04/11/2017 - DAMNATION FESTIVAL 2017 @ Leeds University - Leeds (Gran Bretagna)

Pubblicato il 09/11/2017 da

Come ogni anno, il primo sabato di novembre è sinonimo di Damnation. Il festival, ormai di casa presso i saloni ricreativi dell’università di Leeds, è diventato un assoluto punto fermo per tutti gli appassionati di extreme e “post” metal (e derivati) britannici, tanto che si è perso il conto dei sold out consecutivi che questo festival nato nel 2005 è riuscito a registrare negli ultimi anni. Potendo contare su una location ampiamente collaudata, sul supporto praticamente incondizionato della scena locale e su una mentalità aperta e proattiva da parte dell’organizzazione, la quale è sempre capace di allestire un cartellone invitante mantenendo al contempo dei prezzi molto accessibili, il Damnation non manca mai di farsi segnalare come una piacevolissima parentesi festivaliera in un periodo, l’autunno inoltrato, in cui l’unico modo di assistere a degli show è rappresentato dal passaggio di qualche tour per i soliti locali cittadini. Con ben quattro palchi e un’atmosfera festosa – a dispetto della collocazione indoor e delle temperature rigide all’esterno – l’appuntamento di Leeds è una vera manna dal cielo per tutti coloro che in terra d’Albione sognano continuamente le opportunità e le sensazioni che la stagione dei festival estivi è solita regalare. In effetti sta diventando difficile trovare termini nuovi per descrivere l’esperienza Damnation: anche quest’anno infatti l’evento si è rivelato un grande successo sia dal punto di vista artistico che da quello organizzativo; tanti ottimi show, molto curati anche sotto il profilo dei suoni, e grandi rispetto e attenzione per gli avventori, i quali di rado hanno dovuto fare i conti con code per entrare nei locali o per acquistare cibo e bevande. Il Damnation festival è una macchina ormai ben oliata e, a meno di scelte bizzarre a livello di line-up, non vediamo come non possa continuare a registrare un sold out dopo l’altro negli anni a venire.

DISENTOMB

Quest’anno il nostro Damnation è dedicato quasi esclusivamente a band dal sound poco conciliante. Il programma del festival presenta numerose realtà dedite a sonorità atmosferiche, melodiche e sofisticate, ma noi scegliamo l’ignoranza sin dalle prime ore della giornata. In questo senso, con i Disentomb andiamo sul sicuro: il quartetto australiano, da qualche settimana in tour in Europa con i Dying Fetus, viaggia sempre sulle ali dell’acclamato “Misery”, disco uscito ormai tre anni fa. Probabilmente i ragazzi di Brisbane stanno lavorando a del nuovo materiale, ma, a parte una traccia proposta sul finire dell’esibizione, quello di cui godiamo è sostanzialmente un best of dei due album rilasciati sinora. E’ un death metal che sposa tecnicismo e qualche reminiscenza slam, quello targato Disentomb, (abili) discepoli di gente come i Defeated Sanity, ma musicisti comunque in possesso di una certa personalità, soprattutto quando i ritmi si assestano su agili midtempo e il chitarrista Jake Wilkes ha modo di sciorinare dei riff ingegnosi e sempre vagamente catchy. Il frontman Jordan James è invece oggettivamente monocorde, ma la sua piatta interpretazione al microfono viene compensata da una buona presenza scenica e da una affabilità tutta australiana. Il pubblico apprezza e questa edizione del Damnation Festival è bella che avviata.

LENG TCH’E

Dopo avere messo a segno un bel colpo con il convincente “Razorgrind”, loro primo album in oltre sette anni, i Leng Tch’e possono contare anche sulla vetrina offerta dal Damnation festival per ribadire a tutti di essere ancora vivi e vegeti. Il quartetto belga si presenta in palla e con un Serge Kasongo assolutamente su di giri nelle vesti di frontman. E’ il piccolo Tone MGMT stage ad ospitare il concerto, ma l’ambiente è perfetto per una band del calibro e dell’indole dei Leng Tch’e, i quali impiegano pochissimo per ricreare quel marasma tipico dei loro normali show. Il grindcore carico di groove della formazione va giù che è una bellezza e la sala si riempie presto di fan e curiosi che premono verso il palco, attirati dalla simpatia di Kasongo e dalla sua tendenza a scendere fra il pubblico. Se si è fra le prime file è vietato restare fermi: questo è il pensiero del cantante, il quale non perde occasione per spingere i cosiddetti lavativi e per attirare su di sè tutta l’attenzione della platea. Non assistevamo ad uno show dei Leng Tch’e da diverso tempo, ma questa realtà ormai storica del circuito europeo è da sempre brava a sfruttare le occasioni importanti. Con “Razorgrind” finalmente nei negozi e con una carica live più che mai indomita, la carriera dei quattro sembra pronta al definitivo rilancio.

