Report di Giuseppe Caterino
Città dell’Oktoberfest ma non solo, Monaco ha tra le sue carte da giocare anche un festival indoor dedicato al metal estremo ed in attività da ben dieci anni. Il Dark Easter Metal Meeting apre le sue porte per festeggiare degnamente la Pasqua cristiana a suon di blasfemia e nefandezze metalliche, e lo fa in grande stile nella cornice del Backstage, locale molto ampio e bello, con diversi spazi aperti e tre palchi a disposizione, di cui due sui quali gli artisti suoneranno in contemporanea.
Questa forse una piccola nota a nostro gusto rivedibile, visto che una ogni due band verrà sacrificata in favore dell’altra, ma ovviamente gli organizzatori avranno fatto i loro ragionamenti in tal senso, optando per questa soluzione in modo da avere una più ampia scelta ed accontentare un maggior numero di persone; in ogni caso, il gruppo nel main stage riuscirà a suonare sempre in solitaria, senza sovrapposizioni. Per il resto la gestione è stata praticamente perfetta, con una conduzione dei punti vendita abbastanza snelli, prezzi contenuti e possibilità di rifocillarsi variamente in loco.
Molto fa anche la facile raggiungibilità del luogo dell’evento, e, non ultimo, l’atmosfera creatasi tra band e pubblico, quest’ultimo variopinto e prevalentemente di casa (ma abbiamo spesso sentito favellare l’idioma di Dante, giacché, tutto sommato, Monaco è facilmente raggiungibile anche in auto), capace di convivere civilmente e in festa (un esempio ai nostri occhi davvero inusuale è stata l’offerta di birre in bottiglia di vetro, da restituire con cauzione: di vetri per terra ne abbiamo visti davvero pochi). Un festival che ha visto il tutto esaurito già diverse settimane prima della sua messa in atto – ci sentiamo di azzardare una stima di duemila persone presenti – e cha ha mostrato un’atmosfera rilassata, una gestione dei suoni quasi sempre ineccepibile e una puntualità tipicamente teutonica.
Peccato per le defezioni che il bill ha dovuto subire: dai White Ward ai 1914, per cause tristemente di forza maggiore riguardanti il conflitto in Ucraina, ai Grave, vittime di un per fortuna lieve incidente e sostituiti il giorno stesso, ma anche Nifelheim, Bethlehem, entrambi assenti, come dichiarato dalle band stesse, per generici motivi personali. Sebbene orfano dunque di alcuni nomi di grande rilievo nell’underground, il festival si è comunque svolto con grande fervore e senza far rimpiangere le band inizialmente coinvolte, e le facce soddisfatte del popolo metallaro, truci ma sorridenti, hanno confermato la bontà dell’operazione. Ecco come si sono svolte le cose!
SABATO 8 APRILE
Ad aprire le danze troviamo gli IN APHELION, band che vede tra le sue file le chitarre dei Necrophobic (i quali si esibiranno poi in serata), e che al suo ingresso nel main stage vede alla sua corte una sala gremita a dispetto dell’orario, essendo solo le 14.30 – cosa che sottolineerà anche uno stupito Sebastian Ramsted, chitarra e voce, dicendo che si aspettavano di suonare in una stanza vuota. Sebbene il volume della voce nell’immediato inizio sia ancora da assestare, stupisce la bontà dei suoni in generale, e veniamo immediatamente investiti dal black metal melodico dell’opener dell’unico full-length all’attivo. “World Serpent (Devourer of Dreams)” sarà di fatto l’unico brano che soffrirà di qualche problemino tecnico, visto che per il resto dello show si sentirà tutto benissimo.
L’attitudine della band è abbastanza caciarona e divertita, e invero si ‘annusa’ l’approccio da side-project sì professionale, ma che si può permettere il lusso di essere meno ‘trve’ e più festaiolo. Le influenze marcatamente heavy metal che fanno da sfondo alla scrittura dei brani si sposa benissimo col pubblico tedesco, che accetta tutti gli inviti ad incitare e supportare la band, e lo show, a parte qualche fischietto qua e là, si svolge in maniera impeccabile.
