01/11/2014 - DAMNATION FESTIVAL 2014 @ Leeds University - Leeds (Gran Bretagna)

Pubblicato il 19/11/2014 da

Introduzione di Luca Pessina
Report a cura di Giovanni Mascherpa e Luca Pessina
Foto di Gobinder Jhitta e Tim Finch

Il britannico Damnation Festival compie dieci anni e Metalitalia.com, reduce dalle più che positive esperienze degli scorsi anni, non puó fare a meno di tornare in quel di Leeds per celebrare l’evento. A livello stilistico e prettamente organizzativo, quasi niente è cambiato rispetto all’anno scorso, quindi non possiamo che confermare le positive impressioni rilasciate nell’introduzione al nostro report dell’edizione 2013. L’unico appunto che possiamo fare in questa occasione è relativo alla capacità dell’area messa a disposizione dall’università di Leeds, che quest’anno è stata forse messa a dura prova dagli organizzatori. Rispetto all’anno scorso sono infatti state vendute alcune centinaia di biglietti in piú e ció ha comportato un affollamento sinora mai visto all’altezza delle performance di certi gruppi sui palchi minori. Nulla di tragico – del resto il piú delle volte è bastato muoversi con un po’ di anticipo per rimediare un posto o evitare le code – ma forse per l’anno prossimo sarà il caso di studiare soluzioni diverse, in particolare a livello di assegnazione dei palchi. Far suonare una delle piú famose death metal band di sempre – i Cannibal Corpse – sul secondo palco anzichè su quello principale, lo Jaegermeister stage, non è stata ad esempio un’idea brillante: in tanti, noi compresi, sono stati letteralmente respinti da un muro umano creatosi in diretta prossimità dell’entrata della sala che ospita il Terrorizer Stage. Anche volendo provare ad entrare ad ogni costo, ció avrebbe significato stare in fila a lungo, attendere l’ok della security e comunque perdere buona parte dello show. A parte questo, il Damnation Festival 2014 è stato ancora una volta un’esperienza felicissima: avere a novembre un simile evento aiuta seriamente a mitigare la nostalgia per l’estate passata e rincuora in attesa della futura stagione festivaliera. Cercheremo di non mancare anche nel 2015.

damnation festival - locandina - 2014

CORRUPT MORAL ALTAR

Completato un primo giro di acclimatamento, e di orientamento, quanto mai necessario per non perdersi nel dedalo di corridoi, sale, scalinate che compongono l’accogliente ma labirintica struttura in cui si svolge il festival, possiamo finalmente passare ai primi bombardamenti di note. Ci rechiamo al Plastic Head Stage, che dovrebbe essere normalmente adibito a teatro durante le usuali settimane universitarie in quel di Leeds. La sala è corta e larga, non proprio l’ideale per godere al meglio le band più “calde” che si presenteranno qua sopra nel corso della giornata, mentre per il primo gruppo in programma non si segnalano resse che possano indisporre i convenuti. Il palco è molto ampio e profondo, un buon campo di battaglia per un quartetto aggressivo ed esagitato come gli sludge-grinder Corrupt Moral Altar, resisi protagonisti con “Mechanical Tides”, pubblicato a luglio di quest’anno, di un piccolo saggio di inventiva e virulenza applicati all’estremismo sonico. Le speranze di essere spazzati via e polverizzati da blast-beat al napalm, rallentamenti tenui come frustate di filo spinato nelle parti intime, stacchi di pura follia isterica, si infrangono miseramente a causa di un sonoro ai limiti dell’indecente. Volumi bassi, livelli fuori posto, approssimazione nella regolazione di tutti gli strumenti affondano nei primi minuti l’operato di chi occupa lo stage. Dal canto loro, i ragazzi non devono avere troppo sentore del poco che si sente, o non se ne curano, e si sbattono come disperati per assecondare la schizofrenia della musica. L’unica chitarra di John Cooke è il tassello del Corrupt Moral Altar-sound a soffrire maggiormente, ridotta a una specie di rumore di fondo indefinito e neanche impostata su volumi spaccatimpani, che potrebbero almeno garantire quel minimo di aggressività necessario in casi come questo. Qualche aggiustamento ci sarà durante la mezz’ora a disposizione, ma considerando anche la sensazione di slegamento comunicata dai Nostri, a dire il vero un po’ insipidi nello stritolare scurissime partiture grind, sludge e black metal una dietro l’altra, il concerto non riesce proprio a decollare. Ci rimane un po’ di amaro in bocca, consapevoli però che siamo solo a inizio giornata, il menù è decisamente ricco e le portate abbondanti…
(Giovanni Mascherpa)

