Introduzione a cura di Simone Vavalà
Report a cura di Lorenzo Ottolenghi, Luca Pessina e Simone Vavalà
Assodato per l’ennesima volta lo svolgimento all’interno dell’Università di Leeds, il Damnation Festival festeggia quest’anno i quindici anni di attività con uno dei suoi bill più eterogenei. Come sempre, tanto spazio all’estremo, con nomi di peso come Mayhem, Gaahl’s Wyrd o gli astri (più che) nascenti Mgla, ma non mancano nomi afferenti allo sludge, allo stoner, alla synthwave – ormai un apparente passo obbligato per i festival metal – oltre allo slot finale del palco principale dedicato agli Opeth; una scelta che sicuramente si nota, nel cartellone di un festival da sempre tutt’altro che “morbido”. L’organizzazione è come sempre impeccabile: i quattro palchi e le zone di ristoro, compreso il supermercato dell’università, tenuto aperto per l’occasione, sopperiscono bene alla presenza di 3000 persone, ossia l’ennesimo sold-out segnato dall’organizzazione. Uniche note negative, ma risolte tutto sommato senza danni, i problemi registrati all’impianto del palco principale, in particolare durante l’esibizione di Primordial e Mayhem, con questi ultimi costretti a interrompere lo show per un paio di minuti e a ricominciare l’ultimo brano. E, ancora, quello che pare sia stato un disguido tra security e promoter che ha fatto restare fuori dall’area concerti alcuni spettatori usciti nel primo pomeriggio, prontamente avvisati dall’organizzazione del pieno diritto di rientrare tramite le pagine social, con tanto di scuse (evitiamo confronti impietosi con recenti esperienze in Italia). La pioggia che scroscia in un paio di occasioni nel corso della giornata rischia di far godere poco dell’accogliente giardino esterno accessibile dall’area concerti, anche se ci vuole più che un semplice acquazzone per fermare i metallari d’Albione, oltre che il clima pienamente autunnale e uggioso ha forse dato il tocco perfetto a questa giornata di suoni plumbei e maligni.
Il nostro Damnation Festival 2019 si apre con i THE INFERNAL SEA, black metaller della moderna frangia ‘incappucciata’ del genere. I britannici, alcuni di loro travestiti da veri e propri monatti, hanno pubblicato il loro ultimo album (“The Great Mortality”) ormai quattro anni fa, tuttavia restano una presenza costante nei cartelloni degli eventi extreme metal locali. Del resto, la band fa la sua figura sia dal punto di vista scenico che da quello musicale, occupando il piccolo Cult Never Dies stage con ulteriori figuranti mascherati e proponendo con grande foga il proprio black metal. La matrice è quella svedese di un paio di decenni fa, ma si sentono anche accenni black-thrash a rimpolpare i passaggi più groovy. Un incipit niente male, che viene tra l’altro seguito da una folla ben più nutrita del previsto (LP). Ci spostiamo quindi in tutta fretta nella sala che ospita il Tone MGMT Stage, dove i CARNATION hanno appena dato fuoco alle polveri con il loro old school death metal. Abbiamo gradito il debut album della formazione belga, vicino per suoni alla classica formula Dismember, ma più groovy e dinamico nell’impostazione ritmica; quest’oggi restiamo altresì colpiti dalla verve del quintetto, il quale, reduce ormai da vari tour europei e persino da delle date in Asia, si dimostra davvero a suo agio sul palco, confermando quanto un’intensa attività live sia essenziale per migliorare l’affiatamento di un gruppo. I Carnation forse non hanno ancora delle vere e proprie hit nel repertorio, ma l’energia con cui interpretano la loro musica e la presenza scenica del robusto frontman Simon Duson, coperto di sangue e catene come nella migliore tradizione del genere, li rendono una delle prime sorprese di questo Damnation (LP).