Un inizio eccellente, seguito a ruota dallo spostamento di palco per assistere al set dei GROZA, gruppo che battezza il palco ‘Halle’. Il nome può ricordare un certo disco di una certa band polacca, ed è vero che questi tedeschi dediti al black metal non si sforzano troppo a nascondere particolari ispirazioni dagli autori di “Excercise in Futility” (una canzone come “Elegance of Irony” del resto sembra un vero e proprio tributo); il look incappucciato (moda che sin troppe band hanno fatto propria) e una certa concessione a marce melodie oscure, così come un’impostazione di palco piuttosto statica, rientrano certamente in un certo filone black metal moderno. Guardando all’esibizione, però, non possiamo che sottolineare la professionalità dei Groza: musicisti tutto fuorché alle prime armi, i tre (in formazione infatti ridotta – il basso era in base!) sanno esattamente come scrivere e suonare un black metal atmosferico efficace e che dal vivo rivive con gran vigore, sebbene l’impressione di un progetto un po’ modaiolo non riesca ad abbandonare del tutto chi scrive; pensiero certamente isolato, visto il pienone sorprendente davanti al palco, accolta trionfalmente. I suoni e l’esecuzione hanno fatto sì che il concerto fosse impeccabile, quindi, al di là di ogni pensiero, hanno certamente ragione loro.
Salutati i Groza, ci affrettiamo a tornare al ‘Werk’ stage, dove dei veri pezzi da novanta stanno per mettere il volume a dieci per il pubblico di casa. I tedeschi SULPHUR AEON hanno alle loro spalle dei dischetti che sono delle vere cannonate, e non vedevamo l’ora di saggiare le loro capacità, assieme a davvero molti altri fan del genere: sono le quattro e venti del pomeriggio, e il fronte palco è gremito come non mai, e del resto i Sulphur Aeon vengono accolti come vere e proprie superstar dal pubblico di Monaco.
Luci basse, intro oscura e via con “Cult Of Starry Wisdom”, opener dell’ultimo uscito in casa Sulphur Aeon, “The Scythe of Cosmic Chaos” dell’ormai lontano 2018 – che avrà la parte maggiore del minutaggio del gruppo – subito seguita da “Yuggothian Spell”, altra cannonata. L’impatto è notevole, la band pare una macchina da guerra e riesce a letteralmente far cantare brani death metal ad una platea in visibilio. La prova tecnica ai nostri occhi è incommentabile, tale la sua perfezione, con un culmine agli onori di Daniel Dickmann, batterista francamente inumano. Un viaggio negli orrori lovecraftiani (e nelle varie prove della band) che dura poco meno di un’oretta, in cui i suoni cristallini e la prova senza sbavature della band tedesca fa sì che si crei l’ormai sempre più raro effetto di straniamento e di ‘ritorno sulla terra’ alla fine del concerto, che vede i Sulphur Aeon uscire tra applausi più che meritati. A nostro avviso concerto del festival, togliendo i Candlemass, che, come vedremo, saranno fuori da ogni eventuale classifica.
Abbiamo cinque minuti per riprenderci e correre all’Halle (sacrificando il terzo palco, il raccolto ‘Club’, dove le esibizioni sono, come detto, in contemporanea all’Halle) per vedere cos’hanno da raccontarci i DARVAZA: il black metal della band italo-norvegese si stacca decisamente da quanto proposto dai gruppi d’apertura, suonando più feroce e vecchia scuola, e l’impatto è di una cattiveria inaudita. Alla chitarra troviamo Gionata Potenti (polistrumentista che suona tutto in studio e che rivediamo anche in Chaos Invocation, Frostmoon Eclipse e molti altri), il quale assieme ai sodali genera uno show che ricorda le gesta di mostri sacri quali Mayhem, Taake (il cantante, già tra le fila di One Tail One Head, ricorda nel modo di fare un certo Hoest), e aiutati da dei suoni che esaltano la potenza e la cattiveria dei brani estratti “Ascending Into Perdition” annichiliscono i presenti, che anche qui registrano un full house notevole grazie all’impietosa scarica di metallo estremo sinora piovutaci addosso. Immarcescibili e giustamente applauditi.
