01/11/2024 - DAMNATION FESTIVAL 2024 @ BEC Arena - Manchester

Pubblicato il 10/11/2024 da

Report di Luca Pessina
Foto a cura di Em Coulter Photography (Sito | Instagram | Facebook)

Anche nel 2024, il Damnation Festival conferma il proprio status di appuntamento di rilievo per gli appassionati di musica estrema, che anche quest’anno si sono riuniti, come una comunità appassionata, nella BEC Arena di Manchester per un fine settimana all’insegna di varie sfaccettature dei versanti più oscuri e moderni del nostro panorama.
Nonostante la crisi economica e l’aumento del costo della vita che sta impattando la Gran Bretagna, il Damnation insomma resiste, attirando un pubblico numeroso e consolidando il proprio ruolo come festival indoor di riferimento in Europa per il nostro genere. Anche se non è stato registrato il tutto esaurito, il numero di partecipanti è rimasto solido, segnale che la manifestazione gode ancora di un forte supporto da parte dei fan, nonostante le difficoltà finanziarie del periodo e l’offerta di altri eventi e tour nel Regno Unito.

In questa edizione, uno degli elementi distintivi è stata un’iniziativa che ha riguardato la serata di venerdì, la cosiddetta A Night Of Salvation, durante la quale l’organizzazione ha compiuto una mossa piuttosto interessante: per aumentare l’affluenza e incentivare la presenza di un pubblico numeroso anche nel giorno di apertura, è stato concesso a tutti i possessori di biglietto un ingresso gratuito aggiuntivo, così da poter invitare un amico.
Questo gesto, oltre a sottolineare l’attenzione verso il pubblico, ha ovviamente mirato anche a incrementare il consumo di cibo e bevande all’interno dei bar della BEC Arena, garantendo al festival un introito aggiuntivo e migliorando l’esperienza degli spettatori, che hanno potuto vivere un’atmosfera ancora più partecipativa e condivisa.

Dal punto di vista dei servizi, il festival ha compiuto alcuni progressi rispetto agli anni precedenti, sebbene permangano margini di miglioramento. Sul fronte dell’offerta culinaria, la manifestazione ha ampliato il numero e la varietà di stand gastronomici, un’area che in passato aveva ricevuto critiche per le lunghe attese e per la qualità limitata delle opzioni disponibili.
Quest’anno l’esperienza culinaria si è fatta più interessante, con diverse alternative di street food che hanno permesso al pubblico di gustare piatti più variegati e accattivanti, un aspetto che è stato molto apprezzato dagli avventori.
Tuttavia, nonostante i miglioramenti, durante le ore di maggiore afflusso le file si sono comunque allungate, suggerendo che vi sia ancora spazio per ulteriori ampliamenti e una gestione più efficiente della ristorazione.

Anche sul fronte dei posti a sedere sono stati compiuti alcuni progressi: sono state infatti ampliate le aree di relax per consentire ai partecipanti di riposarsi tra uno show e l’altro. Tuttavia, come per il cibo, la richiesta supera ancora l’offerta, specialmente nelle ore serali, quando la folla raggiunge il picco di presenze e trovare un posto per sedersi e rilassarsi diventa una sfida.
Nel complesso, il Damnation 2024 può comunque essere considerato un altro successo, capace di consolidare il proprio seguito e di mantenere il proprio spazio in un calendario sempre più affollato di eventi e festival.
Con il ventesimo anniversario che si avvicina, c’è molta attesa per le celebrazioni del 2025, un traguardo importante che il Damnation promette di festeggiare con una line-up e un’organizzazione ancora più ambiziose. Nonostante le sfide, il festival riesce a preservare il proprio fascino, offrendo al pubblico britannico (e non) un’esperienza unica, capace di resistere al tempo e alle difficoltà economiche.

