeno per ora i The Ocean sono sostanzialmente intoccabili.
GOD SEED
Dopo un primo pomeriggio quasi totalmente all’insegna del “post” metal, arriva finalmente il momento di tornare alle tradizioni e di omaggiare Satana con del puro, semplice e sano black metal. Sono i God Seed a a propinarcelo, con quello che sembra essere uno dei concerti più attesi della giornata per molti degli avventori. Il debutto della band, “I Begin”, è forse uscito un po’ in sordina, ma la fama di Gaahl e King Ov Hell affonda le sue radici in tanti altri progetti ben più datati, non ultimi i Gorgoroth. Il palco principale sembra perciò la location più consona per ospitare questi veterani, che, accompagnati da una lineup di sicuro affidamento, si prodigano nell’allestire lo spettacolo infernale che tutti si aspettano. I suoni non sono eccelsi, ma il gruppo riesce comunque a denotare una certa compattezza e impressionare le prime file, visibilmente irretite dal magnetismo di Gaahl, frontman gelido e dallo sguardo spiritato. Senza voler nulla togliere al repertorio dei God Seed, più che discreto, lo show acquista una marcia in più quando vengono proposte canzoni del periodo Gorgoroth: “Carving A Giant” è pur sempre una delle maggiori hit degli ultimi anni di black metal e la folla la accoglie come una (luciferina) manna dal cielo. Forse per King non è il massimo sapere che i brani più acclamati dai propri fan siano quelli che rientrano nel catalogo di una band di cui lui non fa più parte, ma davanti a tali responsi forse non è il caso di essere permalosi. Questa sera i God Seed portano a casa il massimo risultato con il minimo sforzo.
VALLENFYRE
Il primo assaggio di vero death metal della giornata arriva grazie ai Vallenfyre di Greg Mackintosh, formazione di casa che, curiosamente, sinora non ha ancora suonato dal vivo da queste parti. Si tratta perciò di un piccolo avvenimento, che il Damnation Fest celebra concedendo ai Nostri il Terrorizer Stage, ovvero il secondo palco per importanza e dimensioni, davanti al quale si raduna sin dalla prima canzone una folla foltissima. Il leader dei Paradise Lost è ormai in pieno marasma old school: si presenta sfoggiando un nuovo look, con dreadlock lunghissimi, e con una tshirt dei Nails, giusto per evidenziare ulteriormente la sua rinnovata passione per il metal estremo. Tra l’altro, il Nostro appare anche un po’ alticcio e visibilmente divertito in questo nuovo ruolo di frontman, non perdendo occasione di aizzare la folla con frasi anche molto colorite. Purtroppo all’inizio i suoni non supportano a dovere l’esuberanza della band, ma fortunatamente col passare dei minuti la situazione migliora e la macchina Vallenfyre inizia a girare bene, innescando pure un certo movimento nelle prime file. Il gruppo ha in cantiere un nuovo platter da qualche tempo, ma questa sera propone “solo” il debut album “A Fragile King” per intero, mescolando l’ordine dei pezzi e cercando di chiudere in crescendo, con gli episodi più tirati e violenti. In effetti, “Humanity Wept” e “Desecration” nel finale sembrano proprio stordire il pubblico, anche se per noi il vero highlight del concerto è rappresentato da “My Black Siberia”, traccia più melodica e anthemica. A parte qualche calo nella voce di Mackintosh, che evidentemente deve ancora affinarsi come cantante, la performance dei Vallenfyre è di quelle gradevoli: il gruppo suona bene e riceve grandi applausi, tenendo alto il vessillo del death metal in una giornata sinora un pochino avara di esponenti su questo fronte.
KATATONIA
I Katatonia in questi giorni sono in tour con Paradise Lost e Lacuna Coil e stanno proponendo “Viva Emptiness” per intero per celebrare il decimo anniversario della pubblicazione di quest’ultimo. Oggi per il tour è previsto un day off e gli svedesi sfruttano l’occasione per prendere parte al festival, prendendo esempio da Mackintosh dei Paradise Lost, che si sta appunto tenendo impegnato con i Vallenfyre. I Nostri si presentano sul palco principale, denunciando subito gli stessi problemi di mixaggio riscontrati dai God Seed: i suoni risultano infatti lontani dalla perfezione e iniziano ad inficiare almeno in parte uno show che già di per sè non pare essere partito col piede giusto, visto che il gruppo sembra stanco. Jonas Renkse tieni in piedi la baracca con una prestazione dignitosa, ma il tessuto sonoro quest’oggi risulta fiacco e un po’ slegato, come se appunto i musicisti stessero procedendo per tentativi, senza una vera regia alle spalle. Purtroppo da qualche tempo a questa parte sembra che i Katatonia abbiamo perso buona parte del loro smalto: i Nostri non sono mai stati una live band eccelsa, ma in passato erano comunque riusciti a rendersi protagonisti di buoni concerti; ora invece, man mano che i dischi in studio diventano più curati e ricchi di dettagli, gli svedesi paiono perdere mordente e precisione dal vivo. Non sappiamo come spiegarlo, ma resta il fatto che la show di questa sera finisce per dimostrarsi appena sufficiente, grazie poi quasi esclusivamente alla qualità del materiale, non certo all’esecuzione. “Viva Emptiness” viene appunto suonato per intero, compresa la b-side “Wait Outside”, ma la tracklist viene invertita: i ragazzi partono da “Inside The City Of Glass”, che presenta anche una inedita parte cantata, e chiudono con la celebre “Ghost Of The Sun”.