Dopo una piccola pausa al sapore di birra bavarese, torniamo al Werk stage, dove troviamo una band che di certo non ha bisogno di presentazioni per i frequentatori di festival, ovvero i ‘prezzemolini’ DARKENED NOCTURN SLAUGHTERCULT, band capitanata dalla soavemente bianco-vestita Onielar, anche in forza nei Betlhehem, che di fatto avrebbe dovuto suonare in questo slot.
Che dire di un live dei Nostri? La band tedesca si conferma una garanzia, e certo la sua presenza in molti festival è dovuta anche a questa pervicace capacità di ‘spaccare tutto’ sempre e comunque. Imperterriti e devoti al black più oltranzista e blasfemo, i teutonici anche in questa sede non si risparmiano, e tra sangue vomitato, corone di spine e una carrellata di brani presi da diversi album (con un picco su “Hora Nocturna”) confermano ancora una volta il proprio valore, con un live show energico, senza sbavature né però grossissimi picchi. Va detto che per chi li vede per la prima volta deve essere sempre uno spettacolo difficile da togliersi dalla mente.
Dopo una tale impietosa infornata di nomi imperdibili, abbiamo il primo slot della giornata un po’ meno ambito, e infatti notiamo qualche presenza in meno all’interno dell’Halle per il concerto degli AGRYPNIE. Il post-black dei tedeschi non avrebbe nulla che non va, del resto, ma non raggiunge le vette di chi li ha preceduti. Riscontriamo in effetti uno show energico e ben affrontato dal gruppo, sebbene la voce, in sede live, sia abbastanza scadente e, in generale, il concerto non sembri mai decollare. Insomma, un buon collante tra la furia con cui la giornata è cominciata e gli ormai prossimi concerti dei ‘big’ della serata, ma in generale ci è sembrato il classico gruppo da ora di cena, col quale del resto le file alle casse si sono allungate particolarmente.
Scocca dunque l’ora dei NECROPHOBIC, in gran spolvero e agghindati per le grandi occasioni, arrivando sul palco salutando a corna alte il pubblico tedesco, e sulla scia dell’intro attaccano con “A Taste Of Black”, che evidenzia subito tiro e stato degli svedesi. I suoni sono ottimi, così come la presenza scenica di una band attiva da tre decenni abbondanti e la cui esperienza si vede tutta, tra scambi con l’audience, scapocciamenti e sfuriate ben controllate. Nei circa cinquanta minuti a disposizione infatti il death-black della band non arresta quasi mai, la band è attiva e sa decisamente come intrattenere il pubblico di casa (Anders Storkirk gioca più volte ad aizzare i presenti a sostenere la band), e assistiamo a uno show molto tradizionale, con brani che rispolverano un po’ tutta la discografia, e tra cui spiccano “Tsar Bomba” (acclamata con un’ovazione notevole) e ben due estratti dal primo disco, tra cui la spesso richiesta “The Nocturnal Silence”, che chiude un concerto di pregevole fattura.
Facciamo la prima pausa anche noi, e torniamo sul palco del Werk stage per gli headliner della prima sera del Dark Easter 2023, ovvero gli immortali CANDLEMASS. La band svedese non ha bisogno di presentazioni, e non sono poche le persone a scandire il nome del gruppo chiamandoli sul palco. Ci stupiamo, tuttavia, di notare che attorno a noi c’è qualcuno di meno rispetto ad altri nomi visti durante la giornata, vedendo qualche spiazzo più libero di gente, segno che forse l’impronta estrema del festival ha portato qualcuno ad uscire al freddo per cenare o prendersi una pausa.
Poco male, al suono dell’iconica intro “Marche Funebre”, ecco entrare alla spicciolata i Candlemass, che attaccano immediatamente con “Mirror Mirror”, facendo piombare immediatamente sulla platea il suo metallo epico e pregno di groove. I suoni sono pesanti e precisi, ogni ritmo ci cade sulle spalle e si sussegue per tutta la scaletta, da “Bewitched” a “Crystal Ball”. Assistiamo ad un best of dei primi tre dischi, praticamente, e i Candlemass sanno bene che scaletta eseguire per far felici gli astanti di un festival, dedicando solamente la pur discreta title-track all’ultimo uscito, “Sweet Evil Sun”, come presumibile accolta con una certa freddezza rispetto al resto della scaletta, fatta di classiconi.