VENERDÌ 1 NOVEMBRE

Per noi, la serata viene aperta dai FEN e dal loro caratteristico black metal atmosferico, il quale riesce a catturare il pubblico con l’introspezione e la malinconia che lo contraddistinguono.
La performance del trio inglese è parzialmente compromessa da alcuni problemi tecnici che influiscono negativamente sulla resa sonora, con chitarre talvolta ovattate e una percezione poco definita della sezione ritmica. Nonostante le difficoltà, i tre provano comunque a mettere in campo tutta la loro intensità emotiva, con brani come “Winter II (Penance)” che trasportano la platea in un paesaggio sonoro avvolgente.
Si percepisce come sempre una sincera dedizione da parte dei ragazzi, i quali finiscono per offrire una performance sentita e carica di pathos, capace di bilanciare l’atmosfera meditativa del loro repertorio con esplosioni di energia ben calibrate.
Dopo i toni riflessivi dei Fen, i DISCHARGE portano una scossa di pura energia hardcore punk. Sebbene il palco principale della BEC Arena dia a modo a tutti di godere del loro suono potente (con volumi inizialmente davvero altissimi), a ben vedere questa cornice ampia non rappresenta il contesto ideale per la musica dei britannici, più adatta a luoghi raccolti e senza barriere, dove si possa percepire appieno la rabbia e l’urgenza della band.
Nonostante il palco ampio e un pubblico meno compatto, i padri del d-beat mettono in scena una performance intensa, con brani come “Protest and Survive” e “The Possibility of Life’s Destruction” che risuonano immediatamente come veri e propri inni. La band fa il suo, regalando momenti di ribellione pura e genuina, capaci di coinvolgere anche i meno inclini all’hardcore e alle sue derive più marce, pur senza la vicinanza che in un contesto più intimo avrebbe reso il tutto ancora più travolgente.

Dal canto loro, i MORNE, sul secondo palco, introducono nuovamente un’atmosfera intensa e cupa, imprimendo una svolta doom alla serata con un’esibizione interamente dedicata al loro ultimo album, “Engraved With Pain”. L’esecuzione dell’intero disco offre al pubblico un’immersione profonda nel sound soffocante e introspettivo della band, visto che le quattro tracce dell’opera sono caratterizzate da una costruzione sonora densa e stratificata, concepita per essere una lunga esperienza sonora piuttosto che una semplice raccolta di canzoni.
Il sound della formazione statunitense, anche grazie a un mixaggio più curato rispetto a quello dei Fen, ha modo di esprimere la sua essenza in pieno, con riff pesanti e profondi che risuonano come lenti colpi d’ariete.
Reduce da alcune settimane di tour in Europa, il quartetto risulta affiatato e riesce a mantenere costante l’attenzione del pubblico grazie alla sua abilità nel bilanciare momenti di tensione con esplosioni emotive, creando una dinamica in cui ogni brano pare confluire nel successivo in un crescendo continuo.

Le aspettative attorno ai MIZMOR invece non sono inizialmente altissime, esclusivamente perché il progetto americano non è noto per essere una live band, almeno da queste parti. Tuttavia, il loro set si rivela presto uno dei momenti più emotivamente intensi della serata.
Con il suo blackened doom metal spirituale e introspettivo, il leader A.L.N. riesce a creare un’atmosfera quasi religiosa, portando sul palco un’esibizione in cui la disperazione black metal e la riflessione dell’anima doom si fondono in un’esperienza catartica, che smuove i presenti soprattutto nei passaggi più cadenzati.
Brani come “Desert of Absurdity” catturano visibilmente la platea, tanto che si può parlare di una vera e propria connessione tra gruppo e fan, con in più tanti ascoltatori occasionali che arrivano ad avvicinarsi sempre di più al palco, incuriositi dalla notevole resa della band, che questa sera arriva a toccare corde emotive davvero profonde.