Sul palco Cult Never Dies è già l’ora dei DAWN RAY’D. Il trio di Liverpool, fresco del secondo disco, si presenta nella classica formazione batteria, chitarra e violino con Simon Barr che ha anche l’onere della voce. I tre raccolgono materiale da entrambi i full-length, chiudendo con “Like Smoke Into Fog”, brano estratto da “Behold Sedition Plainsong”, in commercio da meno di una settimana dalla data del festival. L’atmosfera raccolta è perfetta per la band che rilascia sul pubblico una furia primeva che non manca di richiamare temi attuali, così come nell’unico discorso del cantante dal forte impatto politico. In complesso un concerto riuscitissimo che ci conferma come questo terzetto abbia, anche dal vivo, tutte le carte in regola per far parlare di sé a lungo (LO). Sul Tone MGMT Stage è invece l’ora dei BLOOD RED THRONE: i deathster norvegesi non hanno certo bisogno di premesse; con una carriera ventennale alle spalle sanno scatenare un’ondata di violenza e malignità sul pubblico di Leeds. Le luci, quasi sempre rosse, aiutano a creare un’atmosfera ancora più malsana che sottolinea una prova impeccabile di Død e soci. I cinque propongono materiale da quasi tutta la loro discografia, dando maggior spazio a “Altered Genesis”, probabilmente il disco migliore prodotto dagli scandinavi, e chiudendo con le granitiche “Arterial Lust” e “Mephitication” (LO).
Sembra difficile trovare alcuna critica da muovere ai MGLA. Universalmente e giustamente identificati come la più importante band black metal emersa nell’ultimo lustro, hanno conquistato tale posizione con dedizione, album stupefacenti e una crescente attività live impeccabile, impreziosita dall’aura di mistero e misantropia espressa dal loro look total black e statico. La presenza in posizioni sempre più alte in cartellone, oltre che ormai necessaria per l’hype sviluppato dalla band polacca, è quindi sicuramente meritata anche da quanto sanno offrire; eppure, dopo queste premesse, dobbiamo ammettere che all’ennesima loro esibizione a cui assistiamo, qualche perplessità inizia a far capolino. Non certo in termini di capacità o resa, quanto nella misura in cui ci pare che ci sia poca capacità di reinventarsi; come detto in fase di recensione dell’ultimo “Age Of Excuse”, ci troviamo sempre di fronte a una band eccellente, ma la formula risulta un po’ cristallizzata, ancor più dal vivo, e le emozioni provate al loro cospetto quattro/cinque anni fa iniziano a perdersi dietro l’ottimo involucro (SV).
Gli INTER ARMA sono certamente fra le realtà più particolari della moderna scena metal. Si presentano come una band classic rock, tuttavia il loro sound è un ibrido sludge/doom/post/death metal in continua evoluzione, tanto che gli statunitensi in un momento possono ricordare i Neurosis, in un altro i Paradise Lost e poco dopo i Mastodon o gli Ahab. Li abbiamo visti live già alcune volte e possiamo dire di trovarci al cospetto di una formazione ormai navigata, sempre più disinvolta nel gestire le varie sfaccettature della sua musica. Al di là dello sguardo spiritato del cantante Mike Paparo, non vi è molto da segnalare a livello di presenza scenica, ma il gruppo, oggi impegnato sul Tone MGMT Stage, non impiega molto a calamitare l’attenzione di un vasto pubblico con la sua proposta massiccia e struggente. Il quintetto ha infatti il pregio di trasmettere una passionalità e un calore prettamente southern senza mai scadere nei cliché di tale filone, riuscendo a trovare un compromesso ideale fra ricerca, sperimentazione ed emotività. Guardiamo questi musicisti esibirsi e il pensiero di rado va alle complessità delle strutture: ciò che più salta all’orecchio è il trasporto con cui i ragazzi suonano e il sentimento dietro le melodie disegnate dalle chitarre. Davvero una bella prova, la loro (LP).
Tre frontman sono tra il meglio che la scena black metal abbia da offrire e sono tutti e tre presenti al Damnation Festival. Il primo che incontriamo, in ordine cronologico, è A.A. Nemtheanga (Alan Averill) coi suoi PRIMORDIAL. Il gruppo irlandese ci regala, come sempre, un concerto intenso e ricco di pathos, concentrato (come spesso accade per la celtic/black metal band nei set più brevi) sul periodo da “The Gathering Wilderness” in poi. Nella band di Dublino non manca mai l’alternanza tra parti tiratissime e momenti più intimi, in cui Nemtheanga declama, più che cantare, rabbia e sofferenza (“Where Greater Men Have Fallen” e “Empire Falls”). Neanche un momentaneo problema all’impianto dello Jagermeister Stage può fermare l’ira dei Primordial, riassunta benissimo da una frase: “Is this the UK? Is this Europe? You don’t know. This is just anarchy” (LO).