Non è certo una novità per gli scandinavi, del resto: li abbiamo visti più volte nel corso degli anni, e non è la prima volta che notiamo la scelta di proporre brani ‘per il pubblico’, anche a fronte di nuove uscite; una scelta da band che probabilmente ritiene il proprio repertorio storico quello da cui attingere per accontentare i propri ammiratori, ma che non lesina poi nella scrittura di nuovo materiale, più che degno ma non al livello delle opere classiche. Insomma, un scelta che può piacere o meno, guardandola dall’esterno, ma che in questo momento dà i suoi frutti. Il gruppo è davvero in forma, con un Leif Edling rilassato che degusta del vino al calice e macina le quattro corde del suo basso a fare da tappeto alle asce, vere protagoniste del concerto. Senza dubbio Johan Längquist è a questo punto ormai rodato nel suo ruolo di cantante ritrovato dei Candlemass, e sebbene in alcuni punti la sua voce sia consapevole di non poter toccare determinate vette, soprattutto nei pezzi di Messiah Marcolin, sa esattamente come sopperire rielaborando le linee vocali e avendo una presenza scenica convincente e adeguatamente istrionica. Insomma, un trionfo per gli amanti dei tempi d’oro della band, ed è quasi commovente la chiusura del concerto a salmodiare tutti assieme, band e pubblico, “A Sorcerer’s Pledge”, prima di lasciare il palco tra gli applausi e l’immortale “Solitude”, cantata praticamente da chiunque, roadie compresi. La qualità che i Candlemass si portano appresso non sembra affievolirsi con gli anni, e il trionfo di applausi è quanto mai meritato.
Dopo questo tuffo in un’epoca classica del metallo tutto, torniamo ad affogare nell’oscurità, tornando nei pressi dell’Halle, per lo show dei THY LIGHT, che a malincuore preferiamo ai Kvaen, in contemporanea presso il Club. Il depressive black metal della band di Paolo Bruno è estremamente atmosferico, dote che bilancia con delle belle aperture lunghe ed ipnotiche, tese a ripetersi e a creare un senso di forte spaesamento, cosa che dal vivo rende ancora di più l’idea di tale sensazione. La giornata è stata lunga e densa, eppure sono davvero tanti i metallari al cospetto di questo progetto che, complici dei suoni ancora una volta inappuntabili, creano uno show che rivede tre lunghi brani dal demo “Suici.De.Pression” passando per un unico estratto dall’unico full-length ad oggi, “No Morrow Shall Dawn” e i venti minuti di “Infinite Stars Thereof”, edita nell’EP omonimo del 2021. Sebbene la concentrazione a questo punto della giornata non sia alle stelle, non possiamo che lasciarci cullare dalla torbide melodie composte da una band sul pezzo, in grado di mantenere anche dal vivo quanto proposto su disco.
Resta un ultimo nome a chiudere la prima giornata del Dark Easter Metal Meeting 2023, ma come già detto in giornata veniamo informati dell’assenza dei Grave per via di un incidente stradale (per fortuna) non grave, a quanto pare. La sostituzione, avvenuta evidentemente nel giro di poche ore, porta tuttavia qualche sorriso sulle labbra di molti, e quando ci ritroviamo nel main stage di fronte ai PUNGENT STENCH – o quel che ne resta sotto il nome di SHIRENC PLAYS PUNGENT STENCH, moniker con il quale, per via di dispute legali con gli ex membri della formazione, il chitarrista cantante porta in giro il progetto dal 2014 ad oggi – possiamo assolutamente capire il perché.
L’atmosfera creata dal trio capitanato da Martin Shirenc è festaiola nella propria marcezza volgare e splatterosa, e il death metal che ci assale è fragoroso e ignorante, irresistibile nella sua rozzezza; tra un’attitudine ai limiti del grindcore più gore, qualche pogo e un nugolo di irriducibili nelle prime file estasiati dall’intonare brani come “Blood, Pus and Gastric Juice” o “Viva La Muerte”, il trio ci manda tutti a casa a letteralmente calci nel didietro e fa calare il sipario sul primo giorno di festival.