Corrupt Moral Altar - damnation fest - 2014

ATLANTIS

L’organizzazione del Damnation presenta gli Atlantis come dei buoni epigoni dei leader del movimento post-metal, i Cult Of Luna. Descrizione ineccepibile, tolta l’assenza di voce per la formazione di Utrecht, le somiglianze con gli schemi d’azione dei formidabili svedesi, presi nella loro incarnazione più atmosferica, sono parecchie. Non si può, fortunatamente, parlare di plagio, perché il secondo ensemble chiamato a esibirsi sul Plastic Head Stage sa far emergere un pizzico di personalità e si muove con sicurezza e impeto fra colossali maree di suono, melodie liquide, sospiranti saliscendi, veli di elettronica dispensati per aumentare il flavour tecnologico della proposta. La presenza di tre chitarre permette di ispessire le impalcature ritmiche con materia ad elevato peso specifico, che non manca di lasciare dietro di sé una scia luminescente, perché i chitarroni imbottiti del combo fanno sempre filtrare tenui raggi di sole, ad attenuarne l’impatto. Non ci sono particolari sorprese nel disegno generale; si parte preferibilmente in maniera minimale, molto educata, quasi in punta di piedi, e si sale progressivamente in un furore di elementi che evoca, creando una stretta connessione col proprio monicker, un’idea di distruzione imminente e di sommersione a causa dello scatenarsi delle forze naturali. Burrasca e bonaccia si alternano con una cadenza per molti versi prevedibile, ma senza creare monotonia e dare l’idea che la band vada in modalità “pilota automatico”: gli inserti melodici riescono, almeno in parte, a smarcarsi dai rimandi nei confronti dei già citati Cult Of Luna e dei The Ocean, gli intrecci delle sei corde giustificano la presenza di tanta potenza di fuoco e si rimane infine rapiti dal coerente dipanarsi di ogni traccia. La voce viene usata solo negli ultimi minuti, per urlare una rabbia tenuta sotto traccia durante l’esibizione e sfogata solo nell’epitaffio in un rauco ed effettato latrato. I suoni, in questa occasione, sono all’altezza e gli olandesi portano a casa una performance in linea con il contesto di alto livello in cui sono stati posti.
(Giovanni Mascherpa)