VALLENFYRE

Torniamo davanti al Terrorizer Stage, dove già si sono esibiti i Disentomb, per assistere al concerto dei Vallenfyre. In questo primo pomeriggio Greg Mackintosh ha modo di prendersi una pausa dai Paradise Lost, con i quali è in tour in Europa da circa un mese, per dare sfogo al suo amore per i suoni più estremi. Il look che il chitarrista/frontman sfoggia ultimamente, con cresta punk in bella evidenza, si addice perfettamente al tono dello show, che pesca in gran parte dal death-grind del recente “Fear Those Who Fear Him”, il disco più crudo e brutale della carriera dei Nostri. Il suono in sala purtroppo è abbastanza confuso, ma l’esecuzione della band sembra meticolosa; un tempo Mackintosh e i suoi compari tendevano a presentarsi alticci, forse anche per vincere la timidezza, ma oggi il leader risulta soltanto contento e ciarliero, mentre i suoi compari attenti e sul pezzo. Pare insomma che i tour sostenuti dai Vallenfyre negli ultimi anni abbiano aiutato il fondatore dei Paradise Lost a svezzarsi e a fargli pienamente abbracciare il ruolo di frontman senza chitarra. Per Mackintosh questo concerto è praticamente un ritorno a casa, essendo cresciuto in queste zone: la sua affabilità fa subito breccia nel pubblico, così come lasciano il segno le ficcanti trame di pezzi come “Instinct Slaughter” e “Nihilist”. Il lato doom del gruppo viene un po’ messo da parte in questo breve set per privilegiare il materiale più serrato e feroce, scelta forse dettata dal desiderio di volere staccare il più possibile dalla routine delle ultime settimane. Ne deriva un concerto pieno di urgenza e menefreghismo; un concerto magari non perfetto, ma che lascia la maggior parte della platea divertita e sorridente.

Setlist:

Born to Decay
Messiah
Cathedrals of Dread
Instinct Slaughter
An Apathetic Grave
Nihilist
Scabs
Savages Arise
The Merciless Tide
Kill All Your Masters
Desecration

MYRKUR

Decidiamo di interrompere il flusso di brutalità che ha contraddistinto le prime ore del nostro Damnation per andare a saggiare l’attitudine live della chiacchieratissima Myrkur, di recente tornata sotto i riflettori con il nuovo album “Mareridt”. Vi è parecchio hype attorno all’operato dell’artista di origine danese, la quale deve da sempre fare i conti anche con l’intolleranza proveniente (soprattutto) dalla frangia black metal più tradizionalista. Non è dunque un caso che il discusso progetto di Amalie Bruun si ritrovi ad esibirsi sul palco principale, davanti ad una platea composta in larga parte da curiosi come il sottoscritto. Lo show parte in modo soffuso, sulle note di “Mareridt”, per poi snodarsi attraverso una decina di episodi principalmente estratti dall’ultima fatica. L’interpretazione della frontgirl non è incerta o poco disinvolta come inizialmente preventivato: senza dubbio non siamo davanti ad una performance sconvolgente per intensità e magnetismo, ma va dato atto alla Bruun, spesso piantata davanti all’asta del microfono con atteggiamento solenne, di fare il suo senza strafare, badando al sodo e cercando di interagire con il pubblico quel tanto che basta per evitare di risultare esageratamente fredda e distaccata. L’amica Chelsea Wolfe è oggettivamente su un altro pianeta per il momento – anche perchè la band che accompagna Myrkur sul palco tende a stare sin troppo defilata e nel complesso non appare molto più esperta della sua leader – tuttavia si percepisce un certo impegno dietro questa prova live. A conti fatti, con pezzi come “Onde Børn” ed “Elleskudt” Myrkur riesce a schivare le critiche e a scaldare il cuore più del previsto… anche se forse non tutti oggi saranno pronti ad ammetterlo!