Con i CULT OF FIRE, la serata raggiunge invece il suo picco di esoterismo e misticismo. La band ceca, che negli ultimi anni ha aumentato significativamente il budget dedicato alle scenografie, offre come ormai di consueto un grande spettacolo visivo oltre che musicale, con un setup scenografico molto più sfarzoso rispetto agli inizi.
I due chitarristi, ora collocati su speciali pedane a forma di cobra, aggiungono un tocco teatrale e grottesco che rende l’esibizione unica in questa edizione del Damnation Festival.
Il set include brani molto ariosi come “Kali Ma”, eseguiti con grande trasporto in un’atmosfera carica di simbolismo e ritualità. L’aspetto visivo accentua ovviamente il carattere ipnotico e ritualistico della musica dei cechi, creando un contesto immersivo che porta le prime file in una dimensione quasi trascendente, in cui un black metal estremamente melodico si mescola alle influenze orientali con notevole efficacia.

A chiudere la serata ci pensano quindi i DECAPITATED, bravi nel mettere in scena una performance a suo modo memorabile, arricchita da elementi inattesi e da una setlist che celebra in grande stile una delle tappe più importanti della loro discografia.
La band è infatti stata invitata per eseguire integralmente “The Negation”, album fondamentale nel loro percorso artistico, capace di rappresentare al meglio l’attitudine tecnica e oscura della loro prima parte di carriera. Per chi scrive, questa prima mezz’ora è senza dubbio la parte più coinvolgente dell’intero set: l’esecuzione di brani come “The Fury” e “Lying and Weak” riporta alla luce tutto il potenziale distruttivo e la complessità sonora di quel lavoro, che con i suoi riff taglienti e al contempo orecchiabili riesce a strappare tanti sorrisi ai fan della prima ora accorsi alla BEC Arena.
Un momento particolare della serata è poi l’introduzione di Eemeli Bodde, nuovo cantante del gruppo, che fa il suo debutto ufficiale sul palco del Damnation: Bodde si dimostra un frontman energico, con una presenza scenica solida e una voce capace di affrontare senza troppi problemi il repertorio della band, ricordando, a livello di estensione, il povero Covan (passato cantante della formazione polacca, vittima di un incidente stradale durante uno dei tour).

Per i fan di lunga data lo show verrà però indubbiamente ricordato per la fugace comparsa del primo frontman dei Decapitated, Sauron. La sua presenza in un paio di brani suscita un misto di entusiasmo e nostalgia, ma allo stesso tempo evidenzia i segni del tempo: la sua voce, ormai indebolita, e il suo fisico appesantito lasciano percepire che gli anni di inattività hanno inevitabilmente lasciato il segno. Nonostante ciò, la sua comparsa è un omaggio ai primi anni della band in grado di aggiungere un tocco di autenticità al tutto.
Subito dopo l’esecuzione integrale di “The Negation” (con tanto di cover di “Lunatic of God’s Creation” dei Deicide), i Decapitated spostano l’attenzione sul loro repertorio più recente, introducendo brani come “Just a Cigarette” e “Never”. Qui il concerto prende una piega diversa, più orientata a sonorità moderne e groovy, che sebbene trovino una buona risposta da parte del pubblico, non suscitano la stessa emozione per chi scrive.
Nonostante i gusti personali possano far preferire una parte della scaletta rispetto all’altra, l’esibizione, baciata da suoni quasi perfetti, mostra comunque una band consapevole della propria evoluzione, capace di bilanciare passato e presente e di offrire uno show che, nel complesso, lascia il pubblico esausto ma appagato, con la sensazione di aver vissuto un evento carico anche di storia, oltre che di potenza sonora.