DOMENICA 9 APRILE
Un bel sole fa capolino per mitigare il freddo bavarese la domenica di Pasqua, che andiamo a festeggiare degnamente nella sua versione oscura dopo un adeguato pranzo del luogo, per arrivare ad un Backstage già gremito, come il giorno prima, sin dalle primissime ore, ma nel quale percepiamo un’atmosfera decisamente più tranquilla e domenicale. C’è anche da dire che la line-up ha sparato delle cartucce forse più esplosive nelle primissime posizioni del giorno prima, e in generale oggi viviamo il festival in maniera rilassata, almeno nel primo pomeriggio, tra giri tra le bancarelle e al merch ufficiale del festival, ad osservare incuriositi il viavai di gruppi in zona camerini e tra chiacchiericcio vario tra appassionati. Ne approfittiamo anche noi per vedere meglio il Backstage, bello spazio molto aperto, funzionale, con divanetti all’aperto e sedute varie, e diversi punti vendita per bevande (un po’ meno forse per il cibo, portando al formarsi, nelle ore di punta, una lunga coda nel chiosco principale – dove verranno serviti tuttavia dei leggendari panini aringa e cipolla, spatzle e almeno un panino con scelta vegana), dove una birra bavarese, da mezzo litro o direttamente in bottiglia – di vetro! – viene venduta a quattro euro e cinquanta, prezzo che ci allieta non poco.
Sono gli italiani ENISUM il primo gruppo col quale scaldiamo la nostra giornata: la band piemontese, posizionata sul palco dell’Halle, ha l’opportunità di suonare di fronte ad un pubblico decisamente vasto, e il suo ambient black metal sembra perfetto a bilanciare il sole là fuori: luci blu, ambientazione vagamente bucolica, i quattro fanno breccia alternando sfuriate di sapore cascadian ad aperture melodiche assolutamente funzionali, che il pubblico non fa mistero di apprezzare con incitamenti e attenzione.
Si cambia decisamente registro invece con i KANONENFIEBER: la band bavarese, chiamata a sostituzione dei 1914, gioca in casa, e viene accolta con onori da local heroes, e di certo i cinque non si tirano indietro dal creare uno show difficile da dimenticare. Gli organizzatori hanno giocato un’ottima carta nel coinvolgere un progetto che, come nel caso degli ucraini, ha come concept la prima guerra mondiale, precisamente nel rielaborare scritti e lettere originali del tempo.
Il loro death-black melodico è d’impatto e facilmente assimilabile, ma dove i Kanonenfieber calano l’asso è sulla teatralità dell’esibizione: filo spinato, sacchi da trincea, recitazione, microfono usato per dare fucilate al pubblico (con tanto di campionamenti di proiettili sincronizzati), neve finta su abeti desolati… L’accostamento con l’approccio dei ben più famosi Ghost ci è venuto automatico, perlomeno nella capacità di mettere in scena un (pur) tetro spettacolo, e va detto che sembra che i Nostri abbiano investito molto per effetti scenici e merchandising; sembra insomma che il lato ‘commerciale’ di tutta la faccenda non sia di secondo piano, cosa che non è per forza un male.
Per fortuna, comunque, non è tutta immagine: la band suona in una maniera francamente pazzesca, la sezione ritmica è micidiale, così come l’esecuzione delle parti di chitarra ci lasciano più volte a bocca aperta, ma a giudicare dalle reazioni del foltissimo pubblico non siamo i soli. Il concerto gode anch’esso di suoni ancora una volta molto buoni, e il nome dei militari incappucciati viene scandito più volte durante l’oretta a disposizione. Ne sentiremo certamente ancora molto parlare.
Lasciamo le atmosfere anni ‘10 del secolo scorso per tornare verso l’Halle, dove tocca ai SEAR BLISS non farci rimpiangere l’assenza dei White Ward; senza timori di smentita, la band ungherese si può definire tranquillamente nome di culto della scena ambient/pagan black metal europea, attiva dai primi anni ‘90 e con un numero decisamente corposo di dischi alle spalle, e sebbene la platea non sia al suo completo, sono molti ad essere accorsi per la band.