Setlist:

Mareridt
The Serpent
Hævnen
Ulvinde
Onde børn
Jeg er guden, i er tjenerne
Måneblôt
Elleskudt
Skøgen skulle dø
Skaði

DRAGGED INTO SUNLIGHT

I Dragged Into Sunlight hanno trascorso buona parte dell’anno in giro per l’Europa come principale support band dei Mayhem. Quello del Damnation è uno dei loro ultimi concerti per il 2017 e basta pochissimo per comprendere quanto il gruppo sia maturato come live band a seguito dei suddetti continui impegni sul palco. Una volta i britannici si facevano ricordare soprattutto per il loro modo di esibirsi, con le spalle al pubblico, e per il corollario di candele e caproni con cui microfoni e amplificatori venivano adornati; oggi tutto ciò è ancora parte integrante dello show del misterioso gruppo, ma finalmente emerge anche una cura per i suoni e per l’esecuzione degna di una grande band. C’è poco di lasciato al caso nel concerto odierno dei Dragged Into Sunlight: ad eccezione del bassista – che curiosamente è l’unico a girarsi ogni tanto per urlare in un microfono – i Nostri non si concedono alla platea, tuttavia ciò non risulta più un modo per distogliere l’attenzione da un’esecuzione un po’ approssimativa; i suoni sono chiari, i riff di chitarra fuoriescono solidi e potenti e anche le urla di T sembrano possedere più incisività e definizione. Spesso accusati di essere un filo pretenziosi (almeno da queste parti, dove hanno mosso i primi passi) i black-death metaller inglesi rispondono dunque con uno spettacolo assai concreto, mettendo in mostra quella solidità che un tempo si riscontrava davvero soltanto nelle loro prove in studio. Tra le altre cose, ci accorgiamo che sono già trascorsi cinque anni dalla pubblicazione di “WidowMaker”: che il 2018 sia l’anno della definitiva affermazione con un nuovo album?

Setlist:

To Hieron
Omniscienza
Absolver
Buried With Leeches
Volcanic Birth
Lashed to the Grinder and Stoned to Death

NAILS

Dopo avere improvvisamente annullato tutte le date fissate appena dopo la pubblicazione di “You Will Never Be One of Us”, i Nails sembrano finalmente riusciti a riprendere in mano le redini della loro carriera, tornando ad essere una band in piena attività. Come sempre il gruppo statunitense evita di imbarcarsi in tour molto lunghi e infatti questa calata europea consta soltanto di una manciata di concerti in alcuni paesi del nord. Per fortuna il Damnation festival è riuscito ad assicurarsi una delle suddette date e l’hype attorno all’esibizione del quartetto non a caso è enorme. In passato i Nails si sono resi protagonisti di esibizioni altalenanti, ma questa sera, sul Terrorizer Stage, i ragazzi appaiono in buona forma e vengono supportati sin da subito da una resa sonora abbastanza chiara. Alla seconda chitarra troviamo nientemeno che Leon del Muerte (Impaled, Phobia, Exhumed, Intronaut), una spalla di grande esperienza che aiuta Todd Jones a gestire con più tranquillità il suo doppio ruolo di cantante/chitarrista. In effetti il leader della formazione questa sera appare più sereno e affabile che mai: scherza e ringrazia il pubblico, presenta i brani e si dimostra nel complesso assai meno schivo e burbero del solito. Forse il Nostro ha un po’ sofferto il carico di aspettative e l’inaspettata popolarità piovutegli addosso fra l’uscita di “Abandon All Life” e quella dell’ultimo album, cosa che ha appunto portato il gruppo sull’orlo dello scioglimento, ma oggi la situazione appare più sotto controllo. I Nails fanno ciò che gli riesce meglio e vanno giù duri, martellando il pubblico con una lunga serie di brani estratti equamente dai tre dischi rilasciati sinora. Il frenetico mix di hardcore e death-grind della band miete continuamente vittime nel pit, innescando il pogo più feroce della giornata e innumerevoli stage dive. Si respira un po’ soltanto nel finale, visto che il quartetto decide di chiudere con il midtempo di “Unsilent Death”, ma chiaramente si tratta di una calma relativa: non volano calci, ma l’headbanging è incessante. Insomma, la missione può dirsi compiuta per i Nails.