OBSIDIAN KINGDOM

Giusto il tempo di uscire dal Plastic Head Stage e ci involiamo verso l’Eyesore Merch Stage per gustarci l’apparizione di uno degli ensemble esordienti più interessanti sfornati dalla scena prog nel 2012. Gli spagnoli Obsidian Kingdom si sono prodotti con “Mantiis” in un ibrido di scintillante prog classico, sperimentazioni e strappi extreme metal, raggiungendo una sintesi in grado di non scontentare nessuno. Né troppo estremi, né troppo pretenziosi, né autoindulgenti rispetto alla propria cifra tecnica, i ragazzi di Barcellona hanno ottenuto una buona penetrazione tra i fan del settore grazie al loro esordio su lunga distanza. Per quanto l’Eyesore consenta spazi di manovra molto ristretti e porti i musicisti a doversi muovere come se fossero in bilico su un dirupo, perché altrimenti cozzerebbero con i compagni, gli Obsidian Kingdom aggrediscono con energia e dinamismo la non sparuta audience. Anche per il pubblico non è facile muoversi, la collocazione dello stage andrà migliorata per le prossime edizioni, ma la scomodità non frena l’interesse e il numero dei presenti, e la loro partecipazione, ci paiono dignitosi. Sugli scudi abbiamo il cantante/chitarrista Rider G Omega, che è sulla buona strada per guadagnarsi un carisma molto friendly, in linea con quello di un Daniel Gindelow, tanto per capirci, e giostra benissimo una vocalità a seconda delle necessità carezzevole, tirannica, intimista, iraconda. Il suo sparring partner prediletto è il tastierista Zer0 Æmeour Íggdrasil, dal ciuffo criminale, bravo nel non perdere il filo del discorso nonostante l’headbanging forsennato in cui si lancia per tutta l’esibizione, costellata di armoniosi bozzetti multicolori e voli pindarici in un extreme/avantgarde metal complesso ma sempre molto diretto. I ricchi interventi vocali, che coinvolgono spesso gli altri membri della formazione, sono puntuali e appropriati, consentendo alla breve performance di andare in porto senza naufragi. Unica nota dolente la qualità dei suoni, purtroppo a chi è dovuto apparire su questo palco, come vedremo anche più avanti, non sarà riservata la cura dei dettagli e le condizioni di comfort godute da chi ha avuto la fortuna di esibirsi sui palchi di maggiori dimensioni.
(Giovanni Mascherpa)

STAMPIN’ GROUND

Gli Stampin’ Ground sono stati tra i precursori del mix di hardcore e metal in terra europea. Nei primi anni 2000, anche sull’onda della popolarità di gruppi thrash-death come i The Haunted, i Nostri sembravano a tutti gli effetti sul punto di esplodere e di diventare un nome di prima grandezza sia fra gli amanti del metal-core che tra gli ascoltatori più vicini al thrash. Poi, però, qualcosa si è rotto e i cinque inglesi hanno preso strade diverse, fra nuovi progetti poco fortunati e più redditizi lavori dietro alla console (il chitarrista Scott Atkins, produttore di Cradle Of Filth e Gama Bomb fra gli altri). Riformatisi all’inizio di quest’anno giusto per tenere una manciata di show, i ragazzi di Cheltenham arrivano al Damnation fomentatissimi e pronti a fare male, consapevoli del fatto che la loro proposta è fra le più dirette e aggressive della giornata. Un soundcheck fatto al volo e dei suoni lungi dall’essere ben calibrati non aiutano granchè il quintetto, ma il pubblico pare non farci troppo caso; guidate dagli incitamenti del frontman Adam Frakes-Sime, le prime file iniziano a muoversi parecchio, dando vita ora al classico circle pit, ora a un wall of death di notevoli dimensioni. La setlist sembra ricalcare quella dei tour pre-scioglimento, con ampio spazio per l’affilato thrash-hardcore dell’ottimo “A New Darkness Upon Us” e qualche hit irrinunciabile – vedi “Officer Down”, posta in chiusura ma richiesta dai fan sin dalle primissime battute. Frakes-Sime a livello vocale non ha sempre brillato, arrivando un po’ in affanno su alcune parti più tirate, ma nel complesso gli Stampin’ Ground hanno fatto esattamente ciò che si attendeva da loro: thrash, mosh e botte di adrenalina. Sempre un piacere, anche a distanza di un decennio.
(Luca Pessina)