È con molta curiosità che ci portiamo al cospetto degli A PALE HORSE NAMED DEATH, band che in Europa ha suonato veramente poco nella sua ormai decennale carriera. Anche se le sonorità si sono ammorbidite negli anni, la speranza di rivivere un po’ le sensazioni che sapevano trasmettere i Type O Negative è innegabile, con John Kelly e Sal Abruscato in formazione; purtroppo quest’ultimo si dimostra un frontman poco ispirato, sia come espressività vocale che come presenza, sospeso com’è tra ieraticità dark e uno humour nero non troppo apprezzabile. Allo stesso modo, i brani non decollano mai né nella direzione dei ritornelli catchy tipici di tanto gothic rock a cui la band si rifà, né esplodono appieno nei momenti più ruvidi e pesanti, lasciando una sensazione di incompiutezza complessiva (SV). Solidi ed efficaci, i MORK si confermano invece una delle band di maggior pregio del sottobosco black metal norvegese. Le ottime impressioni suscitate dal loro ultimo, eccellente full-length trovano piena forma nell’esibizione del Damnation, che ha i suoi punti di forza nel carismatico Thomas Eriksen, unico titolare effettivo della band e cantante dall’ipnotica presenza scenica, e nel gran lavoro del talentuoso prezzemolino Asgeir Mickelson dietro le pelli. La piccola sala del Cult Never Dies Stage è meritevolmente piena, e il soffocante sound della band trova perfetta espressione in una sorta di sabba zanzaroso e maestoso (SV).
Gli ALCEST sono ormai una realtà amatissima in tutto il mondo e, non a caso, il pubblico presente davanti al palco principale all’inizio della loro esibizione è quello delle cosiddette grandi occasioni. Con un’ora a loro disposizione, i transalpini fanno del loro meglio per presentare una scaletta equilibrata, con un paio di brani dal nuovissimo “Spiritual Instinct” e alcuni classici shoegaze/post black metal da “Les Voyages de l’Âme” e da “Écailles de lune”. La line-up da concerto del gruppo è la stessa ormai da parecchi anni, quindi non ci stupiamo dell’affiatamento di Neige e compagni. Il frontman con il passare del tempo è evidentemente riuscito a fare i conti con la propria timidezza e oggi, pur evitando atteggiamenti sopra le righe, appare a proprio agio sia nel tenere un palco tanto grande, sia nel dialogare con gli astanti. Anche in sede live, il materiale del nuovo album si discosta dalle vecchie canzoni per la sua impronta più massiccia, esprimendo un groove tutto sommato inedito per la formazione. Di conseguenza, per la prima volta si vede un po’ di movimento tra la folla ad un concerto degli Alcest, anche se poi l’ovazione maggiore arriva come prevedibile per un episodio arioso ed euforico come “Autre Temps”, vero sunto di ciò per cui il gruppo francese è diventato famoso negli anni (LP).
Il secondo frontman di grande impatto di cui sopra é Gaahl, che si presenta coi suoi GAAHL’S WYRD. Continuazione o ‘espansione’ dei Trelldom, più che dei defunti God Seed (di cui ritroviamo qua quasi tutta la formazione, oltre che la riproposizione di alcuni brani), e autori di un debut che ha stupito molti per l’altissima qualità, i cinque (dal vivo sono accompagnati da una seconda chitarra) ci regalano uno show di altissima caratura. Mentre i musicisti si scatenano sul palco, Gaahl è, come sua abitudine, lento nei movimenti, quasi immobile. Con uno sguardo ipnotico e un’imponenza fisica non indifferenti, il cantante di Sunnfjord è una presenza magnetica che cattura il pubblico. In più ci mostra un registro vocale di tutto rispetto, con passaggi dal suo celebre scream (anche quando ripropone “Exit – Through Carved Stones” dei Gorgoroth) ad un cantato pulito a tratti profondo e a tratti acuto e tagliente. Concerto mozzafiato che dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, dell’immenso talento di Kristian Eivind Espedal (LO).