PARADISE LOST

Agli idoli di casa Paradise Lost viene riservato uno slot in prima serata per dare modo a Nick Holmes di rifiatare in vista dell’atteso show dei Bloodbath, che questa sera chiuderà il festival. Greg Mackintosh è al secondo concerto della giornata, ma il suo ruolo qui è un po’ meno centrale rispetto ai Vallenfyre e la sua prova non risente affatto dell’inconsueto doppio turno. In generale, si può dire che la band appaia ben rodata dopo le numerose settimane trascorse in tour negli ultimi tempi. L’attacco è affidato alla nuova “From The Gallows”, uno degli episodi più diretti di “Medusa”: il suono è corposo e, anche se Holmes si lamenta di alcuni problemi con il microfono, il pezzo denota subito un bel tiro, soprattutto in quell’iniziale cavalcata vicina allo stile di “Gothic”. Da qui in poi il gruppo decide di andare sul sicuro: se all’inizio del tour di “Medusa” la scaletta presentava qualche brano di nicchia (“Remembrance”, “Shadowkings”), lo spettacolo odierno verte su un più scontato “best of” con singoli più o meno recenti alternati a grandi classici come “Enchantment” e “As I Die”. Questa sera i Paradise Lost non hanno modo di esibirsi con tutta la loro produzione e il tempo riservato loro non è quello di un tipico concerto da headliner, ma da queste parti il loro status di leggende di casa non verrà mai messo in discussione: la platea segue infatti la performance con fare partecipe e adorante e l’ora a disposizione del quintetto vola via in un attimo, finendo per sottolineare nuovamente il buono stato di salute della formazione e la grande intesa raggiunta con Waltteri Väyrynen, sicuramente il batterista più dotato della storia dei Paradise Lost.

Setlist:

From the Gallows
The Enemy
Enchantment
An Eternity of Lies
Faith Divides Us – Death Unites Us
Blood and Chaos
As I Die
Embers Fire
No Hope in Sight
The Longest Winter
Say Just Words

DYING FETUS

E’ una carneficina prevedibile, ma squisitamente coinvolgente, quella marchiata Dying Fetus. I death metaller statunitensi non hanno forse più molto da dire in studio, ma dal vivo John Gallagher e compagni sono da sempre una garanzia di efficacia e divertimento. La sala del Terrorizer stage è stra-colma di gente per questa calata nello Yorkshire dei ragazzi di Baltimore, in Europa per promuovere il nuovo album “Wrong One to Fuck With”. Il sottoscritto non è più di tanto interessato ad ascoltare le tracce estratte da quest’ultima opera, ma viene presto abbondantemente accontentato da un buon numero di brani datati; le hit che da sempre costituiscono la spina dorsale della scaletta del gruppo, quelle intrise di riff orecchiabili e cadenze hardcore puntualmente irresistibili, ci sono tutte – “Grotesque Impalement”, “Your Treachery Will Die With You”, “Praise The Lord”, “Kill Your Mother, Rape Your Dog” – e l’esibizione prende quasi subito una piega esaltante, anche grazie ad una risposta del pubblico calda e partecipe. Ammiriamo tanto l’esecuzione impeccabile dei tre musicisti, tanto la bolgia all’interno del pit; band e fan si nutrono delle rispettive energie e ne viene fuori l’ennesimo gran bel concerto della storia dei Dying Fetus e di questo festival. A ben vedere sapevamo che sarebbe stato difficile rimanere delusi.