Stampin Ground - damnation fest - 2014

RAGING SPEEDHORN

“Mi dia una definizione di bullismo”! “Facile, Raging Speedhorn”! Il bulldozer inglese è tornato, sudato e puzzone come un esercito di hooligan in marcia per prendere d’assalto lo stadio degli avversari. Alla pari degli Stampin’ Ground, l’apparizione al Damnation Festival fa segnare il grande ritorno sulle scene dopo un lungo iato per questa creatura rozza e strafottente, un monumento dell’underground britannico per qualche anno rimasto in uno scaffale a prendere polvere. Il ritorno dello storico vocalist Frank Regan è servito per armare nuovamente i cannoni, lustrare la carrozzeria del blindato e ripartire con quella tracotanza che aveva reso il gruppo una piccola leggenda underground a inizio anni 2000. E’ una guerra quella che si consuma sul parquet, sempre più scivoloso, dell’enorme salone adibito a venue principale; nelle vicinanze delle transenne bisogna stare con l’armatura, vigili e pronti al contrattacco, perché ai richiami dei due comandanti in capo – l’altro è il non meno dirompente John Loughlin – le truppe si dedicano a combattimenti corpo a corpo senza esclusione di colpi. La melmosa densità sonora fa da catapulta per possenti scartavetrate anthemiche, in cui è facile rintracciare l’anarchia piombata del NY hardcore, il fetore dello sludge, l’ignoranza dei peggiori bulli di quartiere alle prese con la strumentazione rock. Tempi medi cigolanti calpestano qualsiasi ostacolo, poi raccolgono le carni straziate rimaste e le masticano con lubrica goduria. Loughlin, cranio rasato e tatuaggi in bella evidenza sulle braccia nerborute, cammina per lo stage come un pugile in attesa del gong, e intanto squadra il pubblico con addosso tanto di quell’odio, di quel risentimento covato dentro troppo a lungo, da far temere l’esplosione da un momento all’altro. Se musicalmente lo stile dei cinque è avvincente ma monocromatico, il doppio cantato gli conferisce il fetido fascino dei bassifondi e dà lo stesso piacere di assistere a un pestaggio fra gang standosene comodamente a osservare dalla finestra di casa propria. In sala c’è gente che attendeva questo ritorno con la stessa calma di chi vede la squadra del cuore ritornare in serie A dopo mezzo secolo, e non ci stupiamo quindi dinnanzi alle mischie che si creano. I Raging Speedhorn farebbero venire voglia di menar le mani al più pacifico degli individui.
(Giovanni Mascherpa)

Raging Speedhorn - damnation fest - 2014

SOLSTAFIR

A quanto pare i Sòlstafir erano attesi con una certa trepidazione da queste parti: si fa una gran fatica ad entrare in sala, anche sui lati, nelle posizioni più decentrate, gli spazi sono occupati e si sta appiccicati gli uni agli altri. Cinque anni fa, ai tempi di “Köld”,ci sarebbero state venti persone ad assistere… Oggi, invece, dopo che il freschissimo “Otta” ha consolidato e allargato il numero di discepoli, la Sòlstafir -mania è un fatto concreto e l’ulteriore levigatura delle asperità avvenuta con l’ultimo lavoro ha permesso l’avvicinamento agli islandesi anche di ascoltatori dagli ascolti tendenzialmente molto soft. La tensione superficiale presente davanti al Plastic Head Stage si scioglie in un boato all’apparizione del quartetto, che ci appare sempre più curato e leccato, attento a non lasciare niente al caso nel proprio look. La vestizione in perfetto stile cowboy, la barba e i capelli tenuti lunghi ma molto ordinati, andando a costituire la perfetta immagine da “cowboy dei ghiacchi” che i nordici intendono lasciare di sé, hanno creato un forte appeal sull’immaginario collettivo, e giustamente i musicisti ci marciano alla grande, senza per questo apparire finti e troppo pieni di sé.  L’apertura è affidata alle gelide e carezzevoli raffiche di vento nordico rappresentate da “Ljòs i Stormi”, pezzo che dovrebbe essere un putiferio emozionale ciclopico, e invece ci arriva alle orecchie in maniera sbagliata, troppo smorzata, senza alcun impeto né ruvidità. I volumi sono bassissimi e le chitarre in particolare sono spompe, una pallida imitazione delle avvolgenti concezioni presenti su “Svartir Sandar”. Le nostre perplessità non toccano la maggioranza dell’audience, probabilmente la sola presenza della band rende così felici i presenti da dare poca importanza alle imperfezioni formali che stiamo udendo. La situazione migliora, senza arrivare alle condizioni ideali, con “Ótta”, ma in questa circostanza i danni sono contenuti, i pezzi del puzzle si incastrano meglio; peccato che la pressione chitarristica resti debole e l’unico mix di delicatezza e ruvidezza ostentato con gli ultimi dischi non venga nemmeno sfiorato, pendendo decisamente la prestazione di stasera verso la diluizione del post-rock, e lasciando in secondo piano il retaggio metallico ancora presente nell’identità del combo. Aðalbjörn Tryggvason è sempre più “personaggio”, gli piace tantissimo andare sui monitor a catturare l’attenzione, e sfoggia un ventaglio di espressioni facciali una più assurda e stralunata dell’altra. “Fjara”, diventata la canzone-simbolo dei Sòlstafir, suscita una reazione quasi orgasmica dal pubblico, però non soddisfa del tutto la sua resa, per i motivi già elencati. Tutto il gioco di riverberi così ben congegnato in studio, al Damnation si perde, e il brano suona un po’ nudo e scarno. Rialza le sorti della contesa, lasciando un dolce sapore speziato, “Goddess Of The Ages”. Dalla lunga, calma, introduzione, all’entrata in scena della voce, agli ammiccamenti del singer sul refrain, per arrivare alle sferzate chitarristiche finalmente irruente, i Solstafir possono dimostrare di che pasta siano fatti, e complice il cantato in inglese, che porta a notevoli cori di risposta alle linee principali, vedono confluire vicino alle transenne una densità corporea degna dell’ultimo atto di un concerto dei Metallica. Non la prova migliore degli islandesi, quella di Leeds, ma la felicità osservata negli occhi di chi ci sta vicino – molti probabilmente non avevano mai visti i Sòlstafir dal vivo – la fa sembrare un trionfo assoluto.
(Giovanni Mascherpa)