SABATO 2 NOVEMBRE

La giornata di sabato al Damnation Festival 2024 porta con sé un crescendo di energia che conferma, anche quest’anno, il festival come uno degli appuntamenti più attesi per gli amanti del metal estremo e del cosiddetto post-metal. Di pari passo, la BEC Arena mette in mostra nuovamente la sua versatilità, offrendo spazi ideali per esibizioni di grande impatto e mettendo in luce la varietà stilistica e la qualità dei gruppi selezionati.
Gli ENFORCED aprono le danze con una performance che letteralmente scatena il pubblico: il loro crossover thrash colpisce fin dai primi secondi, e brani come “War Remains” e “Malignance” danno il via a un moshpit senza sosta.
Con un sound che ricorda band come Slayer, Power Trip e Obituary (nei momenti più groovy), gli Enforced sfoderano un’energia palpabile, portando sul palco un sound ignorante e ben assestato che rende l’atmosfera elettrica. La loro combinazione di aggressività e orecchiabilità, chiaramente ispirata all’operato dei texani Power Trip, appunto, si rivela perfetta per iniziare la giornata con il piede giusto, e la platea davanti al secondo palco risponde con entusiasmo, apprezzando l’attitudine feroce della band.
Gli Enforced si dimostrano anche oggi particolarmente abili a coinvolgere gli spettatori, con il feroce frontman Knox Colby che prende per mano la folla, trasformando l’esibizione in una vera e propria festa thrash.

Gli HIGH PARASITE rappresentano invece un’interessante parentesi nella giornata, portando una ventata di orecchiabilità goth/dark metal in un contesto dominato da sonorità più estreme. Con Aaron Stainthorpe, celebre frontman dei My Dying Bride, a guidare il gruppo, la loro esibizione offre un sound fortemente radicato nella tradizione di band come Paradise Lost, Moonspell e certi Tiamat.
La scelta di proporre brani tratti dal loro recente debutto evidenzia il potenziale di una band che, pur nuova sulla scena, dimostra una padronanza nel creare melodie catchy e accattivanti, capaci di distinguersi tra la violenza dei set precedenti e successivi. La voce profonda e carismatica di Stainthorpe, alla quale spesso si affianca quella del bassista Tombs, riesce a trasmettere una sensazione di inquietudine e romanticismo decadente, facendo presa anche su coloro che magari non sono abituati a sonorità meno aggressive.
La presenza scenica di Stainthorpe aggiunge quindi un ulteriore tocco di teatralità alla performance, la quale viene accolta calorosamente da molti spettatori.
Quando i CELESTE salgono sul palco principale, la BEC Arena viene quindi avvolta in un’atmosfera opprimente e disturbante, che porta la tensione emotiva a un nuovo livello. Già celebri per le loro performance particolarmente ossessive, i francesi danno vita a un concerto accompagnato da proiezioni visive che amplificano di molto il senso di disagio: sullo sfondo, infatti, immagini disturbanti e violente si alternano, mostrando scene che lasciano interdetta parte del pubblico. Questa scelta visiva accentua ulteriormente il carattere denso del loro blackened sludge, trasformando il palco in una sorta di incubo a occhi aperti.
La musica dei Celeste, già intensa e martellante di suo, si fonde così con l’aspetto visivo, creando un’esperienza multisensoriale che colpisce nel profondo soprattutto all’altezza di brani come “Des torrents de coups” e “Il a tant rêvé d’elles”. La combinazione di luci rosse e strobo, insieme alle proiezioni, rende la performance un rituale di distruzione emotiva che per alcuni astanti è effettivamente difficile da digerire, ma che per i fan della band si rivela senza dubbio uno dei momenti più memorabili della giornata.