SODOM

Torniamo nella sala principale per goderci un po’ di Sodom. I veterani teutonici sono di casa in Italia e in tutta l’Europa centrale, ma nel Regno Unito le loro apparizioni sono sempre state scarse, indi per cui è facile comprendere l’entusiasmo che oggi si respira fra la folla assiepata davanti allo Jägermeister Stage. Il gruppo è qui per promuovere l’ultimo “Decision Day”, uscito ormai più di un anno fa, e l’attacco è prevedibilmente affidato a “In Retribution”, bella opener dell’ultima fatica. Siamo ormai abituati a vedere i Sodom dal vivo e l’affiatamento raggiunto dal leader Tom Angelripper con i fidi Bernemann e Makka non ci stupisce affatto; l’esecuzione è precisa e concreta e la presenza scenica sobria ma disinvolta. Piuttosto continua a lasciare un po’ a desiderare la scaletta, che ormai da tanti anni consta della solita manciata di vecchi classici alla quale vengono aggiunti regolarmente un paio di pezzi dal nuovo album. I Sodom possono vantare una discografia sterminata e, fra veri e propri capolavori e qualche capitolo più di nicchia ma pur sempre di qualità, vi sarebbero i margini per allestire una setlist meno prevedibile; invece il trio continua a puntare sulla classica doppietta “Sodomy and Lust”/”Outbreak of Evil”, sull’immancabile “Agent Orange” e su poco altro. Persino una cover (“Surfin’ Bird”) ha la precedenza su episodi provenienti da album come “Persecution Mania”, “Tapping The Vein” o “Code Red” che probabilmente sorprenderebbero e renderebbero felice qualche cultore e fan sfegatato. In ogni caso, non si può certo dire che il concerto dei tedeschi sia poco riuscito: selezione del repertorio a parte, Angelripper e soci si divertono e fanno divertire, tenendo, come loro sanno fare, alta la bandiera del thrash, un genere che in verità al Damnation sin qui non era mai stato particolarmente considerato.

Setlist:

In Retribution
In War and Pieces
Sodomy and Lust
Outbreak of Evil
Surfin’ Bird
The Saw is the Law
Napalm in the Morning
Agent Orange
Stigmatized
Caligula
Rolling Thunder
Ausgebombt

BLOODBATH

E’ passato ormai diverso tempo da quando i Bloodbath hanno accolto Nick Holmes come frontman e questa cosiddetta super band oggi può vantare un affiatamento invidiabile. Di certo i numerosi show tenuti dalla pubblicazione di “Grand Morbid Funeral” hanno fatto bene a questa combriccola di veterani: diventando una live band a tutti gli effetti, i cinque hanno rapidamente cementato la loro intesa e, Holmes, in particolare, ha avuto modo di riprendere piena confidenza con le growling vocals, mettendo a tacere gli scettici che lo consideravano ormai incapace di capitanare un gruppo death metal. Lo si è visto con le recenti prove dei Paradise Lost, sia in studio che dal vivo, ma fa piacere riceverne ulteriore conferma anche sotto il nome Bloodbath: il cantante britannico ora è a proprio agio con ogni registro vocale ed è sempre più calato nella parte di “sacerdote posseduto” che gli amici svedesi gli hanno cucito addosso. Il chitarrista Sodomizer questa sera non è della partita e al suo posto troviamo Tomas Åkvik, già chitarrista di Lik, The Resistance e Katatonia (live). Il Nostro arriva on stage esattamente come il ragazzo che sta sostituendo è solito presentarsi, ovvero a petto nudo e ricoperto di sangue, quindi l’immagine complessiva della band non ne risente affatto; come non ne risentono l’esecuzione e l’impatto del repertorio, il quale fuoriesce dagli amplificatori con la proverbiale barbarità. Nick Holmes non sembra affatto stanco per il doppio turno di quest’oggi e non manca di snocciolare qualche piccola del suo british humor a corredo di una prestazione solida e incisiva, sorretta da una sezione ritmica e da due chitarre che non sbagliano quasi nulla. Al di là dell’aspetto truce, i Bloodbath danno proprio l’idea di divertirsi sul palco e questa armonia finisce presto per ispirare e ben disporre la grande platea che gli sta davanti. Notevole il crowdsurfing e il pogo sui tanti classici che la band propone nel corso dell’ora a disposizione; l’ondata di corpi si arresta giusto nel solito momento dei finti saluti, prima che il quintetto torni sul palco per suonare “Eaten”. Il pezzo più celebre dei Bloodbath scatena il consueto putiferio e il gruppo si congeda da indubbio vincitore dello Jägermeister Stage. Vista la concorrenza di oggi, un risultato non da poco.

Setlist:

Let the Stillborn Come to Me
Mental Abortion
So You Die
Breeding Death
Anne
Ways to the Grave
Cancer of the Soul
Weak Aside
Church of Vastitas
Soul Evisceration
Like Fire
Outnumbering the Day
Mock the Cross
Eaten

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