La cosa che salta (ovviamente) subito all’occhio è l’utilizzo di un trombone ad accompagnare gli strumenti più canonici, e le atmosfere create sono di forte impatto anche a fronte dello straniamento che gli strumenti possono creare nel loro insieme, di sicuro molto forte; la band ha un approccio per niente ‘true’, divertendosi a interloquire col pubblico e a scambiare qualche battuta. Tra momenti più violenti di forte impatto e vagiti post-rock, gli ungheresi trovano il tempo per proporre un brano nuovo (ancora senza titolo, viene detto con franchezza da un divertito Andràs Nagy) e ripercorrere la propria discografia, dal gustoso “Phantoms” all’ultimo uscito, “Letters From The Edge”, del 2018. Concerto di valore e applausi meritati.
Avevamo lasciato i SACRAMENTUM con una prova incolore l’anno scorso, e dunque eravamo pronti un po’ a tutto nell’assistere alla prova degli svedesi, che anche in questa occasione riproporranno il loro storico “Far Away From The Sun”, disco di assoluto pregio e valore del black metal melodico scandinavo. Diciamolo subito, nemmeno questa volta assistiamo al concerto della vita, ma la figura della band viene in qualche modo riabilitata. Il senso di appesantimento sembra essere stato sostituito da maggiore focus sulle capacità dei singoli musicisti, laddove anche i suoni (sebbene non perfetti) hanno aiutato.
La prestazione è questa volta dignitosa, ma con il materiale di partenza a disposizione, suonato bene, si fa fatica a sbagliare. Nisse Karlén, avvolto dalle fumose luci blu, gioca molto a fare il mattatore d’altri tempi, e sebbene la forma fisica non sia quella di un ventenne, non si tira indietro da una prestazione ancora una volta molto sudata, bevuta kitsch e imbrattamento col sangue inclusi. Certamente un po’ fuori tempo massimo, forse, ma quel che conta è la prestazione vocale, e per fortuna non possiamo lamentarci troppo; a essere severi, qualche momento impreciso c’è stato, e il concerto dei Sacramentum sembra mancare un po’ di quel tiro necessario a far partire il concerto verso le stelle, ma, insomma, è proprio il caso di dire che ci aspettavamo di peggio. Comunque Sacramentum promossi sicuramente dal pubblico, festante per gli svedesi, e quindi questa volta va bene così.
Ci troviamo ora a dover tirare la proverbiale monetina per scegliere il prossimo gruppo, e propendiamo per i DREAD SOVEREIGN in sfavore dei Lucifer’s Child (che speravamo in qualche maniera di recuperare, ma che il pienone all’Halle ci ha impedito anche di farci sbirciare), e assistiamo – finalmente – ad un concerto al Club stage, spazio più piccolo e raccolto, molto piacevole per la sua forma intimistica e la possibilità di assistere agli show dal piano di sopra.
La band irlandese vede all’interno del suo trio la presenza di Alan Averill, cantante dei Primordial, e di Johnny King dei Conan dietro le pelli, e le prove in studio facevano ben sperare per un concerto gustosissimo di doom metal sporcato di heavy metal classico; purtroppo però la prova ci lascia abbastanza perplessi. Al di là di trovarci di fronte ai primi e unici suoni davvero pietosi del festival (e a questo punto non capiamo se il problema sia la band…), la formazione a una sola chitarra mostra il fianco in sede live, facendo risultare i brani piuttosto scarni e noiosetti, e a poco è valsa l’attitudine old-school sul palco da parte del chitarrista Bones, inviperito come un metal hero degli anni ‘80. Insomma, non sono certo alle prime armi, i componenti dei Dread Sovereign, e il loro sporco show lo portano a casa, ma in generale la prova non ci entusiasma, vista anche la difficoltà nel capire qualcosa di quello che veniva suonato. Peccato, speriamo di recuperare.