REVOCATION

Attualmente in tour come supporto principale dei Cannibal Corpse, i Revocation arrivano al Damnation Festival estremamente rodati e con una consapevolezza dei propri mezzi mai così spiccata. Il contratto con Metal Blade Records e i continui ottimi responsi ottenuti dai dischi in studio stanno evidentemente facendo bene al gruppo, che ormai si pone davanti al pubblico con estrema sicurezza, riuscendo a sia a replicare senza fatica le complesse trame dei brani, sia a tenere il palco con maggior vivacità. Potremmo fare giusto un appunto alle voci pulite di David Davidson, a volte un po’ deboli nelle parti più concitate, ma si tratta di momenti in uno show altrimenti interpretato con grande efficacia. Il bello dei Revocation è che sembrano piacere a tante e diverse fasce di pubblico: dai death metaller ai thrasher, passando per ascoltatori di metal più accessibile e “giovane”. Del resto, ciò è pure specchio della varietà delle loro composizioni, che mescolano tecnicismi, ritmiche thrash e – almeno ultimamente – delle concessioni alla melodia che possono arrivare a stuzzicare persino i fan di Mastodon o Trivium. Non stupisce insomma vedere una folla nutritissima davanti al Terrorizer Stage, intenta ad incitare il gruppo con ondate di headbanging e un pogo di discrete dimensioni. I suoni, tra l’altro, sono buoni e brani come “Dismantle the Dictator” e “Fracked” riescono a lasciare il segno esattamente come su disco. Essendo in tour come spalla di un grosso nome, la band è forse abituata ad esibirsi in tutta fretta per non rischiare di essere tagliata e ciò fa sì che la foga dei ragazzi statunitensi risulti quasi palpabile. Si parte e si finisce di corsa, insomma, e il risultato è uno dei concerti più intensi del Damnation Festival 2014.
(Luca Pessina)