Con un’attitudine più aperta e ‘proletaria’, i GATECREEPER portano invece sul palco una miscela di death metal che, con l’ultimo album “Dark Superstition”, si è fatta più rockeggiante e accessibile, senza però perdere il mordente e la potenza che da sempre caratterizzano la band. Il set degli americani mette in evidenza questa nuova direzione, in cui le influenze di Paradise Lost e Cemetary, si fondono con la classica impronta death metal di marca Dismember, creando un sound che riesce presto a conquistare la BEC Arena.
Nonostante non tutti gli spettatori sembrino cogliere esplicitamente queste influenze, la risposta del pubblico è sicuramente calorosa, con le prime file che si fanno travolgere dall’energia e dal tiro dei nuovi brani, i quali risuonano con una vena groovy accattivante.
Dal vivo, i Gatecreeper confermano insomma di essere una band solida e rodata, capace di far presa sul pubblico con un approccio diretto e incisivo. Brani come “Flamethrower” e le nuove tracce, arricchite da riff più ritmati e accessibili, danno vita a una scaletta efficace, trasformando il palco in un campo di energia e catturando l’attenzione di una platea a questo punto davvero vasta e partecipe.
A metà pomeriggio, sul secondo palco, tocca quindi ai famigerati 200 STAB WOUNDS: il quartetto statunitense attacca senza troppi fronzoli e riesce in men che non si dica a prendere in pugno la platea con il suo stile violento, serrato e anche discretamente variegato, visto che, nella loro struttura sommariamente death metal, i Nostri da sempre inseriscono diversi elementi thrash e hardcore.
Come prevedibile, è un concerto squisitamente ignorante, quello del gruppo di Cleveland, improntato su canzoni – “Drilling Your Head”, “Itty Bitty Pieces”, “Ride the Flatline”… – ricche di cambi di tempo e registro, i cui passaggi più diretti e groovy funzionano alla grande nel contesto live. Si vede che la band è abituata a stare sul palco e, dal canto suo, il pubblico risponde con grande entusiasmo, ricambiando gli sforzi dei 200 Stab Wounds con un pit piuttosto animato.

Sul palco minore, gli HANGMAN’S CHAIR rielaborano quindi il loro sludge doom venato di influenze wave e post punk in una performance che si distingue presto per la sua intensità emotiva e le atmosfere malinconiche. La band francese, ormai ben conosciuta per la capacità di combinare riff groovy con melodie orecchiabili e dolceamare, presenta una scaletta che mette in luce il lato più oscuro e introspettivo della giornata.
Brani come “Cold & Distant”, “An Ode to Breakdown” e il nuovo singolo “2 AM Thoughts” evocano un’atmosfera densa di pathos, sì dominata dalle ispirate linee vocali del chitarrista/cantante Cédric Toufouti, ma anche e soprattutto sorretta da una sezione ritmica molto abile nel sottolineare i passaggi più potenti.
Il pubblico reagisce con un ascolto attento, visibilmente apprezzando la qualità musicale e la profondità emotiva che gli Hangman’s Chair riescono a trasmettere dal vivo, con vari passaggi che riportano alla mente quanto i compianti Type O Negative erano spesso in grado di architettare. L’esibizione finisce insomma per configurarsi come una nuova e gradita pausa riflessiva nel ritmo serrato della giornata.

Tornando sul palco principale, i NAILS si confermano tra gli indiscussi protagonisti della giornata, presentandosi davanti a una platea vastissima con una ferocia e una brutalità che immediatamente riescono a catturare l’attenzione di fan e occasionali avventori. Il loro set è breve, ma ogni minuto è si rivela colmo di pura aggressività, con brani come “You Will Never Be One of Us” e “Suffering Soul” che impiegano pochissimi secondi per scatenare il caos totale.
Davanti a Todd Jones e compagni, il Damnation Festival si trasforma in un’arena di pura violenza sonora, in cui i mosh pit si susseguono senza sosta e dove la security viene finalmente impegnata seriamente da una lunga serie di crowd surfing.
Come di consueto, la band sceglie di mantenere un ritmo serrato, senza pause, con transizioni rapidissime tra un brano e l’altro, e questo approccio conferisce alla performance un impatto quasi claustrofobico, lasciando chiunque senza fiat, oltre che stupito dalla rinnovata tenuta del frontman e dal tiro del nuovo batterista Carlos Cruz.
Davanti a una prova tanto intensa, in pochi hanno espresso il desiderio che il set fosse più lungo: del resto, è evidente che la forza dei Nails risieda anche nella loro capacità di concentrare energia estrema in pochi, intensissimi minuti. La loro è stata senza dubbio l’esibizione più seguita e apprezzata di questa edizione dell’evento.