ROTTING CHRIST
Siamo quasi al termine della giornata e il Damnation Festival sfodera gli ultimi pezzi grossi. Fra questi, i Rotting Christ, che arrivano da queste parti per promuovere la loro ultima fatica, “Kata Ton Demona Eaftou”. Il gruppo ha avviato l’ennesimo tour europeo qualche giorno fa e giunge a Leeds già ben rodato. Su questo tuttavia vi erano pochi dubbi, dato che oggettivamente negli anni non ricordiamo un concerto poco riuscito da parte dei greci. Sakis Tolis ha sempre puntato molto sull’attività live e questa sera abbiamo nuova conferma della grande prestanza dei Nostri, che piombano sul Terrorizer Stage con innato carisma, attirando su di loro l’attenzione di almeno metà del totale dei presenti. C’è davvero tanta gente ad assistere allo show dei Rotting Christ, i quali aggrediscono la folla e non mollano la presa per un secondo, suonando con quell’affiatamento che tutti ricordavamo. L’unico appunto che ci sentiamo di fare al quartetto riguarda la setlist, che in questa occasione non si rivela essere particolarmente fantasiosa: il repertorio della band è vasto e ricco di perle, ma i Nostri più o meno puntano sempre sui soliti classici, evitando di scavare un po’ più a fondo. Pazienza, ma davanti a boati come quello che accoglie una “The Sign Of Evil Existence” non fatichiamo a comprendere le ragioni di Sakis.
CARCASS
Si chiude con i Carcass. Si chiude col botto! I britannici stanno per imbarcarsi nel primo tour di supporto al nuovo “Surgical Steel”, dove, come ormai noto, apriranno per gli Amon Amarth. Questa sera però gli headliner sono loro e il tempo a disposizione per il concerto è consono alla circostanza. I Carcass suonano dunque senza alcuna fretta, passando in rassegna tutta la discografia e trovando pure il tempo per (ri)presentare Ken Owen ad una folla in delirio. L’ex batterista dei Nostri arriva sul palco, si concede all’abbraccio del pubblico e improvvisa pure una sorta di mini-assolo. Le sue condizioni fisiche sono note a tutti e purtroppo non sarà mai più possibile vederlo prendere parte attiva agli show del gruppo, ma fa piacere vedere che i suoi vecchi compagni non si siano dimenticati di lui. Tornando alla performance, non si sa da dove cominciare per descrivere la magnificenza dei Carcass di questa sera: la scaletta è appunto equilibrata e, grazie a qualche medley, riesce a presentare (almeno in parte) anche più pezzi del previsto; i suoni sono ottimi e i musicisti non sbagliano un colpo: il nuovo batterista è eccellente, ma a fare la figura migliore è Bill Steer, che suona in maniera divina e ruggisce al microfono come ai vecchi tempi. Proprio come “Surgical Steel” ha suggerito, il gruppo sta vivendo una vera e propria seconda giovinezza: mentre ammiriamo i Nostri sul palco stentiamo quasi a credere che i suoi membri cardine siano dei “vecchietti”. Una volta tanto, davanti ad una esibizione live di un gruppo della vecchia scuola, non abbiamo assolutamente appunti da fare: l’esecuzione è priva di punti deboli e i nuovi brani non sfigurano accanto ai classici. Certo, preferiremo sempre una “Carnal Forge” ad una “Captive Bolt Pistol”, ma sentire quest’ultima non è certo una tortura per le nostre orecchie, anzi! I Carcass, in definitiva, si dimostrano headliner di nome e di fatto: un gruppo superiore al resto del cartellone sotto qualsiasi punto di vista. Felicissimi di avere avuto modo di rivederli in un evento simile e non in veste di semplici supporter per un’altra band.
Setlist:
Buried Dreams
Incarnated Solvent Abuse
Carnal Forge / No Love Lost
Unfit for Human Consumption
Edge of Darkness / This Mortal Coil / Reek of Putrefaction
Cadaver Pouch Conveyor System
Genital Grinder / Pyosisified (Rotten to the Gore) / Exhume to Consume
Captive Bolt Pistol
Corporal Jigsore Quandary / The Sanguine Article
Ruptured in Purulence / Heartwork
Blackstar / Keep On Rotting In The Free World