Revocation - damnation fest - 2014

A FOREST OF STARS

Sullo Jägermeister Stage vanno in scena gli Orange Goblin, ormai molto popolari un po’ ovunque nel continente, figuriamoci a casa loro, ma sull’Eyesore Merch Stage è il turno di un’altro scrigno di tesori della scena british. I grandi numeri di vendita e le platee sterminate non sono l’habitat consueto degli atipici blackster originari proprio di Leeds, ma l’ascesa compiuta dagli A Forest Of Stars nella nicchia del black metal più originale e fuori dai normali canoni del settore è comunque degna di nota. Sulla scia dell’ottima nomea conquistata con “A Shadowplay Of Yesterday”, il terzo disco del gruppo realizzato nel 2012, gli A Forest Of Stars si ritagliano uno slot di cinquanta minuti, in cui dare sfogo alla loro particolare musicalità legata a doppio filo con l’epoca vittoriana dell’Impero anglosassone. I sette musicisti, evitando accuratamente di finire uno sull’altro in un catastrofico effetto domino, si presentano in doppiopetto nero su camicia bianca, eleganti come se si trovassero a un ricevimento. La fastosità degli arrangiamenti, con la presenza a tratti di doppie percussioni, di raffinatezze tastieristiche a valanga e di un trionfante violino, viene smorzata da suoni abbastanza confusi e stridenti; i Nostri finiscono per suonare notevolmente più ruvidi e scarni di quanto dovrebbero, le eleganti e pompose melodie che fungono da perno delle ricercate composizioni sono nascoste dalla sezione ritmica e dall’acido screaming di Mister Curse, a volte un po’ fastidioso per l’eccessivo contrasto con l’ariosità della musica. Seppure depotenziati, gli A Forest Of Stars ricevono un “tifo” costante dall’ampia folla presente; è chiaro che per molti questo sia un evento rilevante, non uno show fra tanti, gli scrosci di applausi vanno oltre il semplice apprezzamento di quanto udito oggi e denotano piuttosto una fidelizzazione consolidata negli anni. I saluti a fine concerto si protraggono un po’ più del consueto, la band è visibilmente emozionata e compiaciuta dall’affetto mostrato dai fan, e pazienza se i suoni non erano esattamente al bacio. Ai beniamini di casa si perdona tutto.
(Giovanni Mascherpa)

ANAAL NATHRAKH

Gli Anaal Nathrakh sono da sempre garanzia di follia e ultraviolenza. Ora che Mick Kenney è rientrato dagli USA, i Nostri possono esibirsi con la loro classica lineup e non deludere sotto alcun punto di vista. La sala che ospita il Terrorizer Stage è gremita di gente ben prima che il gruppo dia fuoco alle polveri, segno evidente che gli Anaal Nathrakh, a dispetto della difficoltà della loro proposta, siano ormai diventati un nome di punta della scena estrema britannica e non. V.I.T.R.I.O.L. continua a migliorare come frontman: sono lontani i tempi in cui era solo un urlatore preso in prestito dai Benediction; le voci pulite sembrano quasi essere diventate il suo punto forte, ma anche la presenza scenica è migliorata di molto… una volta il Nostro era ben più riservato! Poco da dire invece sul resto della formazione e sulla qualità della musica: non scopriamo il black-death-grindcore della band certo oggi. Negli anni abbiamo avuto modo di vedere la formazione all’opera su un palco diverse volte e ogni appuntamento si è sempre rivelato un piccolo evento. Riteniamo che gli Anaal Nathrakh facciano bene a non esibirsi troppo spesso: la loro pazzia evita di diventare routine e la ferocia espressa risulta sempre genuina e ben incanalata. Il nuovo “Desideratum” è appena arrivato nei negozi, ma, almeno questa sera, sono curiosamente i brani estratti da “Eschaton” a farci trasalire maggiormente: “Bellum Omnium Contra Omnes” e “Between Shit and Piss We Are Born” sfondano crani, levando per un attimo il sorriso dalle tante facce compiaciute oggi presenti a Leeds.
(Luca Pessina)