Tornando davanti al terzo palco, il set dei DOOL ci offre quindi un cambio di atmosfera netto, aggiungendo un tocco di eleganza e mistero alla serata.
La band olandese si presenta con la solita presenza magnetica e carismatica, in particolare grazie alla frontwoman Ryanne van Dorst, la cui voce profonda e affascinante impiega poco per irretire il pubblico.
L’abilità del gruppo olandese di fondere influenze goth, doom e rock psichedelico dà vita a una performance altrettanto varia, capace di alternare momenti di dolcezza malinconica a passaggi di intensità più cupa, in cui emerge la solita grande verve della cantante/chitarrista. Il pubblico, dal canto suo, si lascia via via conquistare dall’eleganza e dalla profondità del sound del quintetto, facendosi più caloroso con il passare dei minuti ed esplodendo del tutto nel corso della riuscita cover di “Love Like Blood” dei Killing Joke.
D’altronde, la band mostra ormai una perfetta padronanza del palco, alternando momenti di intensa introspezione a passaggi più energici e coinvolgenti. È uno show che aggiunge una dimensione sonora più morbida e raffinata alla serata, regalando agli spettatori un’esperienza diversa.
Sul main stage, anche il ritorno dei BLEEDING THROUGH viene accolto con entusiasmo dai fan, molti dei quali aspettavano da anni di poter rivedere la band dal vivo. Nonostante alcuni problemi con la resa sonora, che a tratti risulta un po’ impastata, il gruppo riesce a mantenere alta l’energia per tutta la durata del concerto, proponendo una scaletta carica di classici. Il set è in effetti per lo più dedicato al celebre “This is Love, This is Murderous”, con pezzi come l’opener “Love Lost in a Hale of Gunfire” o “On Wings of Lead” che riscuotono subito il favore del pubblico, con molti fan intenti a cantare a squarciagola e a lasciarsi trascinare dai ricordi evocati dalle canzoni.
La band mette in campo la solita grinta, con il frontman Brandan Schieppati che incita il pubblico a più riprese e la tastierista Marta Peterson che ogni tanto lascia il suo posto dietro allo strumento per contribuire ad aizzare la folla.
Purtroppo, come accennato, la resa sonora non è sempre ottimale, con alcuni brani che perdono di impatto a causa dei volumi sballati, soprattutto per quanto riguarda le chitarre. Nonostante ciò, l’energia dei Bleeding Through e l’entusiasmo dei fan rendono lo show piuttosto divertente: questo tipo di metalcore non viene spesso considerato dall’organizzazione del festival, ma si può dire che quest’oggi la scelta di puntare su un nome un po’ più mainstream come quello dei californiani si sia rivelata azzeccata.