E’ il turno di un pezzo da novanta del black metal scandinavo: alle 20 precise i NAGLFAR attaccano, su di un palco degnamente agghindato, con “Blades” (dal loro secondo disco “Diabolical”), sparata subito dopo l’intro impietosamente sulla folla. Il brano d’apertura sarà il più vetusto degli svedesi, che concentrano lo show sull’ultimo “Cerecloth” e su “Harvest” prevalentemente, con una capatina dalle parti di “Pariah”. Lo show è marziale, scandito da precisione nordeuropea e tanta cattiveria musicale. L’immagine è essenziale, e tutto quello che occorre ai Naglfar è la propria musica per annichilire i presenti al Werk stage, dove, complice anche la resa sonora, assistiamo ad un trionfo di black metal suonato con esperienza trentennale e con poche concessioni a chiacchiere e trastullamenti fino alla chiusa ad opera dell’epica “Harvest”, che vede uscire la band tra gli incitamenti del pubblico.
Piombiamo nel vortice del più violento e tradizionale black metal con i francesi MERRIMACK, immersi nella più fumosa oscurità del Club stage. Il suono è sporco e morboso, ma questo è uno di quei rari casi in cui la cosa è un pregio: la band è infatti un’entità di cattiveria che ben si sposa con una cacofonia malata, eppure capace di evocare sensazioni annichilenti e distruttive. Nello specifico, i transalpini hanno una padronanza del palco molto marcata, e tra incedere in gustosi midtempo, capaci di sfociare in sfuriate e dissonanze, riescono a creare un contesto davvero sulfureo. La presenza è decisamente old-school, e il cantante, Vestal, sembra davvero indemoniato nel vomitare discordia tra un brano e l’altro, riempiendosi di pugni durante la propria esibizione ed evocando un senso di disagio assolutamente palpabile. L’effetto mortifero dei Merrimack si propaga sui presenti, che tra qualche incitamento ma, più in generale, un’osservazione attenta dell’esibizione, si lasciano cullare per la quasi oretta di un concerto che sembra provenire da altri tempi.
E dopo un tale tuffo nella tradizione, si posiziona assolutamente bene la presenza di chi certe sonorità ha contribuito a crearle, essendo il turno dei TRIUMPH OF DEATH, ovvero la band con cui Mr. Thomas Gabriel Fischer, alias Tom G. Warrior, riporta in vita le canzoni dei seminali Hellammer, band tra le ispiratrici del metal estremo europeo, a dir poco, e dalle cui ceneri sorsero i Celtic Frost.
Che dire di uno show del genere? Assolutamente basilare nell’esposizione, con un tiro che proviene direttamente dalle viscere dell’inferno, di fronte a cui è impossibile restare impassibili se ci si è imbattuti in un certo tipo di metal estremo, magari in giovane età. I brani proposti sono embrionali, ogni riff ricorda qualcosa che è venuto dopo, sia esso parte di una “Maniac”, di una “Crucifixion”, dell’irresistibile “Messiah”. La band è in forma, Tom G. Warrior vaga divertito per il palco, parlando molto con il suo pubblico (in tedesco, peraltro, dunque non sapremo mai cos’ha detto!), e il feeling sul palco si interseca bene con l’apprezzamento del pubblico, che incita continuamente la band, spesso urlando a gran voce dei sonori “Uh! Uh! Uh!”, trademark del cantante. Insomma, un viaggio negli anni ‘80 più essenziali, dove una mistura di heavy metal, punk e tanta rabbia hanno dato il via ad un viaggio che va avanti ancora oggi e, che dire, urlare “Triumph Of Death” sulle note dell’omonima canzone prima della chiusura, assieme ad un branco di scalmanati, non è cosa da tutti i giorni.
Indubbiamente i MISÞYRMING sono tra le ormai (non più tanto new) sensation di questi ultimi anni in ambito di metal estremo, e il fuggi fuggi generale verso l’Halle per accaparrarsi un posto lo fa ben capire. Ancor più lo fa la calca ai limiti dell’invivibile che si crea all’interno, e che ci fa ritenere che questo posizionamento possa essere stato uno dei pochissimi errori di gestione dell’organizzazione del festival: il gruppo islandese avrebbe infatti certamente meritato il main stage, e ad un certo punto ci si trova letteralmente schiacciati uno contro l’altro nel pur ampio spazio a disposizione.