Anaal Nathrakh - damnation fest - 2014

SAINT VITUS

I Saint Vitus non hanno granchè in comune con il resto del cartellone, ma scommettiamo che a Wino e soci ciò non importi un accidente. Anzi, con tutta probabilità i Nostri sanno a malapena dove si trovano e con chi stiano dividendo il palco. L’approccio della leggenda doom metal statunitense è quello di sempre: zero fronzoli, zero pretese, ma anche piena consapevolezza dei propri mezzi e del proprio status. Non a caso, l’audience pare subito rapita dal magnetismo del quartetto, che arriva al Damnation Festival per proporre lo storico “Born Too Late” per intero, assieme ad un discreto numero di altri brani. Per il gruppo tutto ciò è forse solo routine – stiamo parlando di gente che in quasi quarant’anni ha visto e fatto letteralmente di tutto – ma per il pubblico è sempre un’esperienza speciale vedere l’attempato frontman impossessarsi del microfono, reggere la scena praticamente da solo e ululare ora con disprezzo, ora con innata passione. Di nuovo, non è del tutto chiaro quanto i Saint Vitus siano soddisfatti della loro performance o del responso del pubblico: le emozioni che i loro vecchi volti tradiscono sono ben poche, ma la folla certamente apprezza. D’altronde, la setlist è una carrellata di classici, dalla title track del suddetto album passando per “White Stallions”, “Dying Inside” o “The Troll”. L’andamento ciondolante della musica dei Saint Vitus finisce per rappresentare uno dei più graditi break in questo Damnation Festival particolarmente estremo; giudicando dalla folla accorsa davanti allo Jaegermeister stage in tanti attendevano questo momento e forse solo pochi sono rimasti delusi. Ovunque li si metta, gli statunitensi sanno sempre come lasciare il segno.
(Luca Pessina)

St Vitus - damnation fest - 2014

AHAB

Impossibilitati a visionare il set dei Cannibal Corpse per i succitati problemi di mega-affluenza all’interno della sala del Terrorizer Stage, “ripieghiamo” sul PHD Stage e sullo show da headliner degli Ahab, band che non è solita esibirsi spesso in terra d’Albione. Fa un gran piacere vedere un gruppo dal suono così personale e senza compromessi riscuotere un successo sempre crescente: gli Ahab sono attesi da una sala piuttosto affollata e sembrano non nascondere l’emozione davanti a tale responso. La loro presenza scenica non ha fatto grandi passi in avanti rispetto agli esordi, ma, trattandosi (per lo più) di funeral doom metal, la cosa è anche irrilevante. Quel che davvero conta è appurare che Daniel Droste non abbia mai cantato meglio: ogni volta che vediamo il cantante/chitarrista dal vivo rimaniamo impressionati dalla sua abilità nel passare da un growl profondissimo a toni puliti ed elegiaci che non conoscono incertezze. L’audience, evidentemente nuova agli Ahab in versione live, rimane subito ipnotizzata, tanto che durante l’esecuzione dei pezzi sembra quasi che certe zone restino in rigoroso silenzio. “The Divinity of Oceans” è forse la traccia che nell’insieme più impressiona gli astanti, ma, come sempre, è impossibile non menzionare “The Hunt”, che conclude il concerto all’insegna di una potenza e di una epicità mostruose. Ancora più live che su disco, gli Ahab dimostrano come sia possibile rendere vivo ed emozionale il doom metal più duro. Siamo al cospetto di una band ormai affermata e che, giustamente, è sempre meno “per pochi”.
(Luca Pessina)