L’ennesimo cambio di registro avviene sempre sul palco principale e viene messo in atto dai RUSSIAN CIRCLES. Gli americani allestiscono uno degli show più particolari della giornata, con il loro post-metal strumentale e progressivo che, grazie a una dinamica perfetta, riesce presto a catturare l’attenzione di un pubblico in ascolto quasi reverente.
La band è da tempo maestra nel creare paesaggi sonori evocativi e stratificati, in cui si percepisce puntualmente una grande abilità nel bilanciare i momenti di calma e tensione, alternando passaggi decisamente pesanti a momenti più delicati e ariosi.
Come al solito, la prova del trio di Chicago è caratterizzata da una precisione tecnica impeccabile, con la chitarra di Mike Sullivan che esplora melodie complesse e il basso di Brian Cook (Botch) che contribuisce a costruire un groove solidissimo. L’assenza di voce permette al pubblico di concentrarsi appieno sulle costruzioni sonore e sulle complesse progressioni strumentali che i Russian Circles sanno realizzare e l’effetto complessivo si conferma immersivo, una sorta di viaggio interiore che lascia i presenti estasiati, nonostante la dolorosa assenza di canzoni estratte da capisaldi come “Station” e “Geneva”.
Il ritorno dei DRAGGED INTO SUNLIGHT sul palco dopo anni di assenza è poi un altro dei momenti più attesi della giornata. Volendo subito fugare ogni dubbio, la band britannica non delude affatto le alte aspettative.
Con uno show travolgente e annichilente, il quintetto scuote il secondo palco della BEC Arena, facendosi accompagnare da luci stroboscopiche che amplificano di parecchio l’effetto opprimente della musica.
La band, avvolta da un’ombra quasi perenne e circondata da fumo, candele e teschi di caprone, offre una performance lucidissima e a dir poco intensa, con brani come “Boiled Angel” e un po’ tutto l’intero “Hatred For Mankind” che colpiscono subito con una violenza sonora inaudita, anche grazie a una definizione di cui gli inglesi raramente hanno goduto in passato. I volumi altissimi e la consueta assenza di interazione con il pubblico creano un’atmosfera impenetrabile, quasi claustrofobica, che risucchia immediatamente i tantissimi spettatori accorsi in sala.
Questo ritorno sul palco segna indubbiamente un capitolo indimenticabile per il festival e per gli stessi Dragged Into Sunlight, che si confermano una delle esperienze live più disturbanti e coinvolgenti della scena estrema.

Infine, i CRADLE OF FILTH chiudono la giornata e l’intero festival con quel mix di teatralità, classicità e vena macabra che ormai da tantissimo tempo rende i loro concerti un’esperienza sui generis.
La band si presenta con una scenografia curata in ogni dettaglio, ricca di elementi visivi che possono ricordare un’oscura cattedrale in rovina, e un’illuminazione suggestiva che esalta i brani più iconici del loro repertorio. Sebbene la presenza scenica resti forte, è inevitabile notare come l’età cominci a farsi sentire, sia tra i membri della band, sia tra il pubblico storico che li segue da anni e che ormai ha raggiunto una maturità simile.
Durante lo show, infatti, è evidente come gli avventori più giovani, forse meno legati alla formazione e al suo immaginario, abbandonino progressivamente la sala, lasciando lo spazio principalmente a uno zoccolo duro di appassionati di lunga data.

I Cradle of Filth offrono comunque una prova solida e appassionata, con Dani Filth che, pur con qualche segnale di affaticamento, sa come mantenere il suo tipico carisma. La voce del frontman, un tempo riconoscibile per gli acuti striduli e le profondità gutturali, mostra ovviamente qualche limite rispetto ai tempi d’oro, ma l’artista riesce a compensare queste variazioni con una maggiore presenza scenica e un’attitudine a coinvolgere il pubblico.
Brani come “Summer Dying Fast” e “Malice Through the Looking Glass” riportano molti spettatori ai tempi in cui la band era all’apice della popolarità, generando cori appassionati tra i fan più affezionati. Anche la scelta della scaletta, che include soprattutto gemme del repertorio anni Novanta, è un omaggio a chi ha seguito la band fin dagli inizi, facendo rivivere l’essenza di quell’immaginario gotico e provocatorio che ha reso celebri i britannici.
Nel corso dello show, i costumi, i movimenti studiati e le pose sceniche dei musicisti aggiungono poi un ulteriore livello di teatralità, mantenendo alta l’attenzione della platea. Questo approccio scenografico permette al gruppo di ovviare alle sfide che derivano dall’età, trasformando alcuni pezzi in una sorta di rappresentazione teatrale in cui la musica e l’immagine si fondono in un tutt’uno.
A conti fatti, il concerto si dimostra insomma una celebrazione nostalgica dell’eredità della band e un momento di condivisione per i fan che hanno visto Dani e soci evolversi nel corso dei decenni. Una chiusura azzeccata per un evento che questa volta più che mai ha messo in mostra moltissime sfaccettature del nostro panorama musicale.

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