Quando “Hælið” parte a guisa d’intro la platea s’infiamma, così come le temperature, e i quattro ragazzi irrompono con “Orgia”, brano tratto dallo splendido “Algleymi”. I suoni sono spietati (anche se forse un po’ impastati, soprattutto all’inizio), e la band è davvero una macchina da guerra. Toccano le corde di tutti i loro album, i Misþyrming, alternando tanto dal pesantissimo debutto quando dall’ultimo lavoro, che ha visto un’evoluzione del suono verso derive vagamente più classicheggianti; d’altra parte, nella loro veste live non perdono un grammo di cattiveria (del resto non che su disco siano ‘tranquille’). A dire la verità, verso metà concerto, più meno quando i nostri iniziano “Engin Miskunn”, l’atmosfera si fa sin troppo cocente, almeno nella nostra postazione, e iniziamo a soffrire della stretta morsa di pubblico attorno a noi, tanto che cerchiamo di fare qualche passo indietro per una boccata d’aria, operazione alquanto difficile e che ci ha portato di fatto fuori dalla sala con una quasi impossibilità a rientrare.
A malincuore diamo l’arrivederci agli islandesi, e facciamo una capatina nei pressi del Club, dove stanno suonando gli IMPERIAL TRIUMPHANT davanti ad un pubblico sicuramente più dimesso. Cosa possiamo dire di questa band che già non sia stato detto? Geniali musicisti o furbi fautori di caos ben confezionato? Onestamente il nostro giudizio sta nel mezzo. Indubbiamente le partiture, ritmiche in particolare, sono figlie di un lavoro certosino, ma nel complesso il gruppo ci pare sin troppo intento ad estremizzare il concetto della propria proposta, spesso con trovate di dubbio gusto un po’ troppo ‘carnevalesche’, non bastassero le tuniche e le maschere: ad un certo punto viene aperta una bottiglia di spumante sparsa e versata al pubblico, come da podio di Formula 1, i musicisti scendono dal palco e vanno a suonare in giro per la sala, lucine ed effetti vari… Insomma, uno show degli Imperial Triumphant è senza dubbio soggettivo, ci sarà chi li adora e chi resta perplesso di fronte ad uno spettacolo così difficilmente catalogabile, e chi scrive francamente si trova a parteggiare per la seconda fazione.
Il festival è giunto ormai alla fine, scocca la mezzanotte di un secondo giorno interamente dedicato al metal estremo, e chi scrive inizia a scommettere sulla propria resistenza di fronte all’ultimo gruppo, tra i pesi massimi del black metal europeo. Tuttavia è sempre una piacevole sorpresa venire stupiti dalle proprietà terapeutiche di un certo tipo di musica: il tiro e la professionalità dei ROTTING CHRIST risuonano come una fucilata su tutti i presenti al Werk stage, risvegliando ogni animo assopito. Sin dalla partenza affidata a “666” il concerto dei greci è un’esplosione di suoni sapientemente curati, con un Sakis Tolis sugli scudi, vero mattatore, con una nota di rilievo per la chitarra di Kostis Foukarakis, il cui lavoro è eccezionale.
Il concerto richiama diversi lavori della band, con un occhio di riguardo per ““Kata Ton Demona Eaytoy” , con ben quattro estratti da questo lavoro, senza disdegnare un passaggio dall’ultimo uscito, “The Heretics”, fino a passare per il classicone “Non Serviam”, accolto a corna alte da tutti. Sorprende quanto il muro di suono dei Rotting Christ sia capace di essere roccioso e snello allo stesso tempo, lasciando davvero un buon gusto in bocca. La band è in palla perfetta, con Tolis instancabile comunicatore e legante della formazione, e anche i lavori meno a fuoco degli ellenici nella loro sede live acquistano di molto. Insomma, i Rotting Christ appongono la miglior firma che si potesse sperare alla chiusura di un festival indoor al quale abbiamo davvero pochi appunti da fare, e dove speriamo di poter tornare a celebrare la Pasqua Oscura anche il prossimo anno.