Ahab - damnation fest - 2014

BOLT THROWER

All’inizio dell’autunno i Bolt Thrower si sono svegliati dal letargo e hanno tenuto una serie di date in giro per l’Europa, presentandosi in alcune venue ben selezionate del Vecchio Continente. Mancava giust’appunto la propria patria e la lacuna viene sanata nell’occasione migliore possibile. Una data di questa band con un paio di supporting act avrebbe avuto sicuramente un buon numero di presenze, ma mai quanto un festival di questo calibro. Vedendo quanto sia alta l’attesa per un concerto dei deathster di Coventry, capiamo che il “culto” nei loro confronti tocchi livelli sconcertanti. Una sola immagine rende l’idea: ore sedici e venti, usciamo dallo Jägermeister Stage durante il pezzo di chiusura dei Raging Speedhorn per prendere posto in vista del concerto dei Sòlstafir. Sulla sinistra, una massa di gente al banco del merchandise dei Bolth Thrower. Cosa fanno tutti lì? Semplice, alle cinque cominciano a vendere le magliette. Non prima. E quaranta minuti in anticipo rispetto a quando le preziose t-shirt saranno disponibili, a prezzi ultrapopolari tra l’altro, e nonostante una disponibilità molto elevata degli articoli, nessuno vuole correre il rischio di restarne senza. Non osiamo immaginare cosa accadrà alla sera. Infatti… L’atmosfera che si respira è sacrale, la lunga e sterminata sala concerti è piena, è impossibile guadagnare le posizioni adiacenti allo stage. Non si passa. Un’intro tronfia ed epicissima saluta la comparsa di questi stagionati musicisti. Interrotta la base registrata, è l’ora dell’armageddon. Per chi come il sottoscritto non si era mai trovato al cospetto dei Bolt Thrower, l’esperienza è di quelle da tramandare ai posteri. Uno di quei concerti che entra sottopelle, ti scuote, dà una scarica di adrenalina difficile da dimenticare, andando a costituire uno di quei momenti a cui aggrapparsi quando il torpore schiaccia le giornate più routinarie. Perché questi attempati signori con la fissa per Realm Of Chaos, il death metal e il punk sono dei giganti senza tempo, carismatici senza neanche provare ad esserlo, brutalmente sconquassanti come se fossero una schiera di barbari lanciati su un villaggio nemico. I volumi esagerati fustigano con sadismo luciferino, ma è quando entrano sul polveroso campo di battaglia le melodie più epiche che tocchiamo con mano tremante il senso del vero trionfo, della vittoria di un’entità superiore sopra a qualsiasi altro contendente. Intercettare un brano più esaltante degli altri ci sembra fuori luogo, non perché non vogliamo sforzarci, ma è tale la qualità del materiale della band, l’intelligenza delle scelte, perfino l’alternanza fra brani più diretti e altri molto sfaccettati, ferocemente incupiti e dagli effetti distruttivi prolungati nel minutaggio, che saremmo comunque fallaci nella nostra analisi. Pensate a un esercito impegnato in battaglie una più sanguinosa e impegnativa dell’altra, che terminata una contesa non se ne stia a riposare in vista del cimento successivo, ma riparta nuovamente alla carica per sottomettere i nemici successivi. I Bolt Thrower si comportano allo stesso modo; non riesci a raccapezzarti e a ritrovare un minimo di compostezza dopo aver udito “Mercenary” che ti fai squartare dal medley “World Eater / Cenotaph” e poi ti metti sull’attenti agli ordini dei tuoi generali per “Warmaster”. Strappi arti e scotenni intestini durante “The IV Crusade” e riparti urlando a squarciagola per quello che, sì, lo possiamo dire, sono stati i cinque minuti più gloriosi dell’anno, a titolo meramente personale: “No Guts, No Glory” stritola la nostra idea di epos bellico e la rilancia a un idealismo che ad altri non è dato di coltivare con tale sapienza. Pensiamo non siano crollate le colonne di sostegno dell’edificio in cui ci troviamo solo per la maestria del costruttore e l’avvedutezza nel mettere in atto misure antisismiche, perché la risposta dei presenti è stata indicibile. Non uno, ma due encore caratterizzano il concerto; il primo prevede l’uno-due “At First Light-“When Cannons Fade”, il secondo, quando la gente sta già uscendo, certa che siano stati tacitati gli strumenti definitivamente, dà il pietoso colpo di grazia con “Silent Demise”. Poco a aggiungere sulle prestazioni dei singoli: la leggera perdita di grip di Karl Willetts in alcuni momenti contribuisce, paradossalmente, a rendere più autentica e viscerale la sua prestazione. La coppia ritmica è un sergente di ferro che pretende l’impossibile dalle sue truppe, e ottiene il 110% di quanto richiesto, mentre le due asce scorticano ogni riff e li vomitano in un bolo infuocato fra il death metal e il d-beat. Avessero dovuto stare a sentire le richieste di bis degli astanti, i Bolt Thrower sarebbero andati avanti a suonare fino al mattino. E nessuno se ne sarebbe andato via in anticipo. Solo devozione e rispetto per artisti di questa caratura.
(Giovanni Mascherpa)

Bolt Thrower - damnation fest - 2014

 

Bolt Thrower - damnation fest - 2014

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