A chiudere la triarchia delle voci carismatiche del black metal ci pensa Attila coi suoi MAYHEM. Spogliati dalle cappe indossate nel precedente tour – che però reindosseranno nella seconda parte del concerto, una sorta di best of live – i cinque norvegesi partono proponendo brani del nuovo “Daemon”, confermando l’ottimo tiro e la cattiveria espressi dal loro ritorno discografico. Il concerto viene purtroppo funestato per molti minuti da problemi tecnici, al punto che dopo essere scomparse voce e batteria l’audio salta del tutto durante la riproposizione di “Malum”; per fortuna i Mayhem non cedono all’insofferenza e ripartono alla grande. Nella parte antologica dello show da segnalare la riproposizione quasi per intero di “Deathcrush”: circa venti minuti di veri brividi e storia del black metal, accolti estaticamente dal pubblico (SV).
Di gran lunga il nome più popolare in cartellone, gli OPETH chiudono il programma sul palco principale con una performance che abbraccia tutte le varie sfaccettature della loro proposta. Il nuovo “In Cauda Venenum” è ormai l’ennesimo lavoro degli svedesi incentrato su un prog rock settantiano e i Nostri avrebbero ormai materiale a sufficienza per tenere un concerto esclusivamente su tali registri, tuttavia, almeno per il momento, la band si guarda bene dall’alienare una grossa fetta del proprio pubblico. La formazione trova quindi un compromesso fra episodi recenti e hit recuperate dalla discografia centrale: “The Leper Affinity” arriva quasi subito e nel mezzo e nel finale spuntano anche “Reverie/Harlequin Forest”, “The Lotus Eater” e “Deliverance”, composizioni ben interpretate da un elegantissimo Mikael Åkerfeldt che, all’occorrenza, sa ancora recitare la parte del musicista death metal con discrete intensità e credibilità. Il resto della line-up, del resto, è pur sempre composto da ‘metallari’ di vecchia data, su tutti il batterista Martin Axenrot, quindi non stupisce che la resa di tali pezzi sia vigorosa come all’epoca della pubblicazione dei rispettivi lavori. Ovviamente, quando il quintetto si butta sul materiale recente, la tensione e l’entusiasmo calano un po’, se non altro perché vengono meno i contrasti e gli elementi davvero personali del tipico Opeth sound, in favore di un omaggio ai Seventies a tratti persino scolastico; ciononostante, nel loro spaziare fra vecchio e nuovo corso, gli svedesi riescono certamente a imbastire un concerto dinamico e ben interpretato, confermandosi una band altamente professionale e ormai del tutto a proprio agio nel ruolo di headliner (LP).
Torniamo al palco Cult Never Dies per lo show dei blackster americani IMPERIAL TRIUMPHANT. Dopo “Abyssal Gods” e “Vile Luxury” le aspettative sono altissime e la proposta musicale dei newyorchesi intrigante. La presenza scenica è innegabile, ma – da subito – ci accorgiamo che allo show manca mordente. Il gruppo risulta tutt’altro che impeccabile sul palco e le parti ‘orchestrate’ risultano vagamente posticce. Potrebbe essere stato solo un problema trascurato durante il soundcheck, ma, con un’esperienza decennale, certi inconvenienti bisognerebbe saperli evitare o, quantomeno, correggere durante l’esibizione. Così il concerto è risultato piuttosto deludente (LO).
Il compito di chiudere le danze, letteralmente, tocca a GOST, ormai uno degli alfieri indiscussi della scena synthwave tanto cara ai metallari. La differenza rispetto ad alcuni suoi ‘colleghi’ come Perturbator o Carpenter Brut è evidente fin dalla presenza sul palco: in perenne controluce, James Lollar si occupa delle parti vocali e di parte dei campionamenti con una piccola postazione di synth e effetti, lasciando molto lavoro al basso midi del suo misterioso e ormai consolidato partner in crime, nascosto dietro una maschera da Fantasma dell’Opera. C’è sicuramente molto da raffinare, sia nell’amalgama del suono, sia soprattutto nelle linee vocali: Gost è spesso stonato, specie nelle parti pulite, e la foga con cui si muove ossessivamente sul palco risulta un po’ troppo schizoide. Al tempo stesso va detto che il connubio tra le parti black metal e quelle più vicine al pop elettronico funziona persino meglio che su disco, e nonostante l’orario che ci ha trovati ormai esausti la performance è stata decisamente accattivante e promettente per il futuro (SV).